Lettera a Vittorio Arrigoni

8 commenti

Se io muoio non piangere per me, fai quello che facevo io e continuerò vivendo in te. (Che Guevara)

Ciao Vik,

Ci siamo scambiati una mail veloce pochissimi giorni fa. Eri sotto le bombe, come sempre, affacciato alla finestra della tua casa che dà sul porto di Gaza. Non l’ho mai vista casa tua, né il porto di Gaza City,  e a dire la verità nemmeno Gaza. Immaginavo tutto con i tuoi occhi. Attraverso i tuoi occhi e i tuoi scritti sentivo le detonazioni degli spari, le esplosioni, le grida e finanche il sapore amaro del sangue. Sentivo anche le risate e le voci dei bambini di cui ti circondavi sempre. Sembravi un gigante rispetto a loro, esili e minuti, sempre sorridenti vicino a te. Anche per questo ti ammiravo da lontano, per l’amore per i bambini e per un popolo che avei fatto tuo.

Ti ammiravo e  ti stimavo perché eri l’ ultimo internazionalista rimasto, ti chiamavano pacifista e  io continuavo a definirti internazionalista, perché incarnavi i principi di abnegazione e sacrificio che devono essere propri di un internazionalista. Io ci credo nell’internazionalismo e io stessa mi considero tale,  ma tu andavi oltre… tu eri il popolo che avevi deciso di difendere, difendevi te stesso insieme al popolo palestinese perché ogni ingiustizia che subivano i tuoi fratelli tu la subivi per primo.

Ci siamo scambiati qualche mail in questi anni, non molte , ma ti ero vicina e il mio pensiero andava spesso al porto di Gaza City, a quella figura che scrutava il mare, al tuo coraggio. Ci siamo scritti quando,  dopo due giornate febbrili tra telefonate e mail (e con il coinvolgimento di tante altre persone) siamo  riusciti a far oscurare i  due siti, uno canadese e uno italiano   dove alcuni pazzi estremisti di destra ti minacciavano di morte. Fu  il mio modo per farti sapere che c’ero, che ti stimavo e che apprezzavo il tuo lavoro, pur non seguendolo quotidianamente. Ho sempre sentito sulla mia pelle le ingiustizie commesse contro gli altri, come diceva il Che, e le minacce di morte contro di te, erano un’ingiustizia che non potevo tollerare. Ti ero, e ti sono riconoscente perché quando nessuno voleva stare in quell’inferno, tu c’eri e i tuoi occhi erano la nostra finestra sul dolore di un popolo intero, erano il testimone contro il  genocidio commesso da Israele.

Mi hai scritto qualche giorno fa, forse affacciato alla finestra della tua casa sul porto di Gaza. Avevi appena inviato il tuo  bollettino di guerra, 5 palestinesi uccisi, una quarantina di feriti, molti bambini e preannunciavi l’offensiva israeliana. Rispondesti  ai miei saluti e alla frase con cui terminano le mie mail:   L’uomo è nato libero ed è ovunque in catene. (J.J.Rousseau):

Grazie

Se ho deciso di stare qui è perché

viviamo in catene ma moriamo liberi.

Abbraccio Vik

Sei nato, sei vissuto e sei morto libero. Profondamente libero. Soprattutto libero di seguire il tuo cuore. In catene sono gli uomini che ti hanno ucciso, chiunque essi siano, prigionieri del loro odio e dei loro integralismo. Non so se credere alla versione secondo la quale sia stato un gruppo di Salafiti a toglierti la vita.

La responsabilità è sempre e comunque di Israele, la sua politica genocida sta permettendo che Gaza finisca sempre di più nelle mani degli integralisti.

Crepate tutti. Non siete umani.

Annalisa Melandri

 

 


El diario colombiano El Tiempo miente respecto al presunto apoyo de la izquierda alemana al TLC con Colombia

0 commenti

“Izquierda dura alemana apoya TLC con Europa, pero con reservas”, así titula el diario colombiano El Tiempo respecto a la postura de la izquierda alemana acerca del  apoyo al TLC con Colombia.

En estos días el presidente colombiano Santos está de gira en Europa para profundizar relaciones económicas y políticas en el Viejo Continente.

Según cuanto reportado por el diario colombiano,  Gregor Gysi, presidente del grupo parlamentario Die Linke habría expresado al Presidente “que su partido tiene todavía algunas inquietudes para respaldar la firma del TLC de Colombia con Europa, […] y que el  gobierno del Presidente Santos presenta  la coyuntura ideal para darle fin a la problemática con las Farc”.

Sin embargo hoy los mismos dirigentes del partido socialista alemán (socialdemócratas y no comunistas o izquierda dura  como escribe El Tiempo manipulando a beneficio propio hasta la postura política del partido alemán)  desmintieron el reportaje del diario colombiano agregando que Gregor Gysi había firmado también una moción parlamentaria contra la aplicación del TLC con Colombia.

Este es el  comunicado de prensa difundido por Heike Hänsel diputada de la misma bancada de Die  Link:    “el tratado de libre comercio de la UE con Colombia y Perú no hará ningún aporte a los derechos humanos y el desarrollo, sino que agudizará más las tensiones sociales en Colombia, declara la vocera de la bancada parlamentaria de la Izquierda, Heike Hänsel, con motivo de la visita de estado del presidente Juan Manuel Santos Calderón en el día de hoy a Berlín… Santos busca actualmente en Europa profundizar las relaciones económicas sobre la base del tratado de libre comercio neoliberal. Negocios exitosos para las grandes empresas europeas y colombianas – pero la pérdida de la base de supervivencia para los pequeños campesinos y pequeñas y medianas empresas  colombianas. Estos impactos del tratado de libre comercio, que se encuentra adportas de su ratificación, son los temidos por las organizaciones sociales en Colombia, afirma Heike Hänsel”.

“La situación de derechos humanos en Colombia sigue siendo problemática, asi el presidente Santos intente limpiar la imagen durante su actual visita a alemania“, añade Heike Hänsel. Las amenazas de muerte contra miembros de diversas organizaciones de derechos humanos y su criminalización por parte del estado colombiano hacen parte del orden del dia.

“La Izquierda le pide al gobierno federal alemán hacer valida su influencia ante el gobierno colombiano para que envie señales serias con el fin de dar inicio a un proceso de paz con las FARC, después de las últimas liberaciones unilaterales llevadas a cabo por esta guerrilla”, continua la vocera de la bancada parlamentaria La Izquierda.

“En caso de entrada en vigor del tratado de libre comercio se estímularian aún más los conflictos por la tierra. La Izquierda rechaza el tratado de libre comercio y exige en lo posible un proceso de ratificación amplio y democrático a través de los parlamentos de los estados miembros de la Unión Europea”, declara finalmente Heike Hänsel.

El Tratado de Libre Comercio con Colombia, que hace parte de la propuesta más amplia de TLC entre Unión Europea, Colombia y Perú,  ha sido rechazado en Europa y en América latina por  grupos parlamentarios y por asociaciones y movimientos  sociales sobre todo por la grave situación de las violaciones de los derechos humanos en Colombia y por consideraciones según las cuales estos acuerdos van a favorecer la concentración de los recursos naturales de los países en las manos de las transnacionales extranjeras. Sin embargo el acuerdo ya se ha firmado entre la Comisión Europea y los dos países andinos. Falta  la aprobación y la rubricación del Parlamento Europeo.

 


Vittorio resisti!!!

0 commenti

Vittorio ti penso, di più non posso…


Eric Salerno: con le “rivoluzioni” arriverà la destabilizzazione

11 commenti

Negli ultimi mesi vari paesi dell’Africa mediterranea e del Medio Oriente hanno visto insurrezioni popolari più o meno spontanee:  Tunisia, Algeria, Egitto, Bahrein, Iran, Libia, Marocco. Altre  si profilano all’orizzonte in regioni limitrofe, come  in Siria per esempio.

Si parla di “primavera araba” e  di “effetto domino” mentre  alcuni analisti osservano come invece da parte della comunità internazionale si stia portando avanti la  politica di due pesi e due misure influenzata da convenienze economiche e strategiche. Ne parliamo con Eric Salerno, profondo conoscitore della Libia e del Medio Oriente,  inviato del quotidiano Il Messaggero, scrittore e saggista, autore tra gli altri di Genocidio in Libia: le atrocità nascoste dell’avventura coloniale; «Uccideteli tutti». Libia 1943: gli ebrei nel campo di concentramento fascista di Giado. Una storia italiana;  Mossad base Italia. Le azioni, gli intrighi, le verità nascoste.

Intervista di Annalisa Melandri — www.annalisamelandri.it


A.M. – Eric, si può parlare di “effetto domino” rispetto alle  varie insurrezioni popolari che negli ultimi mesi hanno sconvolto alcune regioni dell’Africa mediterranea e del Medio Oriente o crede che sia necessario fare delle opportune distinzioni?

E.S. - L’effetto domino, in qualche modo c’è, ma questo non significa che tutte le situazioni sano uguali tra di loro. E soprattutto non significa che tutte le insurrezioni sono  nate e poi sono proseguite  nello stesso modo. Diventa sempre più chiaro che “forze esterne” hanno dato una mano a mandare avanti i giovani, non soltanto sfruttando il web ma anche con un coinvolgimento più diretto per indirizzare le rivolte. Tutti i regimi toccati, in un modo o in un altro, sono giustamente nel mirino di chi vuole vivere meglio.

 

A.M. – Perché in Libia si è intervenuto militarmente e altrove no? E’ l’ennesima guerra per il petrolio e quindi in un certo senso il risveglio del colonialismo europeo?

E.S. - Io non credo tanto alla questione del petrolio. Le compagnie petrolifere occidentali – Italia, Francia, Stati Uniti in primo piano –già operavano in Libia. Credo piuttosto a convenienze particolari: Sarcozy aveva bisogno di recuperare consenso nei sondaggi interni, il premier britannico anche. Obama invece è stato trascinato in una guerra perché è stato convinto, dopo giorni di esitazione, che Gheddafi si apprestava a massacrare la popolazione di Bengasi. Dunque, si è mosso convinto di agire per motivi umanitari. Vorrei, a questo proposito, sottolineare il ruolo di alcune televisioni, come Al Jazeera, nel promuovere l’intervento straniero. Hanno sposato fin dal primo momento la causa dei ribelli. Un’azione, a quanto pare, caldeggiata dall’emiro del Qatar a cui la televisione satellitare araba fa capo. Non dimentichiamo che dopo due giorni di scontri a Bengasi, i giornali di mezzo mondo hanno ripreso notizie non controllate e titolato “Oltre diecimila morti”, “Fosse comuni” a Tripoli. Due falsità che gli stessi inviati arrivati sul posto hanno dovuto riconoscere. (altro…)


Giorgio Bornacin, Cristiano De Eccher, Fabrizio Di Stefano, Francesco Bevilacqua, Achille Totaro, Egidio Digilio: senatori fascisti

3 commenti

da sinistra in alto Cristiano De Eccher, Fabrizio Di Stefano, Francesco Bevilacqua, e poi in basso Giorgio Bornacin, Achille Totaro, Egidio Digilio.

Non si offenderanno sicuramente se li chiamiamo FASCISTI, anzi!

Sono i sei senatori che hanno presentato  il  disegno di Legge (n. S2651) per abrogare la XII Disposizione transitoria e finale della Costituzione, quella in pratica che vieta la ricostituzione del partito fascista e che recita testualmente:

E‘ vietata la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista.
In deroga all’articolo 48, sono stabilite con legge, per non oltre un quinquennio dall’entrata in vigore della Costituzione, limitazioni temporanee al diritto di voto e alla eleggibilità per i capi responsabili del regime fascista.

Qui (Open Parlamento) si può lasciare un commento alla proposta del disegno di Legge. Vi prego di farlo NUMEROSI!!!

 

p.s. il  senatore Egidio Digilio (finiano), inizialmente tra i primi firmatari, ha rinunciato dopo l’ira di  Fini e di  Bocchino per la suddetta proposta e per la sua firma.

Ringrazio Gennaro Carotenuto per la segnalazione e per la foto.


Olga Salanueva e Adriana Pérez: chiediamo a tutto il mondo di intensificare la campagna per la liberazione dei 5 cubani.

0 commenti

Olga(izquierda) y Adriana (derecha) con sus esposos en una fotografía de hace 12 años

 

Si può vivere dodici anni per la libertà della persona amata detenuta ingiustamente? Si può vivere dodici anni lottando con la stessa forza fin dal  primo giorno? Adriana  Pérez e  Olga Salanueva, mogli rispettivamente di  Gerardo Hernández e di  René Gonzáles,  due dei cinque cubani detenuti negli Stati Uniti dal 1998, ci raccontano in questa intervista (realizzata durante un loro viaggio in Italia nella primavera scorsa) le loro vite, le difficoltà, i desideri, le lotte. Una chiacchierata tra donne più che un’intervista, esplorando delicati sentimenti di affetto e amore ma sempre accompagnati da una forza e una determinazione ammirevoli. Non ci sono dubbi che i cinque cubani , Gerardo Hernández, René González, Ramón Labañino, Fernando González y Antonio Guerrero, i quali, ricordiamo, furono arrestati a Miami (dove stavano svolgendo indagini sui gruppi anticastristi che progettavano attentati terroristi a Cuba) e i loro familiari, siano veri uomini e donne di pace, per star sacrificando le loro vite e la loro libertà per la sicurezza del popolo cubano.

Adriana e Olga non vedono i propri  mariti da dodici anni. Le autorità statunitensi hanno negato loro il visto e quindi la possibilità di visitarli,  circa una decina di  volte con argomenti diversi, come il fatto che si tratti di possibili immigranti o che  rappresentano una “minaccia per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti”. Olga ha potuto visitare René in carcere soltanto  i primi due anni  di detenzione, poi è stata deportata dagli Stati Uniti come forma di ricatto perché lui non voleva ammettere l’infame accusa secondo la quale  stava spiando il governo statunitense.

Olga e Adriana sono due donne tenere e innamorate, ma soprattutto determinate, che da dodici anni percorrono il mondo denunciando la prigionia ingiusta dei loro mariti da parte di un governo arrogante e prepotente. Un governo che lascia passeggiare tranquillamente per le strade di Miami il terrorista cubano Luis Posada Carriles reo confesso di vari  attentati contro Cuba (tra i quali quello che costò la vita al nostro Fabio Di Celmo). Lo stesso Posada Carriles sul quale stavano indagando a Miami i 5 cubani e che per questo furono arrestati.


A.M.:  Olga e Adriana, che condanne stanno scontando Rene e Gerardo?

OLGA: René è stato condannato a 15 anni di carcere e Gerardo, che ha la condanna più  dura, deve scontare due ergastoli più 15 anni. Sono detenuti entrambi dal 12 settembre 1998.

 

AM. : Che tipo di contatti avete con loro?

OLGA : Abbiamo dei contatti tramite le telefonate che possono essere fatte esclusivamente dal carcere verso l’esterno. Hanno a disposizione una certa quantità di minuti che devono utilizzare per parlare con gli avvocati, con i funzionari del governo cubano che sono quelli che trasmettono tramite il consolato le notizie dei familiari e con le proprie famiglie. Alla fine rimane veramente  poco tempo per parlare con noi.

L’altro modo è tramite la posta ma questa forma di comunicazione è compromessa dalla  censura del carcere così come accade anche per le telefonate. Queste sono registrate  tutto il tempo e anche la posta è controllata. Tuttavia non è  importante, la cosa importante è il tempo che impiega una lettera ad uscire o a entrare in carcere, specialmente nel caso di Gerardo che sconta  la pena più dura  e al quale ostacolano anche maggiormente la corrispondenza: una lettera indirizzata a lui può impiegare anche più di due mesi per arrivare; nel suo caso inoltre è anche violata la legge sulla corrispondenza.  Questo molte volte ha interferito in alcuni momenti importanti del processo rispetto ai dibattimenti. Non ha potuto avere e controllare  tutta la documentazione che si doveva presentare alla Corte Suprema, nonostante fosse il più coinvolto nel caso. Quindi la comunicazione con loro è minima, cerchiamo di approfittare al massimo; il maggior tesoro che abbiamo sono quei due o tre minuti di telefonate,  a volte perfino 15, ma a volte quei pochi minuti devono essere condivisi.

Per noi sono molto più importanti le telefonate perché attraverso la posta,  sebbene puoi esprimere tutti i tuoi sentimenti, questa impiega troppo tempo per  arrivare. Inoltre ultimamente nelle carceri federali è stata  approvata la posta elettronica, ma in due casi, quello di Fernando e di Gerardo loro hanno la proibizione assoluta di usare la posta elettronica e anche per gli altri tre ai quali è stata autorizzata, può essere che una mail gli arrivi dopo due, tre giorni, o quattro giorni.

 

AM.: Avete figli?

ADRIANA: No, Gerardo ed io non ne abbiamo.

OLGA:  René  ed io abbiamo due bambine che non sono più tanto bambine, la maggiore compie 26 anni e la più piccola 12. Noi siamo sposati da 27 anni, siamo i più grandi del gruppo.

 

A.M.:  Avevate  nutrito in qualche momento  delle speranze con l’elezione  di Obama alla presidenza degli Stati Uniti?

ADRIANA:  Sappiamo che ogni amministrazione ha una posizione ben definita rispetto a Cuba, ma l’ingiustizia verso i 5 è evidente, loro hanno trascorso già troppi anni in prigione. Quello che è certo è che abbiamo fiducia nella pressione che da ogni parte del mondo si può esercitare verso l’amministrazione di Obama, tenendo presente  che si tratta di una amministrazione un po’ più ricettiva ai reclami internazionali delle precedenti. Ciò nonostante è passato già un anno e mezzo dalla sua elezione e non abbiamo avuto nemmeno  il gesto di buona volontà della concessione del visto.  Ovviamente abbiamo molta più  fiducia nelle  iniziative che la gente  può intraprendere per spingere Obama e la sua amministrazione a prendere una decisione. In questo modo si potrebbe dimostrare che la decisione che lui prende non è solo una sua decisione personale ma è frutto di una richiesta internazionale, che si sappia cioè che a livello internazionale c’è attenzione rispetto a questo governo e alla giustizia. E’ proprio per questo che facciamo una richiesta a tutto il mondo, e cioè che si intensifichi  la campagna di liberazione per i 5. E’ il momento di dimostrare agli Stati Uniti che il loro operato è osservato da tutto il mondo.  Sappiamo anche che Obama non agirà mai volontariamente e spontaneamente,  per questo bisogna fare pressioni e non con azioni isolate, ma cercando di fare in modo che ogni giorno gli arrivino i messaggi, che arrivino le informazioni, che arrivino le richieste, per ottenere che si metta fine a questa ingiustizia e che non si ottenga per vie legali  ma tramite  pressione internazionale.

 

A.M.: Avete provato ad  ottenere un incontro con Obama?

OLGA: Magari potessimo avere l’opportunità di incontrarci personalmente con lui! Abbiamo cercato di arrivare a lui in modi diversi, attraverso personalità, attraverso persone solidali in Parlamento… Non possiamo vedere Obama perché lui non va a Cuba e noi non possiamo andare negli Stati Uniti. I familiari, ai quali sono consentite le visite, ottengono  i visti con condizioni molto specifiche. Rispetto  al luogo di accesso, cioè per dove devono entrare, rispetto alla  città dove devono stare, che deve essere quella dove si trovano i detenuti, inoltre hanno proibizione assoluta di accesso a qualsiasi incontro, a qualsiasi intervista, non possono avvicinare nessuna personalità nel momento in cui hanno il visto in territorio statunitense. Questo gli viene concesso solo ed esclusivamente per recarsi in carcere ed effettuare la visita di quel mese e fare ritorno, quindi se non possono vedere  un giornalista, molto meno nessuno di noi potrà avere accesso alla Presidenza.

Come diceva Adriana la cosa più importante adesso è il lavoro delle  persone solidali che ci permettono in  forma indiretta di arrivare all’amministrazione Obama. Evidentemente le voci dei 5 non sono ascoltate, non sono ascoltate le voci dei familiari e nemmeno del popolo di Cuba e del governo cubano che si è espresso apertamente a favore della liberazione dei 5.

 

A.M. : Uno sguardo femminile e rivoluzionario alle vostre vite…

OLGA: Noi, le mogli e le madri, la parte  femminile della famiglia, viviamo la maggior parte del tempo in attesa. Rimangono solamente tre madri, le altre sono morte, quella di Gerardo recentemente. Quelle che sono ancora in vita vivono con gli altri figli, soffrendo giorno dopo giorno in attesa della liberazione di quelli in prigione. Rispetto alle mogli, due coppie non hanno figli, Adriana e Gerardo e Rosa Aurora e Fernando. Loro vivono sole nelle loro case aspettando i loro mariti.

Economicamente siamo tutte indipendenti, siamo professioniste, in diversi settori. L’aspetto economico non è quello più importate, godiamo come tutti i cubani della sicurezza sociale, della tranquillità cittadina, ma ci manca la cosa fondamentale. Io e Gerardo e Ramón e sua moglie abbiamo figli. Ramón ha una figlia maggiore da un altro matrimonio che vive con la madre e con Elizabeth ha due figlie, una bambina di 13 anni e  una ragazza di 17 ed io ho le due di cui ti ho parlato.

E’ molto difficile… non ti nego che è molto difficile, giorno dopo giorno, perché  non si tratta né di due mesi e nemmeno di due anni, sono 12 anni trascorsi con la tristezza di non avere nostro marito in casa. I nostri  matrimoni sono stati matrimoni d’amore  e ogni coppia quando si forma fa dei progetti per vivere insieme, per trascorrere la vita insieme, per avere figli, per fare piani futuri. Tutto questo un giorno si è paralizzato, ma dobbiamo andare avanti, dobbiamo passare sopra a tutto questo perché dobbiamo vivere  per avere la forza di continuare a lottare, affinché loro possano tornare a casa prima di quando il governo degli Stati Uniti abbia programmato, che nel caso di Gerardo è mai più.

Quindi è molto difficile stare sole, tornare a casa la sera e chiudersi la porta alle spalle.  Nel caso per esempio di quelle che non hanno figli lo è ancora di più,  senza nemmeno la confusione dei figli in casa, perché quella confusione ti aiuta a riprendere le forze non solo per te stessa,  ma anche per loro e il tempo passa più velocemente. Nel caso di quelle che sono sole è difficile restarlo un giorno in più e poi un altro e poi un altro ancora, le speranze a volte si affievoliscono,  come quando vediamo che da un punto di vista giuridico non ci sono sviluppi. Per  questo la famiglia  è così importante, le persone invecchiamo, perdi i tuoi affetti, questo aspetto è veramente difficile.

Noi pensiamo sempre prima a loro, se noi siamo sole, se tutto questo è molto difficile da un punto di vista affettivo, che cosa staranno passando loro chiusi in celle d’isolamento per tanti mesi? Cosa staranno passando con tanto tempo senza comunicare, mentre cercano di  impedirgli anche di ricevere una lettera, vedendo che non ci sono speranze di uscire presto. Questo ci dà la forza perché noi dobbiamo essere le loro voci, la loro possibilità di muoversi, di avere amici, di cercare voci… questo siamo noi, perché loro non possono.

Quindi la lotta per la loro libertà diventa il cardine dei nostri giorni, tutti i giorni lottiamo per questo, ma quando torniamo nelle nostre case dopo il lavoro, quando cuciniamo, puliamo la casa, andiamo dormire, in quel momento la nostra mente ritorna lì, non riposa, non riposiamo mai. Ricordiamo anche che loro si trovano in quel luogo per difendere la vita e che questo ha colpito il popolo cubano  da vicino: sono molte le famiglie che vanno a dormire la sera pensando alle persone care che hanno perso negli attentati terroristi. Allora ci diciamo che loro si trovano lì per avvertire il nostro popolo del pericolo e dobbiamo fare di tutto perché escano per continuare a difendere  la vita.

di Annalisa Melandri

www.annalisamelandri.it

 

 

 


Nucleare nelle scuole: disinformazione di governo fin dalla prima media

0 commenti


Pierpaolo Mittica: Progetto Fotografico “Chernobyl, l’eredità nascosta” http://www.progettohumus.it


Vivo all’estero e  mio figlio avrebbe dovuto frequentare in Italia quest’ anno la prima media. Il suo testo di geografia era il seguente: GEOGRAFIA Edizioni Atlas 1 Europa (2008),  che ho comprato comunque e che ogni tanto sfogliamo insieme, tanto per rimanere al passo con i suoi vecchi compagni di scuola.

Poco tempo fa stavamo leggendo insieme  il capitolo relativo alle “Risorse e l’energia”. Interessante per un bimbo di 11 anni: le risorse del sottosuolo, la produzione di energia, le energie alternative, il petrolio… Arriviamo al paragrafo dell’energia elettrica e dell’energia nucleare,  che copio testualmente:

“La forma di energia più utilizzata in Europa è quella elettrica. Essa viene prodotta prevalentemente nelle centrali termoelettriche mediante la combustione  di petrolio, carbone o gas naturale oppure attraverso impianti idroelettrici che sfruttano la caduta dell’acqua.

A partire dagli anni ’80 si è diffuso l’utilizzo dell’energia nucleare, prodotta dalla disintegrazione (fissione) dei nuclei atomici dell’uranio. Alcuni Paesi europei (Francia, Russia, Regno Unito, Germania, Ucraina, Svezia, Spagna) sono tra i più “nuclearizzati” del mondo per l’elevato numero di impianti nucleari presenti sul loro territorio.

In Francia, ad esempio, esistono circa 60 centrali nucleari , che producono i ¾ dell’energia nazionale.

A causa della pericolosità delle centrali nucleari alcuni paesi (Svezia, Germania, Paesi Bassi) avevano deciso di arrivare nel lungo periodo alla graduale chiusura di questi impianti. Il miglioramento dei sistemi di sicurezza approntati, il problema di ridurre le emissioni di gas ad effetto serra (prodotti dai combustibili fossili)  e i minori costi dell’energia nucleare, hanno indotto i governi  a sospendere questa decisione”.

Il paragrafo seguente (10 righe) tratta dell’ impatto ambientale ed economico della produzione energetica, della  dipendenza dall’estero per l’approvvigionamento, del pericolo di incidenti, della difficoltà di smaltimento delle scorie e del fatto che le riserve di fonti energetiche sono esauribili.

Continuiamo a leggere  una pagina intera dedicata al petrolio e alle catastrofi ambientali (incidenti alle petroliere e lavaggi delle cisterne). Si prosegue con le fonti rinnovabili. Tanta  teoria e poca pratica. Fine del capitolo.

Resto basita!!!

Leggete attentamente il testo in corsivo per favore… Ci sono alcune omissioni importanti ed evidenti. Innanzitutto non una parola, una sola,  sul referendum con cui gli italiani in massa nel 1987 dissero NO al nucleare. Eppure si fa una lista di paesi, Svezia, Germania e Paesi Bassi che “avevano deciso di arrivare nel lungo periodo alla graduale chiusura di questi impianti”. Ma che poi, non lo fecero per tutti quei bei motivi elencati (il miglioramento dei sistemi di sicurezza, le emissioni di gas ad effetto serra, i minori costi dell’energia nucleare…).

Tuttavia, oltre ad essere strano che proprio un testo italiano ometta la notizia del referendum in Italia, osserviamo che  si omette anche di dire, rispetto ai paesi citati,  che nel 2006 proprio in Svezia si registrò un gravissimo incidente nucleare per cui tre delle dieci centrali furono chiuse. Altri due reattori chiusero per difetti di progettazione. Non si dice nemmeno che la Svezia nonostante l’utilizzo del nucleare, contempli tra i piani energetici governativi l’abbandono del combustibile fossile per i trasporti nel 2030, che nel 2020 dovrebbe avere il 50% di energia da fonti rinnovabili  e che il paese dovrebbe entro il 2050 arrivare ad emissioni zero.

Ma se di per se questo è già abbastanza grave, gravissimo invece appare che non si faccia nel citato testo, un solo riferimento al più grave incidente nucleare della storia, quello di Chernobyl, avvenuto in Ucraina il  26 aprile 1986. Questa evidente disinformazione, compiuta a discapito dei bambini  è criminale.

Chiudiamo il libro e davanti alle fotografie di Chernobyl che si trovano per fortuna, in rete, ne parliamo.



Guerra in Libia: la rete ha ucciso la piazza?

9 commenti

La fantasia in piazza nel 2003


“E’ con grande piacere che do il benvenuto al ministro Gheddafi al Dipartimento di Stato. Noi attribuiamo grande valore alle relazioni tra gli Stati Uniti e la Libia. Abbiamo grandi opportunità per approfondire e ampliare la nostra cooperazione e personalmente ho la ferma intenzione di consolidare i nostri rapporti. Pertanto, signor ministro, sia il benvenuto tra noi”.   (21 aprile 2009. Mutassim Gheddafi viene ricevuto con tutti gli onori a Washington da Hillary Clinton)


Il mondo è in guerra. L’ennesima guerra neocolonialista-imperialista, questa volta per impossessarsi delle riserve di petrolio della Libia.

L’aggressione  è  stata realizzata tanto velocemente  (il tempo per l’ennesima  ridicola riunione  del Consiglio di Sicurezza dell’ ONU) quanto  evidentemente criticabile da ogni punto di vista, soprattutto da quello dello stesso diritto internazionale con il quale pure vorrebbe legittimarsi.  Non può essere infatti sostanzialmente valida  una risoluzione internazionale emessa ad hoc a legittimare un intervento armato con lo scopo di imporre la democrazia, quando  l’organismo che la emette diventa strumento nelle mani delle potenze mondiali. Perché infatti  non si è mai intervenuto allo stesso modo contro Israele, che continua impunemente, anche in queste ore,  a commettere un vero e  proprio genocidio sistematico contro il popolo palestinese?

Più passano le ore e più,  nel caos e nella confusione di dichiarazioni, smentite, dubbi sui ruoli e finanche sullo scopo,  l’intera operazione si profila come la stessa campagna mediatica che l’ha preceduta: maldestra, confusa, improvvisata e  grossolana.

Con quelle tombe in costruzione fatte passare per fosse comuni, con i bombardamenti inesistenti su Tripoli, smentiti allegramente dall’ambasciatore italiano e dal vescovo di Tripoli che proprio in questi giorni sta parlando  di guerra assurda e sta invocando  la “mediazione per risolvere i conflitti” (non era la stessa cosa che diceva Chávez qualche settimana fa?), bufale colossali, come i 10.000 ribelli morti e gli oltre 50.000 mila feriti, che quasi nemmeno il terremoto e lo tsunami in Giappone. Bufale che  gli stessi ideatori e disinformatori  di professione  hanno dovuto ritirare in fretta e furia  dal mercato di fronte all’evidenza dei fatti.

Campagna mediatica evidentemente  grossolana proprio perché si è reso evidente il fatto che non era necessario uno sforzo disinformativo eccezionale. Si disinforma chi  potrebbe, di fronte all’evidenza dei fatti,  reagire in qualche modo. Chi avrebbe dovuto reagire a questa nuova guerra, e come? L’ opinione pubblica internazionale?

Perché esiste l’opinione pubblica internazionale? Di cosa o chi stiamo parlando? Di quell’ “indignazione morale condivisa per infrazioni evidenti del comandamento contro la violenza e per massicce violazioni dei diritti umani”?[1] Dove sta? Dove e come  si esprime? Chávez a l’intera  coalizione dell’Alba,  da  sud tuonano contro le mire neocolonialiste di un pugno di stati che credono che le lancette del tempo siano ancora  ferme al XIX secolo, Putin, da nord  parla di “crociata medievale”… In mezzo c’è l’Europa, confusa politicamente e con la voce del suo popolo, della sua gente completamente assente oggi.

Dove stanno? Dove sono le voci dei popoli? Gli unici a levare proteste contro la guerra sono alcuni presidenti, qualche governo, qualche intellettuale… Dove sono i giovani?  Dove sta il sentimento pacifista che ha animato in passato le strade e le piazze europee e che è stato il fondamento, il pilastro di tutti i movimenti giovanili? Dove stanno le bandiere della pace che hanno colorato le strade e le piazze europee tra il 2002 e il 2003? Si calcola che allora in Italia quasi tre milioni furono  i balconi e le finestre dove il vessillo multicolore indicava che in quella casa, in quell’ufficio, in quella scuola si stava esprimendo  un forte e chiaro NO alla guerra! E le moltitudinarie proteste del febbraio 2003…

Questa è la ricostruzione che fa di quel sabato 15 febbraio 2003 lo storico statunitense J.J. Sheehan[2]:Sabato 15 febbraio 2003 si tenne la più grande dimostrazione della storia europea, contro la guerra che stava per colpire l’Iraq. A Londra una folla di circa un milione di persone si riversò in Trafalgar Square, riempiendo le strade cittadine dagli argini del Tamigi alla Euston Station; un milione di manifestanti marciò a Barcellona e a Roma, altri 600.000 a Madrid. A sfidare il gelo al Tiergarten di Berlino furono in 500.000, un numero quasi pari ai partecipanti alla Parata dell’Amore che vi si teneva in estate. Si trattava ovunque di folle pacifiche. Ci furono pochi arresti, nessun episodio di violenza. Le dimostrazioni attirarono una ricca varietà di partecipanti: c’erano alcuni adolescenti vestiti in pelle e con l’aria da duri e giovani che indossavano la kefiah palestinese o la sciarpa nera degli anarchici, ma nella stragrande maggioranza dei casi si trattava di cittadini dall’aspetto rispettabile, che indossavano caldi cappotti invernali e scarpe comode – pensionati, accademici di mezza età, membri dei sindacati, studenti delle superiori e universitari. C’erano tante famiglie, genitori e nonni che non partecipavano a una dimostrazione dagli anni Sessanta, bambini che per la prima volta facevano l’esperienza di quel caratteristico miscuglio di euforia e disagio delle manifestazioni politiche. Un quotidiano tedesco definì l’evento «una rivolta di persone comuni»…. Diversamente da chi in passato aveva manifestato contro la guerra in Vietnam, nessuno mostrava alcuna simpatia per l’altra parte; non c’erano bandiere irachene né ritratti di Saddam Hussein. Per la maggior parte di quelle persone, il vero problema non era chi aveva ragione e chi torto, ma se la guerra potesse essere considerata una risposta.”…In tutte le città coinvolte, guardando al di sopra della marea umana, la scritta che appariva più spesso era composta da una sola parola: «No».

Sicuramente, come si è visto, le proteste nulla hanno potuto contro la guerra, che a distanza di 8 anni continua cruenta ancora oggi. Tuttavia esprimevano un sentire comune, se non dei governanti,  quanto meno dei governati. Esprimevano un sentimento che riuscì anche solo per un breve, anche se inutile momento,  ad uscire dalle pance e a riversarsi nelle strade.

Guardando indietro con gli occhi di oggi, guardando oggi da  questa Europa folle che, nel tentativo di contrastare “l’unilateralismo missionario”  dell’interventismo statunitense di allora, riesce oggi ad essere soltanto una ridicola caricatura di se stessa, vediamo tuttavia che,   l’ottimismo  di alcuni intellettuali  dovuto allora alla  contemporaneità di quelle  moltitudinarie proteste contro la guerra,   appare oggi sicuramente esagerato. Junger Habermas e Jacques Derida nel loro appello dal titolo: Il 15 febbraio: ovvero, ciò che unisce gli europei auspicavano, credendola possibile, “la nascita di un’opinione pubblica europea” proprio a partire da quelle grandi e sentite manifestazioni di pacifismo, le “più grandi dalla fine della seconda guerra mondiale”. Oggi, rispetto ad allora, resta simile soltanto la spaccatura europea rispetto al ruolo della politica estera del continente. E all’interno dei singoli Stati le spaccature sulle posizioni da tenere, rendono tutto il gioco guerrafondaio ancora più sguaiato e meschino. Ai rumori della guerra fa eco il chiasso della politica e tutto intorno il silenzio…

Spostando la visuale, infatti, guardandoci da fuori, noi “persone comuni” del 2003,  dove siamo oggi? Dove sta la nostra rabbia contro la guerra? Dove sono i nostri giovani?

Io lo so e il saperlo mi riempie di tristezza e inquietudine. I nostri giovani stanno tutti al pc. Seguendo giorno per giorno gli avvenimenti. Certo,  partecipando, scrivendo (come sto facendo io stessa in questo momento), dibattendo, insultando questo o quel politico, Berlusconi come Sarkozy, Obama come Cameron, manifestando dissenso e rabbia, esponendo foto e scritte come si fa con gli striscioni in piazza.

Io non credo che sia casuale tutto questo. Io credo, sono fermamente convinta, che la rete sia una grande conquista della comunicazione, che sia una grande opportunità di crescita e di condivisione, di comunicazione e di scambio, di esperienze, di lotte, di battaglie e di informazioni. Credo però anche  che sia mancato uno studio serio e intelligente degli effetti che questo mezzo avrebbe potuto  avere sulla militanza, sulla protesta, sul dissenso. E questo ci ha fregati. Abbiamo pensato, nelle lunghe giornate d’inverno, o al fresco delle nostre case nelle estati assolate e torride,  che fare e produrre informazione comodamente seduti davanti ad un monitor fosse in qualche modo costruttivo. Abbiamo pensato che scrivere, e scrivere, e condividere notizie, e produrre dibattito,  fosse una maniera  diversa e più acculturata di apportare il nostro contributo alle cause in cui credevamo e crediamo.  Abbiamo pensato che far girare e condividere in migliaia di siti le orrende foto degli eccidi israeliani al fosforo bianco sui bambini palestinesi volesse dire contribuire in quale maniera a quella causa. Abbiamo pensato che mettere la bandiera della pace nelle nostre pagine web o nei nostri avatar fosse come mettercele addosso o esporle alle nostre finestre.

Sbagliavamo. Le piazze si sono svuotate, i cortei si sono fatti più silenziosi e noiosi, i colori sono lentamente sfumati. Nessuno grida più, nessuno torna a casa la sera stanco, sudato e senza voce dopo un corteo, tutti appaiono stanchi invece di tanto sbraitare e urlarsi addosso rabbia virtuale nei social forum.

Il potere ha vinto. La fantasia non è riuscita a dominarlo. In passato soffocata da tonnellate di  droghe gettate addosso alle menti migliori, quelle più fervide e ribelli, poi livellata  con il ventennio uniforme e squallido dell’avvento delle televisioni commerciali (che ha dato il colpo di grazia a cultura e originalità), così oggi, i centri di potere,  dandoci l’illusione della libertà di espressione, facendoci credere di essere tutti partecipativi nella creazione globale dell’informazione, con quel mezzo diabolico e terribilmente geniale e seducente che è internet,  hanno controllato, con meno morti e meno diffusione di malattie,  ogni velleità rivoluzionaria dei giovani.

In piazza a Roma la settimana scorsa contro la guerra hanno manifestato una cinquantina di persone, il gruppo in Facebook Fuori l’Italia dalla Guerra in Libia conta 697 persone, il gruppo No alla guerra in Libia piace a 150 persone, No alla guerra contro la Libia piace a 300 persone, Io non voglio la Guerra in Libia piace a 792 persone e così via…

Paradossalmente proprio questi mezzi, internet  e i suoi social Forum Facebook e Twitter, proprio quelli  che hanno contribuito a creare adesione e consenso intorno a tanti militanti di alcuni paesi lontani da noi sia geograficamente che culturalmente , sono stati quelli che li hanno maggiormente isolati, chiudendoli dentro le maglie repressive della rete.

La rete, quella è la vera piazza oggi. Questa è la vera sconfitta. La nostra e del pacifismo, violento o non violento che sia, più educato e rispettoso o sguaiato e rabbioso, non importa il modo o la forma. E’ la sostanza che manca, la grande assente.  Questa,  signori, è la sonora e scottante sconfitta della militanza.





[1] J. Habermas, L’Occidente diviso, Editori Laterza, Roma-Bari 2005

[2]J.J. Sheehan L’età post-eroica Guerra e pace nell’Europa contemporanea (Laterza)



Olga Salanueva y Adriana Pérez: ellos están allí por querer advertir a nuestro pueblo de la muerte

0 commenti





Olga (izquierda) y Adriana (derecha) con sus esposos en una fotografía de hace 12 años






Se puede vivir doce años luchando por la liberación de la persona amada detenida injustamente en una cárcel? Se puede vivir doce años luchando con la misma fuerza desde el primer día?  Adriana Pérez y Olga Salanueva, esposas  respectivamente de Gerardo Hernández y de René Gonzáles,  dos de los cinco cubanos presos en Estados Unidos desde el año 1998,  nos cuentan en esta entrevista  (realizada durante un viaje de ellas a Italia en la primavera pasada),  sus  vidas, sus dificultades, sus deseos, sus luchas. Una  charla entre mujeres  más que una entrevista, explorando delicados sentimientos de amor y cariño pero siempre acompañados por una fuerza y una terquedad admirables. No hay dudas  en que los 5 cubanos, Gerardo Hernández, René González, Ramón Labañino, Fernando González y Antonio Guerrero, que recordamos fueron arrestados en Miami donde estaban  haciendo investigaciones  sobre los grupos anticastristas que proyectaban   atentados terroristas en Cuba y ellas, además de las otras esposas y familiares  sean   verdaderos hombres y mujeres de  paz al estar sacrificando sus vidas y su libertad por la seguridad de su pueblo.

Adriana y Olga no ven a sus esposos desde doce años. Les  han negado la visa para visitarlos alrededor de  diez veces con argumentos diferentes, como que son  posibles inmigrantes o que representan una amenaza por la “seguridad nacional de Estados Unidos”. Olga pudo visitar los primeros dos años a René en la cárcel,  luego fue deportada  de Estados Unidos como forma de  chantaje  y de  venganza porque René no quiso admitir la infamante acusación según la cual  estaba espiando el gobierno americano.

Olga y Adriana  son  dos mujeres tiernas y enamoradas, pero sobre todo determinadas,  que desde doce años recurren el mundo denunciando la injusta detención de sus esposos de parte de  un gobierno arrogante y prepotente. Un  gobierno que ahora deja pasear  líberamente por las calles de Miami el terrorista cubano Luis Posada Carriles reo confieso de diferentes atentados en Cuba(entre ellos el que costó la vida al nuestro Fabio Di Celmo). El mismo Posada Carriles sobre quien los 5 cubanos estaban investigando en Miami y que por esto fueron detenidos.

por Annalisa Melandri — www.annalisamelandri.it


A.M. :¿Olga y Adriana, qué condenas  tienen René Y Gerardo?

OLGA: René  está condenado a 15 años de cárcel y Gerardo, que tiene la condena más  pesada, a doble cadena perpetua más 15 años de prisión. Están presos  todos los 5 desde el  12 de septiembre de 1998.


A.M. : ¿Ustedes no tienen ningún tipo de contacto con ellos?

OLGA: Bueno,  nosotros tenemos contactos a través de llamadas telefónicas que se hacen únicamente de  las cárceles  hacia afuera. Ellos tienen una  determinada cantidad de minutos  a disposición que  tienen que emplear para hablar con sus abogados, hablar con funcionarios cubanos que son los que le transmiten a través de los accesos  consulares fundamentalmente las noticias de las familias y con los familiares. Efectivamente tienen  muy poco tiempo a disposición para para comunicarse.

La otra vía es la correspondencia,  pero  esa se ve afectada por la censura que lleva  la cárcel igual que como ocurre con las llamadas telefónicas. Estas son  grabadas todo el tiempo y la correspondencia también es revisada. Sin embargo   eso no es lo importante, lo  importante es la demora en la llegada y la salida de la correspondencia  hacia el exterior que se va  muy afectada , fundamentalmente en el caso de Gerardo  que es precisamente el que tiene los mayores cargos, la mayor sentencia, dos cadenas perpetuas  y además le ponen  más  obstáculos en la correspondencia. Escribirle  a Gerardo puede ser que le demore a llegarle una carta varios meses y en su caso también es violada la ley de la correspondencia legal   que debería  ser entregada cerrada o abierta delante de él,  le llega muy tardíamente y  abierta sin su  presencia.  Esto  ha interferido en muchas ocasiones importantes  de los procesos en las diferentes apelaciones; de hecho él no pudo tener en su mano toda la documentación que se iba a presentar ante la Corte Suprema, él no la pudo revisar no obstante  fuera  el más implicado en el caso. Entonces la comunicación con ellos  es mínima,  la tratamos de aprovechar al tiempo, el mayor tesoro que tenemos nosotras son  dos tres minutos de llamada,  cuatro,  hasta 15 minutos en una llamada, pero a veces se tienen que compartir los minutos .

Para nosotras son mucho más importantes las llamadas porque la carta si bien  puede  expresar  todo tu sentimiento, demora mucho.  Además últimamente en las cárceles federales se ha aprobado el correo electrónico,  pero en dos de los casos, el de Fernando y de Gerardo   tienen la prohibición absoluta de acceso al correo electrónico,  aunque en el caso de los  otros tres que  lo tienen aprobado,  tu escribes un correo y puede que demore  dos o  tres días, o cuatro.


A.M. ¿Ustedes tienen hijos?

ADRIANA:  No.  Gerardo y yo no tenemos.

OLGA: René tiene dos  niñas que ya no son tan niñas, la  mayor va a cumplir 26 años y la más chiquita tiene  12. Nosotros llevamos 27 de matrimonio y  somos los mayores del grupo.


A.M. : ¿Habían esperado que con la elección de Obama a  la presidencia de Estados Unidos hubiera podido cambiar algo en la situación de los 5?

ADRIANA: Nosotros sabemos que cualquier  administración  tiene una posición muy bien definida hacia Cuba, pero la injusticia hacia los 5 es muy evidente, ellos ya han pasado muchos años  en prisión. Lo  que es cierto es que tenemos confianza en la presión que se puede ejercer desde el mundo hacia la administración de Obama, teniendo en cuenta que esta es una administración un poco más receptiva a los reclamos internacionales. Sin embargo  ya  ha transcurrido prácticamente un año y medio donde no hemos logrado ni siquiera un gesto de buena voluntad de otorgarnos la visa. Por supuesto confiamos más en las acciones que las personas puedan hacer para obligar a que Obama tome una decisión, Obama junto con todo  su staff administrativo,  porque realmente podría demostrarse de esta manera que la decisión que él tome no sea  una decisión  solamente por una intención personal , sino dada  por una solicitud, por un reclamo internacional de que está observando cual es la política y la posición  de ese gobierno ante la justicia. Precisamente por eso nosotros hacemos un pedido y un reclamo a todo el mundo, o sea   de intensificar la  campaña. Es  el momento de demostrarle a Estados Unidos que su actuar se está  observando por el  resto de la humanidad. También sabemos que Obama de una forma voluntaria y espontanea no lo va a hacer,  por eso hay que tratar de presionar y no  con accionares aisladas,   sino tratando que  cada día  le lleguen los mensajes, que le lleguen las informaciones, que le lleguen las solicitudes,  para lograr que se ponga fin a esta injusticia,  que no va a hacer porque la ley nos permita  ese beneficio sino por la presión internacional.


A.M. ¿Han buscado la forma de  pedir un encuentro con Obama?

OLGA:  ¡Ojalá nosotros pudiéramos  tener la oportunidad de entrevistarnos personalmente con él!  Hemos tratado de llegar a Obama  por diferentes vías, por  personalidades, por  gente solidaria en el  Parlamento que le lleven la  información… No podemos ver  a Obama porque él   no va ir a Cuba y nosotros no vamos a Estados Unidos. Los familiares que han podido ir a visitarlos a ellos, que le dan visa, es una visa  muy  restringida. Restringida en el lugar de acceso, es decir por donde deben entrar , restringida en la ciudad por donde deben estar, que coincide con la ciudad donde están los presos, le tienen prohibición total de acceso a cualquier tipo de meeting, de dar cualquier tipo de entrevista, de llegar a alguna personalidad en el momento en que tienen la visa en  territorio norteamericano. Es  decir  que se la dan única y  exclusivamente para trasladarse hacia la cárcel y  cumplir con la visita de ese mes y regresar, entonces si no  nos dejan ver a un periodista, mucho menos  ninguno  de nosotros va  poder tener acceso a la Presidencia. Por lo tanto, como decía Adriana, lo más importante son ahora  las personas solidarias que nos permitan de forma indirecta llegar a la administración  Obama porque evidentemente no son escuchadas las voces de ellos, ante la Corte, no son escuchadas las voces de ellos en los  reclamos,  no son escuchadas las voces de los familiares, ni siquiera del pueblo de Cuba y el gobierno de Cuba que abiertamente se ha manifestado a favor de la liberación de los 5.


A.M. : Una mirada femenina y revolucionaria a la vida de ustedes…

OLGA:  Nosotras, las madres, la parte femenina de la familia, vivimos la mayoría del tiempo esperando. Solamente quedan tres madres , las otras fallecieron y  la de Gerardo recientemente. Las  que viven están  con otros hijos que tienen, sufriendo día a día en espera de sus hijos que sean liberados. Respecto a las esposas, dos parejas no tienen hijos, Adriana y Gerardo y Rosa Aurora y Fernando. Ellas  viven solas en sus hogares esperando por ellos.

Económicamente somos todas independientes, somos profesionales, de distintas profesiones. La  parte económica no es lo importante, gozamos como todos los cubanos de la seguridad social, de la  tranquilidad ciudadana,  pero nos falta lo fundamental. Las otras dos parejas tenemos hijas, Ramón  tiene una hija mayor de otro matrimonio que vive  con su mamá y con Elizabeth su esposa,  tiene dos, una jovencita  y otra más adolescente , 17 y 13 años,  y yo tengo las dos niñas que te dije.

Es muy difícil, no te voy a negar que es muy difícil, el día a día,  porque no son dos meses ni dos años, son 12 años con la tristeza de no tener  nuestro a esposo en la casa. Somos   matrimonios que los ha unido el amor y toda pareja cuando se une hace planes para vivir juntos , para vivir la vida juntos, para tener hijos, para hacer planes futuros. Todo esto  se quedó paralizado un día,  pero tenemos que seguir , tenemos que sobreponernos a todo esto porque  hay que seguir viviendo para tener fuerzas  para luchar,  para que ellos regresen  antes de lo que tiene pronosticado el gobierno de Estados Unidos, que en el caso de Gerardo es  que nunca regrese.

Entonces se hace  bien difícil estar solos, regresar a la casa y cerrar la puerta. Esto  en  el caso por ejemplo de las  que no tienen ni siquiera la tormenta  que son  los hijos en casa,  pero esa tormenta te ayuda a tomar fuerzas ya no por ti sino por ellos mismos y  el tiempo un poco se te llena más. En  el caso de las que no tienen hijos bueno es difícil  estar sola un día más, otro día, otro día, las esperanzas se van acortando  a veces cuando vemos unos regresos de un punto  de vista jurídico y por eso es tan importante  la familia…  las personas se van poniendo mayores, vas perdiendo tus afectos también,  esa parte es muy difícil.

Nosotros siempre  en primero pensamos en ellos , si nosotros estamos solos, si nosotros estamos pasando mucho trabajo  desde el punto de vista afectivo,  que no pasarán ellos que han estado in celdas en solitario tantos meses, por tantas veces sin comunicación, tratando de impedir que reciban ni siquiera cartas, viendo que el proceso se complica y se termina, y que no hay una esperanza pronta de salir… Eso  nos  da fuerza porque tenemos que nosotros ser las voces de ellos, la forma de moverse,  de buscar solidarios, de buscar voces, somos nosotros , porque ellos no pueden.

Es decir que la lucha por la liberación de ellos se  devuelve el eje de nuestros días, todos los días hacemos algo por eso, pero cuando vamos a la casa después que trabajamos, que cocinamos,  que limpiamos la casa, que nos vamos a acostar…  en este momento nuestra mente se vuelve a ocupar del mismo tema, es decir que no se descansa, no se descansa nunca. También  nos acordamos de que ellos están ahí por defender la vida y que al pueblo cubano le ha tocado muy de cerca, o sea  que son muchas las familias que también se acuestan pero en este caso pensando en los seres queridos que ellos perdieron por acciones terroristas. Entonces  decimos bueno, ellos están allí por querer advertir a nuestro pueblo de la muerte y  nosotros tenemos que hacer de que  salgan para seguir protegiendo la vida.




Juan Manuel Santos, da falco a colomba

0 commenti

Di HERNANDO CALVO OSPINA *©Le Monde Diplomatique in spagnolo. Marzo 2011.

Sorprendentemente, da quando il 7 agosto del 2010, Juan Manuel Santos ha assunto la presidenza della Colombia, si è trasformato da falco in colomba. Il suo gesto più inaspettato è stato quello di trattare come suo “migliore amico” Hugo Chávez, presidente del Venezuela, quando lo ha incontrato tre giorni dopo il suo insediamento, ripristinando le relazioni diplomatiche con Caracas. Ha ristabilito anche con l’Ecuador i rapporti a tempo di record. D’altra parte, quest’uomo venuto dalla destra afferma adesso che la “prosperità sociale” è il principale obiettivo del suo mandato. Come spiegare cambiamenti tanto spettacolari?

Dal 7 agosto scorso del 2010 Juan Manuel Santos è il presidente della Colombia. Appartiene all’oligarchia tradizionale. La sua famiglia ha costruito il suo potere grazie al quotidiano di Bogotá El Tiempo, “utilizzando i mezzi di comunicazione a suo piacimento, sempre al servizio del potere” secondo Alirio Uribe Muñoz, avvocato difensore dei diritti umani. Laureato da sottoufficiale all’Accademia navale ed economista formatosi nelle università degli Stati Uniti e del Regno Unito, è arrivato ad occupare i ministeri del Commercio estero e dell’Economia. Nel 2004 lascia il partito Liberale e sostiene il governo di estrema destra del Presidente Álvaro Uribe. L’anno successivo è nominato capo della campagna per la rielezione di Uribe e del vice presidente, suo cugino Francisco Santos. Nel luglio del 2006 viene nominato ministro della Difesa, incarico che ricoprirà fino al maggio del 2009, quando decide di candidarsi alla presidenza della Colombia.

Essere presidente divenne per Santos un’ossessione fin dal momento in cui la Corte Costituzionale si oppose alla candidatura di Uribe per il terzo mandato. Oltre alle ansie di potere Santos doveva proteggersi contro eventuali denunce penali per crimini contro l’umanità commessi contro la popolazione civile dalle forze armate e di sicurezza al suo comando. Per ottenere il suo scopo, non si è fatto scrupoli – a detta dell’avvocato Alirio Uribe Muñoz – a utilizzare l’ influenza delle “truppe uribiste”, principalmente paramilitari, narcotrafficanti e i 130 parlamentari processati per diversi crimini.

L’avvocato ci fa questo quadro: “L’ex presidente Uribe rappresenta il mondo agrario e latifondista arricchitosi con l’esproprio delle terre, rudo e violento, amalgamato alle classi emergenti del narcotraffico e dei crimini del paramilitarismo. Invece Santos è l’uomo della città, colto e cosmopolita per eccellenza. Nonostante, con la sua famiglia abbia approfittato dello Stato per agevolare i suoi affari personali e per arricchirsi. Come esponenti dell’oligarchia non hanno avuto remore nel favorire e nell’ utilizzare i metodi violenti per mantenere i propri privilegi.”

Nel novembre del 2005 il ministero della Difesa approvò una direttiva segreta che dava un prezzo alla testa dei guerriglieri. I militari iniziarono ad assassinare dei civili, facendoli passare per “ribelli caduti in combattimento” che presero il nome di “falsi positivi”. La Procura Generale sta indagando circa tremila casi, tra i quali adolescenti, ritardati mentali, indigenti, tossicodipendenti…

Quando Santos giunse al ministero, nel luglio del 2006, si registrarono 274 casi di “falsi positivi”. L’anno seguente si raggiunse il culmine: 505 omicidi… Di fronte allo scandalo mediatico e ai rapporti dell’Alto Commissariato dell’ONU, la pratica si detenne: nel 2009 sette casi… 27 ufficiali furono ritirati, tra i quali tre generali, ma … senza attribuirgli la responsabilità degli omicidi. L’ONU affermò, nel luglio del 2009 che “l’impunità in relazione alle esecuzioni extragiudiziali arriva fino al 98,5%”.

I paramilitari sono stati gli incaricati della strategia della “terra bruciata” che cerca di svuotare le campagne dalla popolazione non favorevole al governo. Esistono più di 4 milioni di contadini sfollati, cioè più del 10% della popolazione. Circa 10 milioni di ettari di terra di elevato interesse economico sono stati così rubati alle vittime e offerti alle multinazionali, a nuovi latifondisti paramilitari, cacicchi politici e vertici militari.(1) Ora il presidente Juan Manuel Santos ha presentato la “Legge di Terre” come la panacea, con la quale si cerca di restituire le terre agli sfollati. Al compimento dei primi cento giorni del suo mandato ha dichiarato: “Ci siamo proposti un piano di azione per consegnare con titolo di proprietà, entro aprile, 378 mila ettari di terre e già siamo a tre quarti dell’obiettivo.” In realtà però si tratta di 10 milioni di ettari…

Nonostante se ne parli molto poco, si stima che 250 mila persone siano “scomparse” per mano delle forze di sicurezza e dei loro paramilitari. Soltanto negli ultimi quattro anni sono scomparse 40 mila persone.(2) Alcune di loro vennero sotterrate nella maggior fossa comune dell’America latina, scoperta dietro una caserma dell’Esercito a 200 chilometri a sud di Bogotá: più di 2000 cadaveri…(3)

I paramilitari adesso sono chiamati “bande criminali”, Bacrim. Cifre ufficiali segnalano che queste agiscono in 21 dei 32 dipartimenti colombiani, cioè nel 75% del territorio e che sono comandate per la maggior parte da assassini amnistiati dei loro crimini durante il mandato del presidente Uribe. “Durante le prime settimane del governo del presidente Santos, l’azione delle bande criminali si è intensificata (…) avanzano nel controllo territoriale e politico secondo lo stile migliore delle vecchie strutture paramilitari”.(4) Il nuovo governo insiste nel dire che i loro crimini sono collegati con il traffico di droga, ma “la realtà mostra che poi colpiscono gli attivisti sociali”.(5) Il partito dell’opposizione, il Polo Democratico Alternativo, ha denunciato il 9 novembre del 2010, che nei primi novanta giorni del mandato del nuovo presidente, circa cinquanta leader politici e sociali erano già stati assassinati… Di fronte a questa violenza di Stato, quattro Relatori Speciali dell’ONU hanno esaminato la situazione dei diritti umani. E nelle loro relazioni, il ministero della Difesa si trovava sempre nella prima linea della responsabilità…

Bisogna inoltre sottolineare la stretta relazione di Santos con le autorità di Israele e i suoi servizi di sicurezza. L’ex generale Israel Ziv fu portato in Colombia da Santos – il quale viaggiò in varie occasioni in questo paese del Vicino Oriente – per la cifra di dieci milioni di dollari per dare supporto ai servizi segreti colombiani. “Israel Ziv, ex comandante del reggimento di Gaza, è l’ufficiale di più alto grado tra quelli israeliani che svolgono compiti relazionati con l’addestramento di personale nel governo colombiano. I vincoli militari tra Israele e Colombia risalgono ai primi cinque anni del 1980, quando un contingente di soldati del Battaglione Colombia… alcuni dei peggiori violatori dei diritti umani nell’emisfero occidentale, ricevettero addestramento nel deserto del Sinai da alcuni tra i peggiori violatori dei diritti umani del Medio Oriente” secondo il ricercatore statunitense Jeremy Bigwood.(6)

Nell’ottobre del 1997, Manuel Santos aveva già dato dimostrazione della sua mancanza di scrupoli. Si riunì con i tre principali capi paramilitari per proporgli la partecipazione in un colpo di Stato contro il presidente liberale Ernesto Samper (proposta che fece anche alla guerriglia delle FARC e del ELN). Uno di loro, Salvatore Mancuso, lo ha confermato recentemente a magistrati statunitensi e colombiani da un carcere degli Stati Uniti (7) dove è stato estradato, nel maggio del 2008, insieme ad altri 14 narcotrafficanti, per traffico di droga, attività con la quale si finanzia il paramilitarismo.(8) Furono inviati lì anche se i loro crimini erano prima di ogni altra cosa crimini contro l’umanità. Si evitò così che i colombiani venissero a sapere di prima mano delle responsabilità dello Stato con il paramilitarismo.

Nel settembre del 2008, il giornalista venezuelano Josè Vicente Rangel, disse di Santos: “E’ l’uomo del Pentagono nella politica colombiana. Ha acquistato forza all’ombra di Uribe ed oggi possiamo dire che lo ha perfino superato.” (9)

Santos fu un seguace della linea dura dell’ ex presidente statunitense Gorge W. Bush sulla “guerra preventiva” con altre nazioni, con la scusa della legittima difesa. Questo lo portò a realizzare l’incursione militare contro l’Ecuador dove morì un cittadino ecuadoriano, per cui un giudice di quel paese decretò contro di lui un ordine di cattura internazionale per estradarlo. Decisione revocata il 30 agosto del 2010. Nell’aprile del 2010, da candidato alla presidenza, Santos disse che era “orgoglioso” di quell’ incursione. Il presidente dell’Ecuador, Rafael Correa replicò: Santos “non ha capito che in America latina non c’è più posto per aspiranti piccoli imperatori.” Hugo Chávez avvisò: qualsiasi aggressione contro Ecuador, Bolivia, Cuba o Nicaragua, “sarà un attacco contro il Venezuela”. Dal canto suo il presidente boliviano, Evo Morales, designò la Colombia come “servile e obbediente al governo degli Stati Uniti”.

Quello che provocò tensione nella regione fu l’accordo con Washington, firmato nell’ottobre del 2009, con il quale la Colombia autorizzava l’utilizzo di 7 basi militari. Ma dieci giorni dopo l’inizio del governo di Santos, la Corte Costituzionale lo ha dichiarato anticostituzionale. È stato un duro colpo per il presidente. Consuelo Ahumada, docente universitaria a Bogotá, basandosi sui documenti di WikiLeaks, ha scritto: “Risulta molto compromesso il ruolo dell’allora ministro della Difesa Juan Manuel Santos, che ha mantenuto sempre la posizione più dura, in sostegno di Uribe, rispetto a quella più conciliante e diplomatica del ministro degli Esteri. Santos e Uribe, appoggiati dagli USA, erano disposti a sconfinare di nuovo nei paesi vicini per combattere le FARC(…) Non erano infondati i timori dei governanti sudamericani sulla portata regionale dell’accordo con gli Stati Uniti.” (10)

Sorprendentemente, con la presidenza nelle mani, Santos si è trasformato da falco in colomba. Il suo gesto più inaspettato è stato quello di trattare come suo “migliore amico” il presidente Chávez e ripristinare a tempo di record le relazioni con Venezuela ed Ecuador. Secondo Sergio Rodriguez, docente venezuelano: “La rottura con Ecuador e Venezuela aveva significato per la Colombia la perdita di 7 miliardi di dollari nel 2009. E Santos fa parte di quell’ oligarchia reazionaria ma pragmatica, con potenti interessi corporativi da difendere”.

Parallelamente, Santos continua ad approfondire i legami con Washington. Il 30 gennaio scorso, il ministro della Difesa, Rodrigo Rivera, si è recato a Washington con l’obiettivo di “approfondire le relazioni in materia di difesa e di sicurezza con gli Stati Uniti”. E’ stato ricevuto dal suo omologo Robert Gates, così come dal capo del Comando Sud, dal sottosegretario degli Affari di Sicurezza delle Americhe e dal direttore aggiunto della CIA. Forze della controinsorgenza colombiana parteciperanno alla guerra in Afghanistan. Le spese sarebbero sostenute dagli Stati Uniti e dalla Spagna. I comandi militari alloggerebbero in battaglioni spagnoli e così, senza che la Colombia sia membro di questa coalizione, si troverebbero sotto la bandiera della NATO.

Lo stesso giorno che il ministro Rivera arrivava negli Stati Uniti, la Colombia entrava nel Consiglio di Sicurezza dell’ONU per due anni. La candidatura di Bogotà era stata spinta da Washington e Parigi. Per questo non fu casuale, che il 24 gennaio il presidente colombiano si sia recato in Francia invitato dal presidente Nicolas Sarkozy. Juan Manuel Santos ne approfittò per vendere le risorse naturali del suo paese e anche dell’America latina perché “possiede in questo momento ciò di cui il mondo ha bisogno”. Il petrolio, per esempio. Il suo giornale, El Tiempo, titolò per l’occasione: “Santos ha fatto questa settimana un nuovo passo per diventare il leader latinoamericano che vuole essere”.

*giornalista. Autore di El Equipo de Choque de la CIA, El Viejo Topo, Barcelona, 2010. © Le Monde Diplomatique in spagnolo Marzo 2011.

1) http://www.movimientodevictimas.org…

2) http://www.telesurtv.net/noticias/s…

3) http://www.publico.es/internacional…

4) Radio Nederland, Amsterdam, 26/08/2010

5) El País, Madrid, 30/01/2011.

6) José Steinsleger, “Israel en Colombia”, La Jornada, México, 12 de marzo de 2008.

7) El Espectador, Bogotá, 21/04/2010.

8 ) Hernando Calvo Ospina, Colombia, laboratorio de embrujos. Democracia y terrorismo de Estado. Akal, Madrid, 2008.

9) VTV. Caracas, 17 ottobre 2008

10) El Tiempo. Bogotá, 12/01/2011

Traduzione di Annalisa Melandri – www.annalisamelandri.it


Pagina 21 di 25« Prima...10...1920212223...Ultima »