Fermare l’aggressione contro la Libia!

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Fermare l’aggressione!
La nostra guerra di Libia continua, nella piena illegalità con cui è cominciata.
L’abbiamo fatta sulla base di una risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite che viola la Carta delle Nazioni Unite, perché la Libia non stava affatto minacciando la pace e la sicurezza internazionale.

L’abbiamo fatta sulla base di un’ondata di informazioni false che non sono state mai verificate: non c’erano i 10 mila morti, non c’erano le fosse comuni; non ci sono mai stati bombardamenti su manifestazioni civili.

Migliaia di missioni di bombardamento della Nato, cui noi partecipiamo, hanno già prodotto centinaia di morti di civili. Noi uccidiamo e non proteggiamo.
Siamo intervenuti in una guerra civile sostenendo una parte contro l’altra senza nemmeno sapere chi sono quelli che diciamo di sostenere.
E finanziamo la rivolta con decine di milioni di euro. Tutto questo non è nemmeno scritto nella risoluzione dell’Onu.
Senza nessuna legittimità noi puntiamo all’uccisione del capo di uno Stato sovrano. E questo assassinio, già eseguito contro uno dei suoi figli, viene pubblicamente auspicato e conclamato dai capi delle potenze occidentali di cui siamo alleati. Stiamo assistendo inerti a un ritorno alla barbarie.
La vergogna di questo atteggiamento infame deve essere distribuita equamente tra tutte le forze politiche italiane. Solo rare voci si levano a protestare. Il pacifismo è inerte e tace anch’esso.
Ma noi non possiamo accettare in silenzio tutto ciò. Non è in nostro nome che si uccide, violando ancora una volta la nostra Costituzione.
Noi non abbiamo voce, ma vogliamo parlare a chi è ancora in grado di ascoltare. Questa aggressione deve finire.

 

Primi firmatari:

Angelo Del Boca
Giulietto Chiesa
Massimo Fini
Maurizio Pallante
Fernando Rossi
Luigi Sertorio
Nicola Tranfaglia
Francesco Badalini
Marino Badiale
Monia Benini
Pier Paolo Dal Monte
Ermes Drigo

firmare qui


Sparizione forzata in Messico: crimine costante

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Nell’ ultima settimana di maggio, dichiarata dall’ONU come Settimana Internazionale del Detenuto Scomparso, ricordiamo i quattro anni della  scomparsa dei due militanti politici  Edmundo Reyes Amaya e Gabriel Alberto Cruz Sánchez.

In Messico si tratta di un caso emblematico  di  sparizione forzata in quanto avvenuta  successivamente al loro arresto (il 25 maggio 2007) a Oaxaca. Da allora dei due uomini non  si sa più nulla ma nulla è emerso ad oggi  nemmeno sul fronte delle indagini. “Fino a questo momento non esiste un solo responsabile indagato per questo crimine, ma non  si sono realizzate neanche  le indagini relative per trovarlo” denunciano in un comunicato i familiari dei due scomparsi.

Di questa vicenda   ce ne eravamo occupati in varie occasioni, anche rispetto al tentativo di mediazione tra il governo messicano e l’ EPR (Esercito Popolare Rivoluzionario), formazione politico-militare alla quale appartenevano Edmundo Reyes Amaya e Gabriel Alberto Cruz Sánchez. La mediazione, della cui commissione faceva  parte anche lo scrittore messicano ora scomparso, Carlos Montemayor,  si risolse  in nulla appena un anno dopo il suo inizio,  per l’evidente  mancanza di volontà del governo messicano a dare risposte certe rispetto alla sparizione dei due integranti dell’ EPR.

La sparizione forzata di persone è un crimine  contro l’umanità e come tale imprescrittibile e continuato, senza possibilità di indulto o amnistia e che continua a perpetrarsi in Messico nonostante siano ormai lontani gli anni bui della “guerra  sucia”.

Vogliamo qui ricordare anche la vicenda di Francisco Paredes, difensore dei diritti umani e co– fondatore della fondazione Diego Lucero, scomparso il 26 settembre del 2007 presumibilmente dopo un arresto effettuato dalla polizia.

Uno degli ultimi casi di sparizione forzata in Messico è avvenuto il 25 marzo scorso quando da Veracruz si sono perse le tracce del militante del Frente Popular Revolucionario Gabriel Antonio Gómez Caña mentre si recava a dare il suo sostegno a più di 500 commercianti ambulanti che da cinque giorni portavano avanti una protesta pacifica nella piazza principale della città contro il provvedimento che vietava loro di esercitare il commercio in strada.

Questi sono i casi invece più recenti di sparizioni forzate denunciate dall’ AFADEM (Associazione dei Familiari dei Detenuti Scomparsi e delle Vittime delle Violazioni dei Diritti Umani in Messico) oltre ai già menzionati di Francisco Paredes, Gabriel Alberto Cruz Sanchez e Edmundo Reyes Amaya:

Víctor Ayala Tapia detenuto scomparso il 14 settembre 2010 a Papanca, Guerrero

Erick Isaac Molina García detenuto scomparso il 14 giugno 2008 ad Acapulco, Guerrero

Jorge Gabriel Ceron Silva detenuto scomparso il 14 marzo 2007 da Chilpancingo, Guerrero Messico.

L’AFADEM reclama inoltre il compimento della sentenza del caso 12511–Rosendo Radilla Pacheco. La Corte Interamericana  per i Diritti Umani il  16 dicembre 2009 ha condannato lo Stato messicano per la sua sparizione avvenuta  il 25 agosto 1974 ad Atoyac de Álvarez ed ha riconosciuto l’esistenza di un contesto di violazioni sistematiche e numerose ai diritti umani durante la così detta “guerra sucia”.

La sentenza inoltre ordinava allo Stato di riformare il Codice di Giustizia Militare per impedire che i casi di gravi violazioni dei diritti umani commesse da membri dell’ apparato di sicurezza dello Stato siano giudicate dal Tribunale Militare e chiedeva  che fosse   tipificato il  delitto di sparizione forzata di persona nel codice penale.

 

 

 

 

 

 

 


Caso Becerra: perché rinuncio a far parte della redazione della rivista ALBAinformazione

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“La solidarietà con il movimento rivoluzionario può essere presa come pretesto, ma non sarà mai la causa delle aggressioni yankee. Negare la solidarietà per negare il pretesto  è una ridicola politica da struzzi, che nulla ha a che vedere con il carattere internazionalista delle rivoluzioni sociali contemporanee. Smettere di solidarizzare con il movimento rivoluzionario non è negargli un pretesto ma solidarizzare di fatto con l’imperialismo yankee e la loro politica di dominio e schiavizzazione del mondo”. (Fidel Castro Ruiz)

 

Cari amici e colleghi, la presente per comunicarvi di aver deciso, dopo un difficile momento di   riflessione, di rinunciare a far parte della redazione  della rivista ALBAinformazione.

Tale decisione, sicuramente non facile,  nasce per quanto  accaduto al compagno e  giornalista, Joaquín Pérez Becera,   direttore della rivista ANCOLL e tra i fondatori dell’ Agenzia Bolivariana di Comunicatori (ABC).

Il suo arresto, il 23 aprile scorso, da parte del governo venezuelano e la successiva deportazione due giorni dopo in Colombia, avvenuta violando il Diritto Nazionale e Internazionale,  mi hanno profondamente ferita, come militante anti-imperialista e antifascista, come attivista per la difesa dei diritti umani, come internazionalista ma  soprattutto come persona sempre solidale  verso la Rivoluzione bolivariana, il processo politico in corso in Venezuela di cui il  presidente Chávez  è promotore e anima e verso  il quale proprio per questo,  tutti noi abbiamo un debito morale innegabile ma anche aspettative significative.

Oltre a questo, sono avvenuti altri  fatti che considero forse anche più gravi dell’arresto e della detenzione di Joaquín e che hanno fatto in modo che confermassi la mia decisione. Il primo, la dichiarazione del presidente Chávez che ha detto che tutti noi che appoggiamo Joaquín siamo un “movimento infiltrato fino al midollo” e che lo abbiamo “seminato in Venezuela come una patata bollente”. Questo è semplicemente offensivo e inaccettabile e non c’ è altro da aggiungere se non che si tratta di affermazioni completamente gratuite. Secondo, i gravi fatti  di censura avvenuti in TeleSUR  e la destituzione del presidente della Radio del Sur Cristina Gonzáles  da parte del ministro del Potere Popolare per la Comunicazione e Informazione,   Andrés Izarra. Radio del Sur è stata tra i mezzi di comunicazione indipendenti che hanno appoggiato Joaquín e hanno dato copertura alle proteste contro la decisione del governo.

Purtroppo le stesse posizioni del governo di Chávez verso Joaquín, e cioè il qualificarlo come “patata bollente” o rivoluzionario irresponsabile, se non infiltrato, o quasi considerandolo un danno collaterale necessario per il proseguimento del processo rivoluzionario, le ho rilevate in varia misura in questi giorni tra gli stessi membri della redazione della rivista. Anche se a  molti di loro mi unisce amicizia e impegno rivoluzionario, non posso non sentire queste accuse come se fossero dirette contro me stessa o contro altri amici, compagni e giornalisti che si trovano in serio rischio che accada loro quanto accaduto a Joaquín.

Il mio se pur minimo impegno nella redazione della rivista ALBAinformazione, (alla quale era dedicata anche una apposita sezione nel mio sito personale),  l’ho inteso fin dall’ inizio  come  forma con la quale poter esprimere praticamente  quell’ internazionalismo militante, che credo sia   anche una delle forme con le quali si manifesta  la solidarietà sentita come  “tenerezza dei popoli”.

Ero convinta che, nel caso del Venezuela e di quel governo che ho sempre considerato “amico”,   questa fosse anche  la  forma con la quale poter coniugare oltre alla solidarietà ai popoli in lotta,  quella verso un governo che proprio quelle lotte afferma di voler difendere e proteggere contro il capitalismo e l’ imperialismo, ma soprattutto contro le potenti oligarchie dei paesi latinoamericani ancora asservite agli Stati Uniti e all’ Europa.

La solidarietà al governo venezuelano mi sembra un atto dovuto e necessario proprio perché per queste sue posizioni e per le riforme sociali importanti,  che sta attuando nel paese,  si trova continuamente sotto attacco da più fronti, non ultimo quello della minaccia di aggressione militare che gli Stati Uniti possono  dispiegare proprio dalle loro basi situate in Colombia.

Il Venezuela rappresenta  per molti di noi   la  speranza per la realizzazione del sogno grande di Simón  Bolívar, l’ integrazione  latinoamericana, la costruzione della Patria Grande;  un’ oasi di resistenza e creatività politica e umana nel Sud del mondo contro la prepotenza e il predominio economico ma anche culturale del Nord.

Per tutto ciò considero la deportazione in Colombia di Joaquin Perez Becerra una gravissima ingiustizia, sia dal punto di vista giuridico,  (contraria alla Convenzione di Ginevra del 1951 che proibisce la consegna di una persona che gode di asilo politico al paese dal quale  tale persona è dovuta fuggire),    ma anche e  soprattutto un atto contrario ai principi della solidarietà rivoluzionaria. Infine, consegnare un uomo nelle mani dei suoi carnefici  non e’ etico e non e’ civile.

Joaquin,  è stato costretto a fuggire dalla Colombia molti anni fa,  per non diventare un numero  in più  degli oltre 4000 morti del genocidio politico della Unión Patriótica, conosciuto con il macabro nome di Baile Rojo. Prima di trovare rifugio in Svezia, paese che gli ha concesso poi lo status di rifugiato politico,  i paramilitari e l’esercito colombiano  sequestrarono e ammazzarono la sua prima moglie.

Vorrei far presente al presidente Chávez che perfino l’attuale governo reazionario dell’ Italia,  si è rifiutato appena qualche mese fa di consegnare nelle mani della  Turchia, che ne reclamava l’estradizione,  un  leader del PKK-KURDO arrestato nel  proprio territorio, di nazionalità olandese.

Un’ altra scelta è sempre possibile. Esiste sempre una via d’uscita diversa dalla  ragion di Stato,  “spaventoso cancro che tutto divora”, come ha recentemente scritto l’intellettuale argentino Néstor Kohan proprio rispetto a questa vicenda.

No,  presidente Chávez, compagni e colleghi di redazione,  non me ne vogliate,  ma io non me la sento di avallare  questa ingiustizia in silenzio, come non me la sento di accettare in  silenzio le accuse che ci sono  state mosse di “ essere un movimento infiltrato fino al midollo”. Questa accusa colpisce in modo basso e infamante tante persone, movimenti sociali e politici ai quali sono vicina e con i quali sono solidale.

Joaquín non è un terrorista come noi non siamo infiltrati né dalla CIA  né tanto meno dal  DAS (i servizi segreti colombiani). Non vogliamo mettere in difficoltà nessuno, al contrario abbiamo sempre difeso il processo in corso in Venezuela e lo continueremo a fare.

Joaquín Becerra  è stato invitato tante volte a Caracas per tenere conferenze,  dibattiti e  incontri. Proprio da uno di questi incontri pubblici  è nata la Agencia Bolivariana de Comunicadores (ABC) della quale lui è stato  uno dei  fondatori, della quale fa parte anche il mio sito e che voleva essere uno spazio comunicazionale che desse voce  alle nuove esperienze di costruzione del socialismo in Venezuela, alle lotte del popolo colombiano, alle notizie occultate dai media capitalisti, alle lotte di liberazione dei popoli di altri paesi, come per esempio quello palestinese e libico.

Capisco quindi e non sono indifferente ai  tanti segnali di inquietudine, smarrimento, disorientamento e rabbia che quotidianamente mi giungono da amici, colleghi e  compagni di Joaquín, proprio perché in quei segnali  si riflettono le mie  inquietudini e il mio  smarrimento.

Smarrimento che nasce anche dalla sensazione che da tempo qualcosa stia cambiando in Venezuela, soprattutto rispetto alle relazioni con la vicina Colombia.

Non accetto però che questo venga fatto sacrificando ideali, e  soprattutto persone. Qui la vittima sacrificale è un compagno, un giornalista e un militante che ha sempre difeso la Rivoluzione bolivariana dagli  attacchi statunitensi, dalle potenti oligarchie latinoamericane, dai gruppi imprenditoriali legati alle forze conservatrici europee, dai monopoli della comunicazione mainstream.

E’ pertanto  sul “nuovo corso” del governo venezuelano  rispetto alla solidarietà rivoluzionaria che ho bisogno di riflettere con calma e obiettività.

Soltanto un paio di anni fa il presidente Chávez di fronte all’ Assemblea Nazionale parlava in questi termini : “Le FARC e l’ ELN sono forze insorgenti che hanno un progetto politico e bolivariano che qui rispettiamo.”

Adesso invece vengono  consegnati nelle mani del governo colombiano membri della guerriglia o giornalisti come fossero criminali comuni e terroristi paragonandoli addirittura a terroristi veri  come Chávez Abarca accusato di essere il mandante e l’esecutore materiale di alcuni dei più gravi attentati contro civili a  Cuba. Oppure allo stesso modo espulsi internazionalisti baschi come Walter Wendelin.

Sappiamo che questo “nuovo corso”  non è iniziato con la vicenda di Joaquín. Spero  non corrisponda al vero quanto dichiarato dal ministro della Difesa della Colombia  Rodrigo Rivera al quotidiano colombiano El Tiempo, e cioè  che per distruggere le FARC bisogna chiudere “ogni possibilità alla soluzione politica al conflitto” e che questo si ottiene “attraverso la cooperazione internazionale”, aggiungendo che  “il caso di Joaquín Pérez Becerra è illuminante … i servizi segreti della Polizia riescono a stabilire che lui andrà in Venezuela, e in forma sbrigativa, senza tentennamenti, ci hanno risposto mandandocelo in Colombia. E ci hanno detto che di fronte a qualsiasi informazione  come questa che gli abbiamo dato, risponderanno nello stesso modo”.

Bene, vorremmo tutti avere delle risposte dal governo venezuelano rispetto a dichiarazioni inquietanti di questo tipo. Dobbiamo aspettarci che ogni volta che la Colombia richiede al Venezuela  un militante, un rifugiato politico, un giornalista, magari sulla base di accuse costruite ad arte, magari  tirate fuori  dal “famoso” computer di Raúl Reyes, il Venezuela deporterà d’ ufficio?

Voglio  continuare ad appoggiare il processo rivoluzionario in corso in Venezuela da una posizione più   defilata, ma non meno solidale.

Non  riesco più  a dare il mio contributo a una rivista che è  nata come forma di sostegno internazionalista e appoggio intellettuale a un governo che si dice rivoluzionario e socialista, ma che non esita a  consegnare nelle mani dei suoi carnefici una potenziale vittima.

Oltre alla possibilità  di rimanere solidali a un governo a qualsiasi condizione e a qualsiasi costo, anche a prezzo della vita e della sicurezza di un nostro compagno,  sento di  avere la possibilità e anche il dovere di farlo verso  chi lotta dal basso, con tenacia e forse sofferenza e  non si piega a giochi di potere e logiche di Stato.

La Rivoluzione bolivariana, quel magnifico progetto politico che fa sperare in una America latina capace di uscire a testa alta dalle infamie delle dittature del passato e dei crimini contro l’umanità,  va oltre l’azione del governo, è attività dei tanti collettivi, tante persone  e forze politiche che senza compromessi  di sorta,  continuano a lottare  contro il capitalismo internazionale, contro l’imperialismo di ogni colore e bandiera, contro la prevaricazione del più forte sul più debole.

Continuerò  a sostenere quel progetto comune e coltivare  la speranza che esso rappresenta, al fianco di chi lotta dal basso.

“Non esistono poteri buoni”,  diceva una celebre canzone di Fabrizio De Andrè.  Forse  aveva ragione…

 

Annalisa Melandri - www.annalisamelandri.it

Repubblica Dominicana,  22 maggio 2010

 

 

 

 

 

 

 


La censura di Stato di TeleSUR sul caso Joaquín Pérez Becerra

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E’  stato allegramente pubblicato un articolo veramente  infamante da parte della redazione di TeleSUR sul caso  del direttore dell’ agenzia ANNCOL, arrestato  in Venezuela ed estradato in Colombia: o a TeleSUR  hanno la memoria corta,  oppure le direttive di governo sono più  forti della necessaria solidarietà  a un giornalista da sempre coerente con gli stessi  ideali bolivariani di questa catena televisiva nata sei anni fa come mezzo di informazione rivoluzionario e come “progetto latinoamericano alternativo al neoliberalismo”.

Sembra che qualcosa sia andato perduto di quei  valori originari nei pochi anni che sono trascorsi da quel 24 luglio 2005, quando nel 222° anniversario della nascita di Simón Bolívar, l’antenna televisiva iniziava a trasmettere il suo primo blocco informativo.

L’articolo al quale mi riferisco porta il titolo “Su Joaquín Pérez Becerra” ed è scritto da  tal Iván Maíza (che né so chi è e nemmeno voglio saperlo) ed è il primo (e l’unico di opinione) che  si trova su Google cercando TeleSUR+Joaquín Becerra. Le altre notizie pubblicate da TeleSUR sull’arresto all’aeroporto di Caracas e la successiva deportazione in Colombia del giornalista svedese sono di cronaca nuda e cruda.

Evidentemente la redazione di TeleSUR non ricorda più la solidarietà che molti militanti e “giornalisti terroristi” come ora chi chiamano,   manifestammo  quando nel mese di novembre del 2006,  in Colombia il DAS arrestò il suo   corrispondente  Fredy Muñoz, accusandolo di essere membro delle FARC.

L’allora direttore dell’antenna televisiva, Andrés Izarra,  attuale ministro della Comunicazione e Informazione, in quella circostanza dichiarò molto preoccupato: “la vita di Muñoz è in pericolo”. Aveva ragione. La Colombia non è un paese sicuro per i giornalisti che denunciano l’imperante terrorismo di Stato promosso dal suo governo e apparati di sicurezza.

La Colombia però, e questo la redazione di TeleSUR dovrebbe saperlo molto bene, non è un paese sicuro nemmeno per Joaquín Pérez Becera, a maggior ragione non lo è per lui,  nato là, ex consigliere comunale del partito Unión Patriotíca, che a seguito delle  minacce ricevute,    circa 20 anni fa dovette abbandonare il  paese per non diventare  un numero in più degli oltre 4000 militanti di quel movimento politico  assassinati in pochi anni dai paramilitari e dall’ esercito  colombiano. In quel genocidio politico conosciuto con il macabro nome di Baile Rojo (Danza Rossa) sequestrarono e uccisero anche la sua prima moglie.

Joaquín quindi cercò  rifugio in Svezia e in questo paese europeo ottenne asilo politico e cittadinanza.

Nonostante questa storia, le autorità del Venezuela lo hanno arrestato, deportato e consegnato nelle mani del presidente colombiano Manuel Santos (ex ministro della difesa del governo Uribe) senza battere ciglio, dopo la telefonata ricevuta da Chávez con la quale il suo omologo colombiano gli chiedeva il favore.

TeleSUR quindi oltre a non preoccuparsi della sicurezza di Joaquín Pérez Becera,  pubblica anche articoli offensivi e denigranti  su di lui.

Conoscendo il percorso umano e politico del giornalista svedese, che abbiamo appena raccontato, leggere le infamanti domande (non dimentichiamolo! pubblicate come opinione sulla pagina di TeleSUR e non su qualsiasi piccolo blog) che pone  il tal Maíza,  autore dell’articolo, non possiamo non riflettere sul nuovo corso intrapreso dalla Rivoluzione Bolivariana: “Chi ha fatto salire in questo momento Joaquín sull’aereo­? Chi lo ha venduto per mettere la Rivoluzione Bolivariana a rischio di perdere il suo ordine strategico?… ci sono settori nella sinistra rivoluzionaria che ricevono ordini dal DAS?”

Questo si può leggere nella pagina di una catena televisiva che pretende di essere alternativa oltre che rivoluzionaria, che vuole dare la voce ai senza voce… Che pretende di rappresentare  un governo rivoluzionario, bolivariano…

Ma non basta. La cosa peggiore è che l’ex presidente di TeleSUR,  Andrés Izarra,  dal suo terzo incarico come ministro della Comunicazione e dell’Informazione, fa del sabotaggio perfino sulla copertura informativa rispetto alle giuste proteste che il governo sta ricevendo in questi giorni per la deportazione di Joaquín Becerra.

Ieri a Caracas, di fronte al ministero degli Esteri, dove centinaia di rappresentanti dei movimenti sociali e organizzazioni politiche si erano riuniti per chiedere al governo spiegazioni su quanto accaduto, oltre al fatto che i giornalisti di TeleSUR non erano presenti (ricevono precise disposizioni dal ministero della Comunicazione, MINCI) non lo erano nemmeno quelli dei maggiori mezzi di informazione del paese. I pochi alternativi che hanno coperto le proteste come l’Agencia Bolivariana de Prensa (sarà una casualità ma la pagina ABP oggi non funziona), Radio  del Sur, Avila TV,  Catia TV, Tribuna Popular, ALBATV,  lo hanno fatto  “contravvenendo l’orientamento generale dato dal  ministero della Comunicazione”.

Fonti  venezuelane presenti hanno commentato che lo stesso Izarra stava realizzando varie chiamate telefoniche  minacciando e insultando i giornalisti per la copertura che stavano dando alla mobilitazione.

Tornano allora alla mente le dichiarazioni che faceva in una intervista due anni fa Aram Aharonian, importante giornalista uruguayano, uno dei fondatori ed ex direttore di TeleSUR, allontanatosi dalla televisione per “differenze politiche ed anche etiche” : “TeleSUR è occupata da inetti, controrivoluzionari nel più ampio senso della parola: gente che recita  slogan per sembrare rivoluzionaria  ma che non ha la minima idea di cosa voglia dire”. Le sue accuse, che allora apparivano  gravi e pesanti, erano rivolte a Izarra. Ora sono invece confermate sicuramente dai fatti.

Annalisa Melandri — www.annalisamelandri.it

 

Certo bisogna farne di strada/da una ginnastica d’obbedienza

fino ad un gesto molto più umano/che ti dia il senso della violenza

però bisogna farne altrettanta /per diventare così coglioni

da non riuscire più a capire/che non ci sono poteri buoni.

(Fabrizio De Andrè)

 

 


La censura de Estado de TeleSUR sobre el caso de Joaquín Pérez Becerra

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Los términos medios son la antesala a traición. (Ernesto Guevara)

Se  ha publicado alegremente un artículo infame por la redacción de TeleSUR:  o tienen memoria muy corta o las directivas de gobierno son más fuertes que la necesaria solidaridad a un periodista comprometido con los mismos valores e ideales bolivarianos  de esta cadena televisiva  que nació hace seis años  para ser un medio revolucionario y un “proyecto latinoamericano alternativo al neoliberalismo”.

Parece que algo se haya  perdido de los valores originarios en el transcurso de estos pocos años,   desde aquel 24 de julio de 2005 cuando en el 222 aniversario del nacimiento de Simón Bolívar,  la antena TeleSUR empezaba  a transmitir su  primer bloque de informaciones.

El artículo al que me refiero se titula “Acerca de Joaquín Pérez Becerra” y está escrito  por tal Ivan Maíza (que ni se quien es y ni voy a averiguarlo) y es el primero (y el único de opinión) que se encuentra en Google buscando TeleSUR+Joaquín Becerra. Las otras noticias publicadas por  TeleSUR respecto a la detención en el aeropuerto de Caracas y a la siguiente deportación a Colombia del periodista sueco director de la agencia ANNCOL, son de pura  crónica pelada, monda y lironda.

Evidentemente en la redacción de TeleSUR ya no recuerdan la solidaridad que muchos militantes y “periodistas terroristas” como ahora está de costumbre llamarnos,  les brindamos  cuando en el mes de noviembre de 2006 en Colombia el DAS detuvo el corresponsal de ellos, Fredy Muñoz, acusándolo de ser miembro de las FARC.

El entonces director de la antena televisiva,  Andrés Izarra (actual ministro de la Comunicación y la Información),  declaró en aquellas circunstancias  muy preocupado: “la vida de Muñoz corre peligro”. Tenía  razón. Colombia no es un país seguro para los periodistas que denuncian el  imperante terrorismo de Estado promovido por sus gobiernos y sus órganos de seguridad.

Pero Colombia, y  eso la redacción de TeleSUR debería saberlo muy bien,   no es un país seguro  tampoco para Joaquín Pérez Becerra, con mayor razón para este hombre, nacido allá,  ex concejal del partido Unión Patriótica,  que  hace 20 años tuvo que huir de su país para no ser un numero más de los casi 4000 militantes de esta fuerza política asesinados  en pocos años por los   paramilitares y las fuerzas de seguridad colombianas.

Joaquín tuvo  que buscar refugio en Suecia después del secuestro y homicidio de su primera esposa, una víctima más de aquel genocidio político que llevó el nombre macabro de Baile Rojo.  Allá   obtuvo estatus de refugiado político y la ciudadanía sueca.

No obstante esta historia,  las autoridades de Venezuela  lo ha detenido, deportado y entregado en las manos del presidente colombiano  Manuel  Santos (ex ministro de defensa en el  gobierno de Uribe) sin pestañear, después de haber recibido Hugo Chávez  una llamada telefónica de parte de su homologo colombiano pidiéndole el favor.

TeleSUR entonces no se preocupa por la seguridad de Joaquín Becerra pero  además de eso publica artículos ofensivos y denigrantes.

Conociendo la trayectoria humana y  política del periodista sueco, que acabamos de contar, leer las infamantes preguntas, (¡no olvidémoslo! publicadas como opinión en la página de TeleSUR y no en cualquier bloguesito) que hace el tal Ivan Maíza, autor del artículo,  no se puede no reflexionar seriamente sobre el nuevo rumbo tomado por la Revolución Bolivariana: ¿Quién montó en este momento a Joaquín en ese avión? ¿Quién lo vendió para poner a la Revolución Bolivariana en riesgo de perder su ordenamiento estratégico?… ¿hay sectores en la izquierda revolucionaria que reciben órdenes del DAS?”

Eso se lee en la página de una cadena televisiva que pretende ser alternativa y además revolucionaria, que pretende dar la voz a los sin voz… Que pretende ser cadena televisiva de un gobierno revolucionario, bolivariano…

No es suficiente. Lo peor  es que el ex presidente de TeleSUR Andrés Izarra   desde su actual y tercer cargo de   ministro de  la Comunicación y la  Información (MINCI),   sabotea también la cobertura informativa respecto a las justas protestas que el gobierno está recibiendo  en estos días por la deportación de Joaquín Becerra.

Ayer en Caracas,   frente a la cancillería,   donde  centenares de representantes de los movimientos sociales y organizaciones políticas se habían  reunido para exigir al gobierno una explicación sobre lo sucedido, además de no estar presentes los periodistas de  TeleSUR  (que reciben precisas disposiciones del MINCI) ni de los mayores medios de comunicación, los pocos medios alternativos que cubrieron las protestas  como la Agencia Bolivariana de Prensa (será una casualidad pero la página ABP hoy no funciona),Radio del Sur, Avila TV,  Catia TV, Tribuna Popular, ALBATV,  lo hicieron “contraviniendo la orientación general del Ministerio de Comunicación”. Fuentes venezolanas comentaron que el mismo Izarra,  realizó varias llamadas telefónicas a unos de ellos,  amenazándolos e insultándolos por dar  cobertura del  plantón.

Vuelven entonces a la memoria las declaraciones que hacía en una entrevista hace dos  años  Aram Aharonian,  destacado periodista uruguayo,  uno de los fundadores  y ex director de  TeleSUR   que se alejó  de la misma por “diferencias políticas, e incluso éticas”: “Telesur está tomada por ineptos, contrarrevolucionarios en el amplio sentido de la palabra: gente que recita consignas para parecer revolucionarios pero que no tienen la menor idea de qué se trata”.  Sus acusaciones, que entonces parecieron pesadas y graves, estaban  referidas al mismo Izarra. Ahora se ven  definitivamente confirmadas por los hechos.

Annalisa Melandri

 

 

 

 

 


Gracias Chávez…

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Lettera aperta a Hugo Chávez Frías, presidente della Repubblica Bolivariana del Venezuela

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Confirmada la ciudadanía sueca di Joaquín Becerra

 

Presidente Chávez,  speriamo che il suo governo abbandoni queste pratiche così poco degne per la rivoluzione bolivariana che tanto difendiamo e che con orgoglio vogliamo continuare a difendere a testa alta,

27 aprile 2011

Lettera aperta al presidente della Repubblica Bolivariana del Venezuela,  Hugo Chávez Frías:

Signor Presidente,

Il 23 aprile scorso è stato arrestato all’aeroporto venezuelano di Maiquetía (Caracas) il cittadino svedese di origine colombiana, Joaquín PÉREZ BECERRA. Il comunicato ufficiale del governo da Lei presieduto afferma   che questo giornalista,  direttore dell’agenzia di notizie ANNCOL era «ricercato dalla giustizia colombiana, con una circolare rossa Interpol  per  i delitti  di associazione a delinquere, finanziamento del terrorismo e amministrazione di fondi relativi ad attività terroriste.» Per cui si procedeva alla sua estradizione in Colombia.

All’improvviso,  due giorni dopo, il 25 aprile, il presidente della Colombia ed ex ministro della Difesa, Juan Manuel Santos, in una dichiarazione rilasciata al quotidiano El Tiempo di Bogotà, ha dichiarato quello che sembra essere la verità: «Sabato ho chiamato il presidente Chàvez e gli ho detto che un personaggio per noi molto importante  appartenente alle FARC sarebbe arrivato in un volo della Lufthansa quel pomeriggio a Caracas e se lo poteva arrestare. Chávez non ha avuto esitazioni. Lo ha fatto arrestare e ce lo consegnerà.» (altro…)


Campagna di solidarietà con Joaquín Pérez Becerra

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Facciamo appello a tutti i Partiti rivoluzionari, organizzazioni popolari, giornalisti alternativi, attivisti dei diritti umani, internazionalisti e specialmente al popolo bolivariano del Venezuela perché non venga espulso in Colombia il giornalista  Joaquín Pérez. Esprimiamo alle autorità venezuelane la condanna per  l’arresto del giornalista,  che mette in pericolo la sua vita e la sua sicurezza.

E’ importante che vengano inviate quante più mail possibile ai contatti ufficiali nelle pagine web del Governo venezuelano chiedendo espressamente che Joaquín Pérez Becerrra non venga espulso o estradato in Colombia.

Queste le pagine:

Governo del Venezuela:  http://www.gobiernoenlinea.ve

Ministero del Potere Popolare per le relazioni interne e la Giustizia:  http://www.gobiernoenlinea.ve

Ministero del Potere Popolare per le relazioni esterne:   http://www.mppre.gob.ve//

Ministero del Potere Popolare per la Comunicazione e l’Informazione:  http://www.mppre.gob.ve//

E poi anche ai profili twitter  @chavezcandanga, @vencancilleria, @mincioficial e altri associati al Governo e si possono lasciare commenti al blog di Chávez: http://www.chavez.org.ve

La mail dell’ambasciata italiana a Roma è embaveitatambavenedotit  (embaveitatambavenedotit)   scrivere direttamente all’ambasciatore Luis Berroterán Acosta

Vi invitiamo inoltre ad aderire alla campagna di solidarietà con  Joaquín Pérez Becerra inviando le adesioni a: libertadjoaquinperezathotmaildotcom  (libertadjoaquinperezathotmaildotcom)  

 


Patria es Solidaridad, desde Venezuela el puente de solidaridad con los presos políticos colombianos.

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Aunque las autoridades del país se nieguen  a considerarlos tales,   en las cárceles de Colombia hay más de  7.500 presos políticos  detenidos en condiciones inhumanas.

El mismo hecho de no considerarlos como  presos políticos (porque esto significaría considerar  los guerrilleros como beligerantes y no como terroristas)   es parte de la estrategia con que el  Estado sigue negando la  misma matriz política y social del conflicto que afecta Colombia desde más de 50 años.

Son más de 7500  activistas sociales, políticos, sindicalistas, miembros de movimientos juveniles,  defensores de los derechos humanos, intelectuales y guerrilleros que, cada uno a su manera y desde su propia trinchera de lucha, representan las  múltiples caras  de la resistencia social y política colombiana, invisibilizada sistemáticamente a los ojos de la opinión pública internacional.  La periodista colombiana  Azalea Robles habla de “tergiversación mediática” de los presos políticos en las cárceles colombianas, contrariamente a cuanto ocurre por los rehenes  en manos de la guerrilla, por los cuales existe una sobre exposición mediática en los medios de comunicación.

Sabemos también que en Colombia a las voces de la oposición política le quedan pocas opciones: bajo la tierra en una de las  cientos de fosas comunes que a veces salen a la luz   o detrás de las rejas de una  prisión. Es la cara  todavía muy oculta de  un país que la opinión pública internacional sigue llamando  “democracia”. 
Así que, si logran sobrevivir, las voces de las denuncias, de las luchas y de la resistencia de miles de personas desaparecen a los ojos de la sociedad civil nacional e internacional en las 140 prisiones del país.

De estos 7500, los  guerrilleros detenidos son unos 500  y están acusados ​​de terrorismo, un cargo casi siempre aplicado en conjunto con el de narcotráfico  o de  algún otro delito común con el fin de que  desaparezca la figura del delito político. Los demás  son los llamados “presos de conciencia” o sea los que son encarcelados por su “pensamiento crítico y su labor social”, como el caso emblemático de la  poeta y periodista Angye Gaona, mujer de reconocida trayectoria humana y social,  detenida en el mes de enero de este año por supuestos vínculos con la guerrilla.

El intercambio de prisioneros o “acuerdo humanitario” sin duda podría ser un paso decisivo hacia la llamada “humanización del conflicto”. Sin embargo la actitud constante del gobierno colombiano de despolitización del conflicto, lleva a que la  creciente militarización del país vaya de la  mano con el hacinamiento en las cárceles. Hasta la fecha,  solamente la guerrilla de las FARC ha hecho liberaciones unilaterales, mientras que el gobierno sigue justificando su  fracaso, pero  también su falta de voluntad para buscar  la paz, con  el pretexto de la lucha contra el terrorismo y la aplicación de la política de “seguridad democrática”.

La situación humanitaria y sanitaria en la que se encuentran los presos políticos en las cárceles es terrible.  Esta tipología de detenido es objeto de hostigamientos y torturas  con el claro intento de humillar su militancia y aplastar su terquedad y su compromiso social.

Nos encontramos en Caracas con los integrantes de la asociación Patria es Solidaridad formada por la mayoría por colombianos y venezolanos,  que se ocupa de los presos políticos en Colombia a través de diferentes  iniciativas y, sobre todo a través de una importante campaña de información.

Patria es Solidaridad también se ocupa de desplazados y de  colombianos indocumentados en Venezuela, la otra casa de conflicto, acaso la menos conocida.

Por Annalisa Melandriwww.annalisamelandri.it

Caracas, marzo 2011

AM: Patria es Solidaridad es una organización que trabaja en Caracas  por la “movilización de la solidaridad mundial con los presos políticos colombianos”. ¿Cuándo nace  la asociación y porque en Caracas?

PeS: Nos fundamos hace tres años  pero estamos trabajando activamente  desde  dos años ya que el primer periodo  fue de preparación del trabajo y de la asociación como tal.  Nuestro carácter es bolivariano y trabajamos por los derechos humanos de los colombianos desde Venezuela ya que las condiciones del conflicto político en Colombia no nos lo  han permitido. Trabajar en Caracas nos da más posibilidades de ejercer y desplegar una solidaridad internacional con nuestros hermanos que están en las cárceles del régimen colombiano con mucha más libertad que si estuviéramos en  Colombia, donde quizás esta entrevista tendríamos que hacerla clandestinamente.

Vale mencionar que hacer solidaridad desde Caracas es significativo también por ser este país referencia por los cambios en América latina y en el mundo.

Es importante resaltar que a pesar de las dificultades que implica trabajar en Colombia sobre un tema tan sensible para los intereses del gobierno colombiano, hay organizaciones que lo hacen en medio de una política de seguridad democrática que ha criminalizado el tema de la solidaridad. Estos compañeros que hacen solidaridad en el ojo del huracán merecen nuestro respeto y nuestra ayuda por su heroica labor. Nosotros somos,  por decirlo así,  una extensión de ellos en Venezuela y ejercemos labores que a ellos se le dificultan. En lo que se refiere a la composición de Patria es Solidaridad,  la mayoría somos colombianos y venezolanos que participábamos  en  varias organizaciones y que decidimos solidarizarnos  y humanizarnos con este drama que vive la población colombiana en el conflicto social y  armado.

 

AM:. ¿Pueden contarnos en detalle en qué consiste el trabajo de ustedes?

PeS: Nosotros como asociación  nos ocupamos de tres frentes de trabajo: el frente de trabajo de los presos políticos y los prisioneros de guerra, el frente de trabajo estudiantil y el frente de trabajo  de la población refugiada, desplazada y en  situación migratoria   irregular en Venezuela.

Para nosotros la solidaridad con los presos  políticos va en dos vías,  primero en el aspecto material,  segundo en el aspecto moral y político. Las dos  son muy importantes porque los presos tienen muchas  necesidades materiales  pero es también importante el pronunciamiento político  de todos los países.

Allá  en Europa por ejemplo  es importante que se conozca que en Colombia  existen los presos políticos,  que hay 7500 presos en las cárceles y que nosotros como asociación   abogamos por un intercambio humanitario. Son importantes por eso las denuncias que hacemos y que están colgadas mensualmente en nuestra página web.  En un mes podemos tener cuatro, cinco, denuncias  de atropellamiento en las cárceles. Necesitamos  que esto se conozca o sea que haya un  eco de esto y que el mundo se exprese sobre el drama humanitario de los  presos.

Además  el estado colombiano quiere desmoralizar la moral al máximo a estos presos políticos, trata  de acabar con los luchadores sociales bajo cualquier mecanismo y para ellos es muy gratificante que un pronunciamiento se haga en Europa y que algún colectivo por ejemplo se pronuncie respecto a la situación en que ellos están viviendo en las cárceles. El aspecto moral es determinante para la persona presa: una carta de aliento, un video, un audio, un pronunciamiento que a los compañeros les permita saber que no están solos y que hay personas y organizaciones movilizándose por ellos.

 

AM: ¿Qué quiere decir en Colombia ser un preso político y quiénes son los presos políticos?

PeS: Tenemos tres categorías de presos políticos: están los presos  de conciencia que son aquellas personas capturadas y retenidas   por manifestar sus ideales  en contra del gobierno; están los prisioneros y prisioneras  de guerra que son aquellos presos políticos guerrilleros de las FARC o del ELN  que son capturados en flagrancia y que se reconocen como guerrilleros  y están los  presos políticos por falsos positivos que son aquellos presos que son capturados en redadas o en capturas  dentro de su casa,  de su hogar o en capturas masivas en  poblaciones, a quienes les hacen  un montaje judicial y  los criminalizan sin tener ninguna prueba,  sin tener nada en absoluto.

El estado colombiano también usa esta manera  para amedrentar  cualquier expresión de oposición hacia el gobierno. La persona permanece, como no conoce sus derechos,   uno o dos años en la cárcel y  cuando sale de la prisión  el gobierno lo único que le dice es:  “bueno disculpe, nos equivocamos”, pero queda señalada  por la  vida,  no es indemnizada por el Estado y  nadie le dará  trabajo;  en otras palabras se quiebra su  tejido social y familiar,  esto sin contar con las implicaciones en materia de seguridad porque  la persona se vuelve en muchos casos en objetivo militar del paramilitarismo.

Para establecer una diferencia entre un preso político y un delincuente común o un preso social,  tiene que estar claro que el preso político es aquella persona capturada o que se le quita  su libertad por sus ideales. Por ejemplo esta es  la diferencia entre los  presos políticos colombianos y los que se hacen llamar “presos políticos” venezolanos que están tras las rejas la mayoría por corrupción.  Aquí en Venezuela los que se hacen llamar presos políticos no son presos políticos sino políticos presos. El único preso político venezolano que consideramos como tal es Carlos Ilich Ramírez militante comunista internacionalista que cayó preso defendiendo la causa de Palestina. Los políticos presos en Venezuela son capturados por delitos comunes y los presos políticos colombianos son capturados por sus ideales políticos en favor de los intereses del pueblo.

 

AM: ¿Cuál es la situación de los presos políticos en las cárceles?

PeS: La situación de los presos políticos colombianos es  bien dramática. Los  compañeros son casi invisibles, para  la gente común  parece que no existen, parece que en Colombia no haya  presos políticos, no se habla de ellos. Su situación  es bastante crítica, nosotros en estos últimos meses hemos denunciado tres suicidios de presos políticos. Hay maltrato por la policía carcelaria que es el INPEC y por el grupo de reacción inmediata GRIP.

Hay varias maneras de represión carcelaria. Primero, la  Colombia es un país bien montañoso y las personas que son detenidas casi siempre son campesinos así que una de las   maneras de reprimirlos es también la de  trasladarlos de una ciudad a otra, otra una muy recurrente es también la de  colocarlos en patios con presos sociales o con paramilitares. Esa es  una manera de amedrentar  la expresión y la organización dentro de las instituciones carcelarias.

 

AM: ¿Cuantos presos políticos hay en las cárceles del país y cuantas son las mujeres detenidas?

PeS: En general sin hacer discriminación entre  los  presos políticos y  los  presos sociales, según estadísticas de enero 2010 del INPEC, en las mazmorras del régimen colombiano existen 139 establecimientos de reclusión con capacidad para 55.042  personas, pero se encuentran privadas de la libertad 76.471 personas,   71.644 hombres y 4.827 mujeres. De  de esta cantidad  25.619 son los sindicados y 50.852  son condenados, es decir que hay 23.837 hombres y 1.782 mujeres a las que no se les ha resuelto su situación jurídica y que pese a eso las mantienen privadas de la libertad.

Nosotros estamos en esta tarea de  afinar el censo respecto a los presos políticos. Hemos introducido en las cárceles un formato que se llama “formato de diagnostico” con el que hacemos un  censo cuantitativo pero también valorativo  de la situación. Tenemos conocimiento de una cifra de más de 7500 presos  que es un número que  la gente ya conoce y que  está muy publicitado por internet, de los cuales 500 son los guerrilleros presos. Esta es una cifra que nosotros usamos oficialmente porque en este momento no podemos tener un dato cierto, pero seguramente son mucho más, alrededor de 1000 o 1200 son los guerrilleros presos, por la mayoría de las FARC-EP.

Alrededor de un 20% de los prisioneros políticos son mujeres. No hay distinción de género en la criminalización de la lucha política, sin embargo vale la pena mencionar que en el caso de las mujeres se reproduce y se aumenta la violación de los derechos sexuales y reproductivos,  castigando  a la mujer prisionera política con más fuerza que a los hombres por salirse de los esquemas femeninos que históricamente se les ha impuesto.

Hay presos políticos de todos los sectores de la sociedad colombiana, del sector campesino, obrero, estudiantil, juvenil, indígena, comunal etcétera. La represión del Estado colombiano no mira si eres mujer, si eres joven, si eres indígena, si eres campesino, no discrimina entre luchas dentro del marco legal y la lucha de las organizaciones armadas. Toda la protesta social en Colombia ha sido criminalizada y señalada de estar relacionada con el narcotráfico y el terrorismo  con el fin de eliminar el delito político.

 

AM: ¿Por qué el gobierno colombiano no reconoce de tener presos políticos o  los invisibiliza? ¿Y cómo se puede lograr que sean visibilizados?

PeS: Por la misma razón que no reconoce el estatus de beligerancia a las fuerzas insurgentes.  El gobierno colombiano al reconocer el delito político reconocería también que el conflicto en Colombia es un conflicto armado de profundas raíces sociales y  que tiene como origen la gran desigualdad social y económica, además,    al reconocer el conflicto social y armado reconocería la gran responsabilidad de la oligarquía colombiana en el derramamiento de sangre durante más de cincuenta años. El estado colombiano esté obstinado en mantener la guerra y a darle una salida militar al conflicto, entre otras cosas porque la guerra es su negocio y no son sus hijos los que la pelean, si no los hijos del pueblo colombiano. Somos  los pobres los que engrosamos las filas de la guerrilla, del ejército y del  paramilitarismo,  que es la otra máquina de guerra del estado colombiano. Por todas estas razones  no han sido capaces  siquiera de apostarle a un intercambio humanitario con las FARC como paso hacia un diálogo.

Los gobiernos narco-paramilitares en Colombia han cambiado las leyes internas  para condenar las personas por muchos delitos,  inclusive los delitos comunes. Ahora  un guerrillero no es capturado solamente por rebelión sino es capturado por rebelión,  por narcotráfico, por terrorismo y otros delitos que le han sumado para que la condena supere los  40 años. Por ello es sumamente importante antes que todo abrir  la discusión, manifestar que en Colombia existen  los presos políticos y que estos son el producto del conflicto social y armado que hay en el país.

 

AM: ¿Cómo se organizan los presos políticos en las cárceles?

PeS: Lo primero que hacen los presos políticos en la cárcel  es organizarse, porque si no se organizan son más débiles y allá aprovechan para reprimirlos más duramente. Las mujeres del Buen Pastor por ejemplo se han organizado con una asociación que se llama Manuelita Sáenz. En general se organizan para defenderse de las arbitrariedades del régimen penitenciario, en algunos casos se organizan para producir artesanías y manualidades para sostenerse económicamente.

Las  organizaciones políticos militares hacen esfuerzos por mantener algún nivel de organicidad de sus militantes en las cárceles pero es muy difícil porque el sistema penal colombiano ha sido transformado para evitar todo tipo de organización, para ello inventaron por ejemplo las cárceles de máxima seguridad donde los presos políticos no tiene contacto entre si y a veces ni siquiera con otros presos, en otros casos mandan  a los presos muy lejos de sus lugares de origen o militancia y activismo político así se aísla al preso incluso de sus familias y de sus organizaciones.

El  gobierno colombiano le teme  a la organización dentro de las cárceles. Trata con la represión de mantenerle la moral baja a los presos  y así los trasladan a otra zona para alejarlos de las familias. Es difícil que la familia de un campesino se desplace con  24 o 25 horas de viaje por ejemplo para llegara a la  cárcel modelo de Barranquilla o a  la de mujeres del Buen Pastor en Bogotá para visitar el preso. Desde Patria es Solidaridad hacemos  un gran esfuerzo por alentar y apoyar todas las iniciativas de organización de los presos políticos dentro de las cárceles pese a las dificultades y a la oposición de todo el aparato jurídico y penal.

 

AM: ¿Como hacen  desde Venezuela a dar seguimiento  a los presos políticos  en Colombia?

PeS: Nosotros trabajamos con los abogados  en Colombia porque  la  única manera para darles seguimientos a los presos políticos  es por parte de  los abogados y de los familiares,  no hay ninguna otra manera de hacerlo.

Los abogados que  llevan los procesos y que trabajan con  nosotros  pueden entrevistarse con el preso o  hacernos  un diagnostico de cómo está la situación allá  por lo menos respecto a la salud y a las necesidades básicas. La mayor necesidad de un preso obviamente  es la libertad y el preso político está siempre con su mente afuera  con su familia y con  la lucha de la libertad del pueblo colombiano en cada uno de los frentes de  lucha  en el que se encuentre:   estudiantil, campesino, obrero, sindicalista.

En Colombia tenemos  colectivos de abogados que trabajan con nosotros y los  aportes económicos salen por eventos que hacemos nosotros de aquí o por eventos que hacen en otros lados y que se canalizan por medio de nosotros para los familiares o los abogados.

 

AM. Decían que abogan  por el intercambio humanitario. ¿Hay avances en tal sentido con el gobierno?

PeS: El estado colombiano no reconoce que hay un conflicto social y político, afirma que  hay una guerra con narcoterroristas y entonces  al reconocer un intercambio humanitario estaría reconociendo  que hay una organización beligerante.  Humanizar  la guerra quiere decir  tener una posibilidad de dialogo. Para  que haya un intercambio humanitario simplemente hay que haber voluntad de las partes de querer humanizar un poco la guerra.

Reconocemos que las FARC han sido  uno de los  actores políticos que ha hecho con las liberaciones unilaterales  un gesto muy valioso para la paz en Colombia y que el gobierno colombiano hasta el momento no lo ha querido asumir como un gesto real de paz.  Además un intercambio humanitario estaría suportado por la ley nacional  porque esta suportado por el Derecho Internacional Humanitario. Nosotros también abogamos por todos aquellos  presos políticos que están en las cárceles  del imperio. En este  sentido nosotros como Patria  es Solidaridad también exigimos la repatriación de Simon Trinidad, de Sonia y de otros presos  políticos que están en Estados Unidos por narcotráfico y terrorismo. Sabemos que son simples  montajes judiciales, una de las herramientas que el Estado utiliza para desmoralizar a combatientes de las FARC.

Obviamente las organizaciones que trabajan por los derechos humanos y por la paz en Colombia no son interlocutores validos para el gobierno colombiano en lo que se refiere al intercambio humanitario, con contadas excepciones como la organización Colombianos y Colombianas  por la Paz por el reconocimiento y la gran labor de la ex senadora Piedad Córdoba. Nuestra labor por el momento se ha dado en términos de difusión de la necesidad del intercambio humanitario en Colombia, para esto es importante sumar solidaridad internacional  y presionar desde el movimiento social mundial para obligar al gobierno Colombiano a discutir los términos de una verdadera paz con justicia social para todos que acabe con cincuenta años de derramamiento de sangre.

 

AM: ¿Se ocupan también de desplazados y  de problemas de migrantes?

PeS: Estamos en la tarea también de ocuparnos de desplazados, de migrantes y de poblaciones  irregulares. En Venezuela existen alrededor de 5millones de colombianos en  condiciones de desplazamiento,  algunos refugiados,  algunos asilados,  algunos simplemente desplazados económicos que ni siquiera ellos mismos se reconocen como desplazados al llegar a este país en una condición de incertidumbre donde no tienen ningún vinculo político o familiar. Les  toca una vida muy difícil y  desarrollar en tareas que los  desvinculan inclusive políticamente. Una  persona que era un luchador campesino, con su familia, con sus hijos,  le toca sumarse a los cinturones de miseria de Caracas y dedicarse a la buhonería que es la venta informal a la  calle y deja su condición de campesino,  todo su saber tradicional de 30/40,  todo eso lo pierde  cuando llega aquí,  porqué llega en una condición de desamparo total.

 

AM: ¿Cuál es la actitud de los venezolanos respecto a los colombianos?

PeS: La respuesta en general que hemos recibido de pueblo venezolano, es de plena solidaridad, está llena de profundo afecto bolivariano, así mismo la política del gobierno es una política incluyente del colombiano en la estrategia de bienestar social, que contempla el plan Simón Bolívar, en donde el fin último es la suprema felicidad social. Cualquier hecho de esclavismo, de maltrato, de abuso o de exclusión, que pueda presentarse, es claro que no es política de gobierno, sino son acciones individuales y enemigas del proceso bolivariano. Nosotros de Patria es Solidaridad, como bolivarianos consideramos que más  que ser hermanos,  los colombianos y los venezolanos somos un mismo pueblo.

 

AM: Finalmente, la campaña de solidaridad que impulsa Patria es Solidaridad con los presos políticos se llama “Plan Hermanamiento. ¿Pueden contarnos en qué consiste?

PeS: Esta campaña consiste en que una  persona o una organización se hermana con un preso político.  Plan Hermanamiento es hacerle un seguimiento y un acompañamiento tanto material como moral a un  preso político en Colombia.

Una asociación supongamos  italiana,  puede enviarle dinero,  enviarle las cosas que necesita y este envío  pero debe ser hecho por preso político. Puede hacer   una campaña de solidaridad,  una fiesta de solidaridad, un  recital poético y  recoger  cartas o una solidaridad material. Esta  solidaridad  material puede llegar a nuestra asociación que se hace puente para que llegue a los presos.

En seguida los datos:

Tel: 0212–7425751

e-mail: patriaessolidaridadatyahoodotcom  (patriaessolidaridadatyahoodotcom)  

Pagina web: www.patriaessolidaridad.com.ve

 

 

 

 

 


Vittorio Arrigoni asesinado en Gaza. ¿Seguiremos siendo humanos?

1 commento

ciao Vik

 


Por encima de todo, existía fe en la revolución y en el futuro,un sentimiento de haber entrado de pronto en  una era de igualdad y libertad.

Los seres humanos trataban de comportarse como seres humanos y no como engranajes de la máquina capitalista

(George Orwell, Homenaje a Cataluña)

 

Por Annalisa Melandri — www.annalisamelandri.it

 

Lo han callado para siempre. Vittorio Arrigoni, internacionalista italiano en el infierno humano de  Gaza,  no seguirá siendo el testigo incomodo del genocidio israelí en tierra palestina.

Secuestrado este jueves por un grupo integrista  salafita que había pedido en cambio de  su vida  la libertad  de unos rehenes detenidos en la Franja por las autoridades de Hamás, lo han ejecutado antes que transcurriera  el plazo de 30 horas que habían dado por su liberación.

La noticia de su secuestro había circulado en un video donde Vittorio se veía con los ojos tapados, las manos amarradas y sangre en la cara.   Un secuestrador le sujetaba la cabeza por  el pelo. En el video además se acusaba a Vittorio de difundir valores occidentales y al gobierno del premier  Ismail Haniyeh (Hamás)  de estar  en contra de la  Sharia (la ley religiosa musulmana) y de ser demasiado moderado en sus posturas hacia  Israel.

Por la noche llegó la noticia  del hallazgo del cuerpo de Vittorio. Los  servicios de seguridad de Hamás  han declarado de haberlo encontrado  sofocado en una casa abandonada que había sido indicada como escondite del grupo. Probablemente fue  torturado. Al parecer,  los secuestradores  lo han ejecutado  antes del operativo que lo iba a rescatar,  y hasta ahora cuatro personas  han sido detenidas. Se habla de un grupo de Salafitas fuera de control.

Sin embargo hay muchas  preguntas y demasiadas dudas y la situación  no parece clara. Antes que todo,  ¿porqué matar  a Vittorio?  Un gran amigo y partisano  del  pueblo palestino, cuya muerte seguramente no favorece la causa contra los crimines de Israel en Gaza.   Segundo,   la galaxia salafita es heterogénea y vareada  y a veces unos grupos llegan a establecer alianzas que esconden situaciones pocos   claras e insospechables. La sigla que ha difundido el video es desconocida y otras realidades salafitas han negado el involucramiento en el asesinato del joven italiano.

Los complotadores piensan  que detrás del asesinato   esté la mano oculta del Mossad, aunque no de forma directa porqué  Vittorio Arrigoni estaba organizando desde Italia la segunda Flotilla que iba a romper el cerco militar a la costa de Gaza y habría viajado a su país  esta misma semana.

Vittorio era un activista del ISM,  International  Solidarity Movement, la misma ONG solidaria con el pueblo palestino a la que pertenecía la activista estadounidense Rachel Corrie aplastada por un bulldozer  de las Fuerzas de Defensa de Israel  en Rafah  en 2003 mientras trataba de impedir que el mismo demoliera varias viviendas palestinas.

Arrigoni desde desde 2008 vivía establemente en la Franja de Gaza, al lado de los campesinos y  de los  pescadores, acompañándolos en su  trabajo y haciéndose escudo humano por ellos contra las balas de los francotiradores israelíes de tierra y de mar.

En 2008 fue secuestrado y encarcelado por el ejército  israelí durante un ataque contra pescadores en el mar de Gaza y expulsado a Italia dos veces. Le habían también disparado.  Siempre había logrado volver a Gaza por  mar. (altro…)


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