A Vicenza prove tecniche di dittatura
Probabilmente la maggior parte degli italiani nemmeno se ne è resa conto, ma la decisione del Consiglio di Stato di annullare il referendum indetto dal Comune di Vicenza e dal suo sindaco Achille Variati contro il raddoppio della base americana, è stata una vera e propria prova tecnica di dittatura.
Contro la volontà della popolazione di esercitare uno dei più antichi esercizi di democrazia che la nostra Costituzione ci mette a disposizione, contro l’esercizio di quella che è in Italia l’unica forma di democrazia “dal basso” di cui disponiamo, la decisione improvvisa del Consiglio di Stato che quel referendum ha bollato come “inutile”, è stata un abuso di potere.
Inutile stare ad ascoltare la popolazione, inutile anche “incanalare su un binario democratico le tensioni frutto di scelte non condivise e neppure spiegate alla popolazione ” come ha detto nei giorni scorsi il sindaco di Vicenza.
Come potrebbero sfociare quindi queste tensioni adesso che il binario democratico è stato divelto?
Su che piano dovrebbero manifestarsi visto che di fatto la loro espressione sul piano della legalità e della democrazia è stata vietata?
Grande prova di civiltà ha dato Vicenza oggi ma soprattutto grande esempio e coraggio ha dato all’Italia intera il suo primo cittadino. Vicenza oggi ha scelto comunque la via della democrazia, ma domani? Domani che via rimane per far sì che sia rispettata la volontà della popolazione di Vicenza?
Domani arriverà l’esercito, come a Chiaiano.
Prove pratiche di dittatura…
Conosciamo Telejato
Agoravox esprime solidarietà ad Arnaldo Capezzuto e Kasmir
di Francesco Piccinini – Agoravox.it
Agoravox Italia è vicina ad Arnaldo Capezzuto, il giornalista napoletano de Il Napoli e Kasmir, un ragazzo immigrato che stava andando a fare la dialisi, aggrediti ieri a Pianura.
Capezzuto, che supervisiona per Agoravox Italia l’inchiesta Camorra e rifiuti che sarà online da ottobre, si trovava a Pianura per scrivere un articolo sul corteo di 300 immigrati che si è svolto ieri mattina.
Il giornalista è stato aggredito da contromanifestanti che lo hanno accerchiato, aggredito e fatto oggetto di lanci di pietre; il referto parla di contusioni al collo, al volto, alla schiena.
Arnaldo Capezzuto è da sempre un cronista in prima linea sul territorio campano (prima sul quotidiano Napolipiù e in seguito su Il Napoli), che già altre volte è stato oggetto di minacce da parte della camorra per le sue inchieste su Forcella e in particolare sulla morte di Annalisa Durante, e il cui lavoro è stato testimoniato dal documentario “Cronisti di strada” di Gianfranco Pannone e Paolo Santoni, che riprendeva il lavoro tutt’altro che facile di due giornalisti di quotidiani locali.
La redazione di Agoravox gli esprime la piena solidarietà, la stessa che va a tutti coloro che ogni giorno raccontano senza paura le storture della nostra società.
La manifestazione al Casilino a Roma contro la riforma Gelmini, in duemila in piazza
Non so quanti eravamo, ho poca dimestichezza con i numeri, so che eravamo in tanti, tante mamme, tantissimi bambini e tante maestre, perchè nonostante si continui a parlare di “maestro unico” , nella scuola elementare insegnano quasi esclusivamente maestre.
Una manifestazione allegra e colorata che ha paralizzato e coinvolto un’intero quartiere e quello che sta offrendo in questi giorni la Iqbal Masih un bellissimo esempio da seguire: una scuola che resiste.
Fonte Il Manifesto
«No a Gelmini» La Iqbal Masih scende in strada
Eleonora Martini
ROMA
Un corteo così gaio, festoso e pieno di vita non lo avevano ancora mai visto, nelle strade della periferia est di Roma. Attorno all’ormai famosa scuola elementare Iqbal Masih, capofila da due settimane della protesta contro il decreto 137, si sono riuniti ancora una volta una quarantina di istituti della capitale e insieme hanno portato la Scuola («quella con la S maiuscola, quella che la ministra Gelmini vuole distruggere», dicono) nel quartiere. Dopo una settimana di occupazione senza interruzione della didattica e una di presidio del plesso, durante le quali gli abitanti del quartiere Casilino sono entrati per la prima volta nella struttura e hanno preso contatto con il luogo dove cresce la generazione futura, ieri la visita è stata ricambiata.
Con centinaia di bambini provenienti da ogni parte della città che, dalla scuola intitolata ad un loro coetaneo pakistano ucciso per essersi ribellato allo sfruttamento, hanno attraversato alle cinque della sera chiassosi e felici, assieme a genitori e maestre, le vie dei quartieri limitrofi.
Doveva essere una fiaccolata, ma data l’ora si è trasformata in una «Fioccolata». Fiocchi rosa, rossi e azzurri al collo — «fastidioso, lo posso togliere», piagnucolano i più piccoli — per richiamare l’idea del grembiule, della divisa che metterebbe un po’ d’ordine in classe, secondo il pensiero restauratore. «Il futuro dei bambini non fa rima con Gelmini», hanno scritto sulle magliette che indossano grandi e piccini. Dietro lo striscione di apertura «Non rubateci il futuro», che è ormai diventato lo slogan di questa rivolta fai-da-te che non conosce colore politico, gli striscioni e i cartelli sono tanti e creativi: «Jurassic School? No grazie», «Siamo già tutti maestri unici» , «Gelmini vergogna, una donna stronca il futuro dei nostri figli». Appena partiti da via Ferraironi, appare anche una bandiera dei Comunisti italiani. Gentilmente ma fermamente viene fatta arrotolare e portare via. «Perché qui a manifestare non ci sono solo persone di sinistra, c’è tanta gente di ogni pensiero politico e ogni colore», dice soddisfatta del risultato Simonetta Salacone, infaticabile direttrice scolastica della Iqbal Masih. «La nostra scuola da oggi non è più sola», constata Riccardo Rozzera, portavoce del Comitato dei genitori.
E infatti c’è chi spiega di essere «venuta qui perché questa scuola è l’unico punto di aggregazione a Roma per chiunque voglia fare qualcosa contro questo decreto che non ci piace». «La protesta si sta estendendo in tutto il paese — aggiunge Salacone — la nostra non è ideologia ma la giusta rivolta contro una riforma che mostra un misto di ignoranza e insipienza, a meno che non sia malafede. La ministra Gelmini persegue il suo progetto di portare la sussidiarietà nell’istituzione scolastica — continua la direttrice, attorniata dai bambini — Il concetto è: dove il privato non arriva allora semmai entra in gioco lo stato. Ma non può essere così, passare dal diritto pubblico a quello privato significa rovesciare la Costituzione italiana. Si tratta esattamente di un’idea sovversiva». Ai genitori, quello che proprio non va giù di questa riforma è il passaggio dalle 40 ore di insegnamento settimanali alle 24. «Sul decreto c’è scritto questo e niente altro — spiega Salvatore Sasso, direttore del 138¢ª circolo didattico Basile di Torre Angela, estrema periferia est — e nella mia scuola, dove il 30% dei bambini sono figli di immigrati, la fine del tempo unico fa davvero molta paura.
E’ la morte della ‘scuola amica’, quella che è vicina alle famiglie soprattutto meno agiate». Il professor Sasso è anche psicologo e docente presso l’università di Chieti e boccia senza mezzi termini anche il voto in condotta: «Si torna ai tempi in cui il bambino problematico o era malato o era cattivo». I bambini in corteo, invece, festanti e felici sanno solo che non vogliono «perdere le maestre a cui vogliamo bene». Perché? «Io se mi faccio male e esce sangue vado dalla maestra Paola che non gli fa impressione, se invece trovo un verme in giardino lo porto dalla maestra Giovanna perché a lei non fanno schifo», dice Anna, una tenerissima bambina di quarta elementare. «Le aule oggi si sono aperte alla città — fa notare Paola, insegnante della Iqbal Masih — la scuola si è trasformata in punto di aggregazione, una scuola da vivere». Per questo il prossimo 20 ottobre un istituto della periferia romana rimarrà aperto tutta la notte, un tempo pieno senza limite d’orario. Il No Gelmini Day sarà una notte bianca, per riprendersi il futuro.
Con centinaia di bambini provenienti da ogni parte della città che, dalla scuola intitolata ad un loro coetaneo pakistano ucciso per essersi ribellato allo sfruttamento, hanno attraversato alle cinque della sera chiassosi e felici, assieme a genitori e maestre, le vie dei quartieri limitrofi.
Doveva essere una fiaccolata, ma data l’ora si è trasformata in una «Fioccolata». Fiocchi rosa, rossi e azzurri al collo — «fastidioso, lo posso togliere», piagnucolano i più piccoli — per richiamare l’idea del grembiule, della divisa che metterebbe un po’ d’ordine in classe, secondo il pensiero restauratore. «Il futuro dei bambini non fa rima con Gelmini», hanno scritto sulle magliette che indossano grandi e piccini. Dietro lo striscione di apertura «Non rubateci il futuro», che è ormai diventato lo slogan di questa rivolta fai-da-te che non conosce colore politico, gli striscioni e i cartelli sono tanti e creativi: «Jurassic School? No grazie», «Siamo già tutti maestri unici» , «Gelmini vergogna, una donna stronca il futuro dei nostri figli». Appena partiti da via Ferraironi, appare anche una bandiera dei Comunisti italiani. Gentilmente ma fermamente viene fatta arrotolare e portare via. «Perché qui a manifestare non ci sono solo persone di sinistra, c’è tanta gente di ogni pensiero politico e ogni colore», dice soddisfatta del risultato Simonetta Salacone, infaticabile direttrice scolastica della Iqbal Masih. «La nostra scuola da oggi non è più sola», constata Riccardo Rozzera, portavoce del Comitato dei genitori.
E infatti c’è chi spiega di essere «venuta qui perché questa scuola è l’unico punto di aggregazione a Roma per chiunque voglia fare qualcosa contro questo decreto che non ci piace». «La protesta si sta estendendo in tutto il paese — aggiunge Salacone — la nostra non è ideologia ma la giusta rivolta contro una riforma che mostra un misto di ignoranza e insipienza, a meno che non sia malafede. La ministra Gelmini persegue il suo progetto di portare la sussidiarietà nell’istituzione scolastica — continua la direttrice, attorniata dai bambini — Il concetto è: dove il privato non arriva allora semmai entra in gioco lo stato. Ma non può essere così, passare dal diritto pubblico a quello privato significa rovesciare la Costituzione italiana. Si tratta esattamente di un’idea sovversiva». Ai genitori, quello che proprio non va giù di questa riforma è il passaggio dalle 40 ore di insegnamento settimanali alle 24. «Sul decreto c’è scritto questo e niente altro — spiega Salvatore Sasso, direttore del 138¢ª circolo didattico Basile di Torre Angela, estrema periferia est — e nella mia scuola, dove il 30% dei bambini sono figli di immigrati, la fine del tempo unico fa davvero molta paura.
E’ la morte della ‘scuola amica’, quella che è vicina alle famiglie soprattutto meno agiate». Il professor Sasso è anche psicologo e docente presso l’università di Chieti e boccia senza mezzi termini anche il voto in condotta: «Si torna ai tempi in cui il bambino problematico o era malato o era cattivo». I bambini in corteo, invece, festanti e felici sanno solo che non vogliono «perdere le maestre a cui vogliamo bene». Perché? «Io se mi faccio male e esce sangue vado dalla maestra Paola che non gli fa impressione, se invece trovo un verme in giardino lo porto dalla maestra Giovanna perché a lei non fanno schifo», dice Anna, una tenerissima bambina di quarta elementare. «Le aule oggi si sono aperte alla città — fa notare Paola, insegnante della Iqbal Masih — la scuola si è trasformata in punto di aggregazione, una scuola da vivere». Per questo il prossimo 20 ottobre un istituto della periferia romana rimarrà aperto tutta la notte, un tempo pieno senza limite d’orario. Il No Gelmini Day sarà una notte bianca, per riprendersi il futuro.
Negro di merda? “Generica antipatia”
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Questo articolo di Alessandro Portelli è talmente semplice e chiaro nella sua lucida analisi di quello che sono il razzismo e il fascismo oggi che andrebbe secondo me letto in tutti i licei. “Io non sono razzista ma…”, “io non sono fascista ma…”: è questo limbo di vigliacchi razzisti e fascisti che si trovano a mezza strada tra gli antifascsisti e gli antirazzisti convinti e i fascisti e razzisti dichiarati, che stanno affossando la coscienza morale e civile della nostra società. Quei vigliacchi che hanno dato purtroppo ampia rappresentazione di sè nei commenti a questo post.
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Alessandro Portelli
Fonte: Il Manifesto
Hanno proprio ragione i magistrati e i politici milanesi secondo cui massacrare una persona chiamandolo «negro di merda» non è un atto di razzismo. Infatti hanno dalla loro la più autorevole giurisprudenza del nostro paese: un paio di anni or sono, la Corte di Cassazione sentenziò, infatti, che «l’espressione ’sporco negro’» — pronunciata da un italiano mentre aggredisce persone di colore alle quali provoca serie lesioni — non denota, di per sé, l’intento discriminatorio e razzista di chi la pronuncia perché potrebbe anche essere una manifestazione di ‘generica antipatia, insofferenza o rifiuto’ per chi appartiene a una razza diversa».
Immagino che la suddetta preclara giurisprudenza possa applicarsi anche a espressioni affini come «negro di merda». Quindi, «nessuna aggravante». In effetti, i due assassini di Milano hanno fatto sapere che avrebbero fatto lo stesso anche se il loro bersaglio fosse stato bianco e questo, secondo loro, dovrebbe rassicurarci (mi viene in mente la signora con bambina che allo stadio faceva «buuu» ai giocatori di colore e, alle mie rimostranze, rispose che lo faceva pure ai bianchi. Come se una schifezza ne scusasse un’altra). Ma loro almeno lo fanno per proteggersi — e comunque, per fortuna, manca la conferma empirica. Quelli che davvero non hanno vergogna sono quelli che nelle istituzioni e nei media gli tengono bordone. Io infatti ero convinto che «generica antipatia, insofferenza o rifiuto per chi appartiene a una razza diversa» fosse appunto una perfetta definizione del razzismo: un atteggiamento mentale e culturale, che può o meno produrre altri effetti criminosi ma è già un orrore in sé. Per aver definito «negro di merda» un giocatore avversario, il commissario tecnico della nazionale spagnola si beccò una meritata bufera di accuse di razzismo. Si vede che certe espressioni smettono di essere razziste quando alle parole si accompagnano le mazzate. La strategia discorsiva è la stessa seguita dal tribunale californiano nel caso Rodney King (quello che scatenò la rivolta di Los Angeles): suddividere un evento unitario in frammenti distinti in modo da separarne causa ed effetto e renderlo incomprensibile. In questo caso, le botte e le parole non fanno più parte di un medesimo processo, ma sono due cose separate e senza relazione fra loro: non danno le botte perché la vittima è comunque ai loro occhi uno «sporco negro», ma da una parte hanno verso di lui una «generica antipatia» e dall’altra lo ammazzano, però l’una cosa con l’altra non c’entra. Se vogliamo, su tragica piccola scala, questa è la logica che presiede la separazione fra le leggi razziali e il fascismo rivendicata dal sindaco di Roma e dai suoi seguaci: il regime cacciava i bambini dalle scuole e aiutava i nazisti a sterminarli, ma non perché era fascista e quindi razzista, ma per una mera aberrazione. Staccato dalle sue conseguenze materiali, insomma, il razzismo diventa una cosa nebulosa e astratta, che uno può negare e persino condannare, continuando a praticarlo. Questa mi pare anche la debolezza dell’« antifascismo» dichiarato da Fini: se davvero ci riconosciamo nei valori della Resistenza e della Costituzione, allora sarà il caso di metterli in pratica, e di smettere di discriminare e schedare i rom, cacciare gli immigrati, considerare aggravante la clandestinità, praticare politiche che colpiscono sistematicamente i più deboli e più marginali. Cioè: ricomponiamo parole e fatti, ricomponiamo i proclami di antirazzismo con pratiche antirazziste, egualitarie, civili — il contrario di quelle per le quali la commissione europea ha appena ribadito la condanna al nostro governo (contro quello che avevano proclamato Maroni e i tg). Invece facciamo esattamente il contrario: separiamo le parole dai fatti che ne conseguono, e ci serviamo di questa scissione per attenuare la gravità di un assassinio, o per prendersi patenti di democraticità senza bisogno di fare una politica democratica. La parola chiave del razzismo nostrano è «ma»: «io non sono razzista ma…». Io non sono razzista, ma quelli i biscotti li avevano presi. Io non sono razzista, ma i rom rubano. Il documento degli «scienziati» fascisti sulla razza, almeno, proclamava che era l’ora che gli italiani si proclamassero «francamente» razzisti. Adesso, noi italiani brava gente ci vergogniamo del nostro razzismo al punto da negarlo in faccia all’evidenza — e proprio questa negazione ci permette di continuare a praticarlo in forme sempre più violente.
Fonte: Il Manifesto
Hanno proprio ragione i magistrati e i politici milanesi secondo cui massacrare una persona chiamandolo «negro di merda» non è un atto di razzismo. Infatti hanno dalla loro la più autorevole giurisprudenza del nostro paese: un paio di anni or sono, la Corte di Cassazione sentenziò, infatti, che «l’espressione ’sporco negro’» — pronunciata da un italiano mentre aggredisce persone di colore alle quali provoca serie lesioni — non denota, di per sé, l’intento discriminatorio e razzista di chi la pronuncia perché potrebbe anche essere una manifestazione di ‘generica antipatia, insofferenza o rifiuto’ per chi appartiene a una razza diversa».
Immagino che la suddetta preclara giurisprudenza possa applicarsi anche a espressioni affini come «negro di merda». Quindi, «nessuna aggravante». In effetti, i due assassini di Milano hanno fatto sapere che avrebbero fatto lo stesso anche se il loro bersaglio fosse stato bianco e questo, secondo loro, dovrebbe rassicurarci (mi viene in mente la signora con bambina che allo stadio faceva «buuu» ai giocatori di colore e, alle mie rimostranze, rispose che lo faceva pure ai bianchi. Come se una schifezza ne scusasse un’altra). Ma loro almeno lo fanno per proteggersi — e comunque, per fortuna, manca la conferma empirica. Quelli che davvero non hanno vergogna sono quelli che nelle istituzioni e nei media gli tengono bordone. Io infatti ero convinto che «generica antipatia, insofferenza o rifiuto per chi appartiene a una razza diversa» fosse appunto una perfetta definizione del razzismo: un atteggiamento mentale e culturale, che può o meno produrre altri effetti criminosi ma è già un orrore in sé. Per aver definito «negro di merda» un giocatore avversario, il commissario tecnico della nazionale spagnola si beccò una meritata bufera di accuse di razzismo. Si vede che certe espressioni smettono di essere razziste quando alle parole si accompagnano le mazzate. La strategia discorsiva è la stessa seguita dal tribunale californiano nel caso Rodney King (quello che scatenò la rivolta di Los Angeles): suddividere un evento unitario in frammenti distinti in modo da separarne causa ed effetto e renderlo incomprensibile. In questo caso, le botte e le parole non fanno più parte di un medesimo processo, ma sono due cose separate e senza relazione fra loro: non danno le botte perché la vittima è comunque ai loro occhi uno «sporco negro», ma da una parte hanno verso di lui una «generica antipatia» e dall’altra lo ammazzano, però l’una cosa con l’altra non c’entra. Se vogliamo, su tragica piccola scala, questa è la logica che presiede la separazione fra le leggi razziali e il fascismo rivendicata dal sindaco di Roma e dai suoi seguaci: il regime cacciava i bambini dalle scuole e aiutava i nazisti a sterminarli, ma non perché era fascista e quindi razzista, ma per una mera aberrazione. Staccato dalle sue conseguenze materiali, insomma, il razzismo diventa una cosa nebulosa e astratta, che uno può negare e persino condannare, continuando a praticarlo. Questa mi pare anche la debolezza dell’« antifascismo» dichiarato da Fini: se davvero ci riconosciamo nei valori della Resistenza e della Costituzione, allora sarà il caso di metterli in pratica, e di smettere di discriminare e schedare i rom, cacciare gli immigrati, considerare aggravante la clandestinità, praticare politiche che colpiscono sistematicamente i più deboli e più marginali. Cioè: ricomponiamo parole e fatti, ricomponiamo i proclami di antirazzismo con pratiche antirazziste, egualitarie, civili — il contrario di quelle per le quali la commissione europea ha appena ribadito la condanna al nostro governo (contro quello che avevano proclamato Maroni e i tg). Invece facciamo esattamente il contrario: separiamo le parole dai fatti che ne conseguono, e ci serviamo di questa scissione per attenuare la gravità di un assassinio, o per prendersi patenti di democraticità senza bisogno di fare una politica democratica. La parola chiave del razzismo nostrano è «ma»: «io non sono razzista ma…». Io non sono razzista, ma quelli i biscotti li avevano presi. Io non sono razzista, ma i rom rubano. Il documento degli «scienziati» fascisti sulla razza, almeno, proclamava che era l’ora che gli italiani si proclamassero «francamente» razzisti. Adesso, noi italiani brava gente ci vergogniamo del nostro razzismo al punto da negarlo in faccia all’evidenza — e proprio questa negazione ci permette di continuare a praticarlo in forme sempre più violente.
Perchè NO AL MAESTRO UNICO
si prega di inviare il seguente testo, che ricevo e pubblico a:
On Valentina Aprea, pres VII Commissione Camera
href=“http://itf251mailyahoocom/ym/Compose?To=presapreaculturacamerait” target=“_blank” rel=“nofollow” ymailto=“presapreaculturacamerait“>presapreaculturacamerait
Fax: 06 6760 4806
href=“http://itf251mailyahoocom/ym/Compose?To=presapreaculturacamerait” target=“_blank” rel=“nofollow” ymailto=“presapreaculturacamerait“>presapreaculturacamerait
Fax: 06 6760 4806
sen. Guido Possa pres. VII Commissione senato:
href=“http://itf251mailyahoocom/ym/Compose?To=guidopossasenatoit” target=“_blank” rel=“nofollow” ymailto=“guidopossasenatoit“>guidopossasenatoit
fax 06 6706 5854
href=“http://itf251mailyahoocom/ym/Compose?To=guidopossasenatoit” target=“_blank” rel=“nofollow” ymailto=“guidopossasenatoit“>guidopossasenatoit
fax 06 6706 5854
NO al maestro unico
NO ai tagli alla scuola pubblica
Non sarebbe più possibile la suddivisione delle materie disciplinari tra diversi docenti: il maestro o la maestra unica dovrà insegnare tutte le materie per tutto il programma previsto nei 5 anni e dovrà aggiornarsi su tutto.
Non sarebbe più possibile impostare il lavoro dei docenti in classe sulla collaborazione e sul confronto, specialmente in riferimento ai bambini con difficoltà, alle scelte didattiche, agli stili di apprendimento. Ogni insegnante tornerà ad essere solo di fronte alla classe, alla didattica, alla psicologia dei bambini e delle bambine.
Non sarebbe più possibile una didattica di recupero e di arricchimento dell’offerta formativa perché sparirebbero le compresenze e quindi la possibilità di organizzare percorsi ad hoc per alunni in difficoltà o attività di arricchimento che prevedano lavori a gruppi.
Non sarebbero più possibili le uscite didattiche nel territorio, musei, aule didattiche decentrate, manifestazioni sportive… Per evidenti questioni di sicurezza il singolo insegnante non può uscire dalla scuola con la classe da solo. Fino ad oggi questa didattica aperta al territorio era possibile per la presenza di più insegnanti e delle compresenze.
Non sarebbe più possibile per i genitori rapportarsi ad un gruppo di insegnanti. Il riferimento diverrebbe unico, senza appello, senza possibilità di confrontarsi a più voci.
… e il Tempo Scuola?
Le ore settimanali di didattica previste dal Decreto Gelmini sono in totale 24: è evidente che la restaurazione del maestro unico annulla di fatto gli attuali Tempi Scuola con gravi ricadute sull’apprendimento – ci sono forse materie da “tagliare” perché inutili o che fruiscono di un numero eccessivo di ore di insegnamento? - e sull’organizzazione familiare. Il Tempo Modulo ad oggi prevede 30 ore a settimana e quindi con l’attuazione del Decreto subirebbe una contrazione di 6 ore mentre il Tempo Pieno, che prevede 40 ore settimanali, subirebbe una contrazione di ben 16 ore.
Rom torturati e picchiati come a Bolzaneto
Una Bolzaneto rom a Bussolengo [Vr]
di Gianluca Carmosino
[9 Settembre 2008]
Fonte: Carta
Si erano fermati fuori del paese, vicino Verona, solo per mangiare. Sono stati picchiati, sequestrati e torturati dai carabinieri per ore. La loro testimonianza
Venerdì 5 settembre 2008, ore 12. Tre famiglie parcheggiano le roulotte nel piazzale Vittorio Veneto, a Bussolengo [Verona]. Le famiglie sono formate da Angelo e Sonia Campos con i loro cinque figli [quattro minorenni], dal figlio maggiorenne della coppia con la moglie e altri due minori, infine dal cognato Christian Hudorovich con la sua compagna e i loro tre bambini. Tra le roulotte parcheggiate c’è già quella di Denis Rossetto, un loro amico. Sono tutti cittadini italiani di origine rom.
Quello che accade dopo lo racconta Cristian, che ha trentotto anni ed è nato a San Giovanni Valdarno [Arezzo]. Cristian vive a Busto Arsizio [Varese] ed è un predicatore evangelista tra le comunità rom e sinte della Lombardia. Abbiamo parlato al telefono con lui grazie all’aiuto di Sergio Suffer dell’associazione Nevo Gipen [Nuova vita] di Brescia, che aderisce alla rete nazionale «Federazione rom e sinti insieme».
«Stavamo preparando il pranzo, ed è arrivata una pattuglia di vigili urbani – racconta Cristian – per dirci di sgomberare entro un paio di ore. Abbiamo risposto che avremmo mangiato e che saremmo subito ripartiti. Dopo alcuni minuti arrivano due carabinieri. Ci dicono di sgomberare subito. Mio cognato chiede se quella era una minaccia. Poi cominciano a picchiarci, minorenni compresi».
«Stavamo preparando il pranzo, ed è arrivata una pattuglia di vigili urbani – racconta Cristian – per dirci di sgomberare entro un paio di ore. Abbiamo risposto che avremmo mangiato e che saremmo subito ripartiti. Dopo alcuni minuti arrivano due carabinieri. Ci dicono di sgomberare subito. Mio cognato chiede se quella era una minaccia. Poi cominciano a picchiarci, minorenni compresi».
La voce si incrina per l’emozione: «Hanno subito tentato di ammanettare Angelo – prosegue Cristian – Mia sorella, sconvolta, ha cominciato a chiedere aiuto urlando ‘non abbiamo fatto nulla’. Il carabiniere più basso ha cominciato allora a picchiare in testa mia sorella con pugni e calci fino a farla sanguinare. I bambini si sono messi a piangere. È intervenuto per difenderci anche Denis. ‘Stai zitta puttana’, ha urlato più volte uno dei carabinieri a mia figlia di nove anni. E mentre dicevano a me di farla stare zitta ‘altrimenti l’ammazziamo di botte’ mi hanno riempito di calci. A Marco, il figlio di nove anni di mia sorella, hanno spezzato tre denti… Subito dopo sono arrivate altre pattuglie: tra loro un uomo in borghese, alto circa un metro e settanta, calvo: lo chiamavano maresciallo. Sono riuscito a prendere il mio telefono, ricordo bene l’ora, le 14,05, e ho chiamato il 113 chiedendo disperato all’operatore di aiutarci perché alcuni carabinieri ci stavano picchiando. Con violenza mi hanno strappato il telefono e lo hanno spaccato. Angelo è riuscito a scappare. È stato fermato e arrestato, prima che riuscisse ad arrivare in questura. Io e la mia compagna, insieme a mia sorella, Angelo e due dei loro figli, di sedici e diciassette anni, siamo stati portati nella caserma di Bussolengo dei carabinieri».
«Appena siamo entrati,erano da poco passate le le due – dice Cristian – hanno chiuso le porte e le finestre. Ci hanno ammanettati e fatti sdraiare per terra. Oltre ai calci e i pugni, hanno cominciato a usare il manganello, anche sul volto… Mia sorella e i ragazzi perdevano molto sangue. Uno dei carabinieri ha urlato alla mia compagna: ‘Mettiti in ginocchio e pulisci quel sangue bastardo’. Ho implorato che si fermassero, dicevo che sono un predicatore evangelista, mi hanno colpito con il manganello incrinandomi una costola e hanno urlato alla mia compagna ‘Devi dire, io sono una puttana’, cosa che lei, piangendo, ha fatto più volte».
«Appena siamo entrati,erano da poco passate le le due – dice Cristian – hanno chiuso le porte e le finestre. Ci hanno ammanettati e fatti sdraiare per terra. Oltre ai calci e i pugni, hanno cominciato a usare il manganello, anche sul volto… Mia sorella e i ragazzi perdevano molto sangue. Uno dei carabinieri ha urlato alla mia compagna: ‘Mettiti in ginocchio e pulisci quel sangue bastardo’. Ho implorato che si fermassero, dicevo che sono un predicatore evangelista, mi hanno colpito con il manganello incrinandomi una costola e hanno urlato alla mia compagna ‘Devi dire, io sono una puttana’, cosa che lei, piangendo, ha fatto più volte».
Continua il racconto Giorgio, che ha diciassette anni ed è uno dei figli di Angelo: «Un carabiniere ha immobilizzato me e mio fratello Michele, sedici anni. Hanno portato una bacinella grande, con cinque-sei litri di acqua. Ogni dieci minuti, per almeno un’ora, ci hanno immerso completamente la testa nel secchio per quindici secondi. Uno dei carabiniere in borghese ha filmato la scena con il telefonino. Poi un altro si è denudato e ha detto ‘fammi un bocchino’».
Alle 19 circa, dopo cinque ore, finisce l’incubo e tutti vengono rilasciati, tranne Angelo e Sonia Campos e Denis Rossetto, accusati di resistenza a pubblico ufficiale. Giorgio e Michele, prima di essere rilasciati, sono trasferiti alla caserma di Peschiera del Grada per rilasciare le impronte. Cristian con la compagna e i ragazzi vanno a farsi medicare all’ospedale di Desenzano [Brescia].
Alle 19 circa, dopo cinque ore, finisce l’incubo e tutti vengono rilasciati, tranne Angelo e Sonia Campos e Denis Rossetto, accusati di resistenza a pubblico ufficiale. Giorgio e Michele, prima di essere rilasciati, sono trasferiti alla caserma di Peschiera del Grada per rilasciare le impronte. Cristian con la compagna e i ragazzi vanno a farsi medicare all’ospedale di Desenzano [Brescia].
Sabato mattina la prima udienza per direttissima contro i tre «accusati», che avevano evidenti difficoltà a camminare per le violenze. «Con molti familiari e amici siamo andati al tribunale di Verona – dice ancora Cristian – L’avvocato ci ha detto che potrebbero restare nel carcere di Verona per tre anni». Nel fine settimana la notizia appare su alcuni siti, in particolare Sucardrom.blogspot.com. La stampa nazionale e locale non scrive nulla, salvo l’Arena di Verona. La Camera del lavoro di Brescia e quella di Verona, hanno messo a disposizione alcuni avvocati per sostenere il lavoro di Nevo Gipen.
Leggi anche: denunce e foto. Rotto il silenzio su Bussolengo.
Vedi le foto
Le strane percezioni di Bruno Vespa
Bruno Vespa a Cortina d’Ampezzo a fine luglio, dal palco del Cortina Incontra dove si trovava per intervistare Renato Brunetta, Ministro per la Pubblica Amministrazione e l’Innovazione, (meglio conosciuto “come ministro castigastatali”), riesce a vedere tra gli 800 presenti all’iniziativa, non solo alcuni fortunati “esponenti della laboriosa e media impresa del Nord” che si possono permettere vacanze a Cortina (e più in generale che si possono permettere vacanze) ma anche “persone medie, statali d’ogni grado e insegnanti”… Tutti lì ad acclamare addirittura con una “standing ovation” il ministro.
Povere persone medie, poveri statali, quanto gli sarà costato di stipendio trascorrere qualche giorno a Cortina? E come ha fatto Vespa a riconoscerli tra il pubblico? Forse erano vestiti male o forse le donne non avevano nasi e tette rifatte? E chissà poi perchè cita gli insegnanti?
Forse perchè li considera più intelligenti e colti dei loro duemila colleghi statali,
che il giorno seguente a Roma dal Campidoglio, scrive, ha visto sfilare fischiando proprio il ministro in una fiaccolata diretti verso il Colosseo?
Non ha dubbi Vespa, quelle duemila persone che hanno sfilato contro il “decreto ammazzastatali” di Brunetta il 28 luglio scorso, erano tutti Fannulloni (con la F maiuscola).
E sicuramente più poveri e sfigati dei loro colleghi che erano in vacanza a Cortina. Vuoi mettere una fiaccolata con il caldo del 29 luglio a Roma e il PalaLexus a Cortina magari anche con l’aria condizionata a palla?
Il ponte dell’11 settembre — un saggio di Antonio Mazzeo
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Pubblico qui di seguito un saggio dello scrittore e giornalista Antonio Mazzeo sui presunti finanziatori arabi del Ponte sullo Stretto si Messina, e i loro collegamenti con i traffici d’armi internazionali e l’attentato alle Torri Gemelle di New York ‘ l’11 settembre 2001.
IL PONTE DELL’11 SETTEMBRE
di Antonio Mazzeo
Non ci sarebbe stata solo la mafia italoamericana a volere investire milioni di euro per la realizzazione del Ponte sullo Stretto di Messina. Stando alle indagini della Procura di Roma, una parte dei soldi potrebbe essere stata promessa da misteriosi finanziatori arabi. Giuseppe Zappia, l’ingegnere accusato di associazione mafiosa per i lavori del Ponte, ha rivelato l’identità di uno di essi. Si tratterebbe di uno dei congiunti della casa reale dell’Arabia Saudita. Spuntano così pericolosi trafficanti d’armi e agenti segreti, faccendieri e terroristi internazionali. E il sogno del Ponte s’incrocia con le indagati per gli attentati alle Torre Gemelli di New York, l’11 settembre del 2001…
Dal Canada allo Stretto di Messina via Arabia Saudita[1]
Non ci sarebbe stato solo il boss italo-canadese Vito Rizzuto, fedele alleato del clan dei Cuntrera-Caruana, ad aver dato l’assalto al Ponte sullo Stretto di Messina. Tra le carte dell’inchiesta denominata “Brooklin” coordinata dalla Direzione distrettuale antimafia di Roma, che ha individuato l’operazione di Cosa Nostra per riciclare cinque miliardi di euro nella realizzazione del Ponte, c’è pure una pista parallela che porta direttamente in Arabia Saudita.
L’ingegnere Giuseppe “Joseph” Zappia, sotto processo con l’accusa di aver fatto da prestanome delle cosche italocanadesi e che aveva partecipato alla gara di pre-qualifica per la progettazione definitiva e la realizzazione del Ponte, si è difeso dando un volto differente ai suoi presunti finanziatori. “Non avevo né ho bisogno del finanziamento della mafia italo-canadese per costruire il ponte sullo Stretto di Messina”, ha dichiarato l’anziano professionista all’Ansa nel febbraio 2005. “Avevo altri canali perfettamente leciti che nulla hanno a che fare con la presunta organizzazione. E si tratta di finanziamenti che vengono da canali bancari italiani di istituti di primaria grandezza, ma anche di finanziamenti di aristocratici arabi”.[2]
Il Ponte con i dollari del petrolio dunque, anche se per i magistrati romani, la plausibile figura di un finanziatore arabo non esclude la “contestuale presenza di interessi mafiosi”. Le indagini hanno evidenziato infatti la spola tra Canada e Arabia Saudita di alcuni faccendieri vicini a Giuseppe Zappia e al boss Vito Rizzuto, i quali avrebbero intrecciato inquietanti relazioni con sovrani mediorientali e i manager di alcune delle maggiori società di costruzione in corsa per il Ponte sullo Stretto.
Sulla provenienza mediorientale dei soldi destinati al Ponte, il professionista originario di Oppido Mamertina ha rilasciato un’intervista fiume al quotidiano on-line L’Opinione diretto da Paolo Pillitteri, cognato del leader socialista Bettino Craxi e padre del legale presso cui ha sede la Zappia International (società partecipante alla prima fase della gara per il general contractor)[3]: “Ho conosciuto a Roma nel 2003 il signor Sivalingam Sivabavanandan, cittadino cingalese; gli ho espresso interesse nel partecipare al progetto per il Ponte di Messina, ed ho richiesto potenziali investimenti da parte del Regno dell’Arabia Saudita”. Giuseppe Zappia ha aggiunto di essere entrato in relazione a fine 2004 con una società di Ryadh, la Tatweer International Investment Company, operante nei settori dell’edilizia, dell’industria, delle telecomunicazioni, dei servizi medici e delle nuove tecnologie, e di avere incaricato l’avvocato Carlo Dalla Vedova a recarsi in Arabia Saudita per formalizzare l’accordo. “Il legale tornava a Riyadh all’inizio 2005, e con una delegazione perfezionava la proposta”, ha dichiarato l’ingegnere. “Gli arabi si impegnavano a finanziare integralmente il progetto, con piena garanzia del governo italiano per la restituzione entro 30 anni dell’investimento con un appropriato interesse”.
Giuseppe Zappia ha consegnato ai magistrati copia dell’affidavit sottoscritto con la società araba. “Il progetto che abbiamo preparato con la Tatweer International è basato su un programma “BOT”, ossia “Build own Transfer””, ha dichiarato Zappia a L’Opinione. Dietro la criptica formula lo schema classico di project financing con cui viene messa a gara la concessione di costruzione (build) e gestione (operate, own) di un’opera, con diritto di utilizzo commerciale limitato a un periodo di tempo determinato, e con obbligo finale di trasferire (transfer) al soggetto pubblico concedente il possesso delle opere o di rinnovare la concessione di gestione. “Naturalmente, le condizioni perché il “BOT” possa essere applicato riguardano soprattutto la capacità dell’infrastruttura di produrre redditi tali da poter remunerare l’investimento, quindi è necessario che l’opera pubblica produca servizi vendibili e un reddito”, ha chiarito il professionista. Il gruppo arabo-canadese ha un modello da imitare, quello già utilizzato per il tunnel della Manica. “In quell’occasione – è ancora Zappia a ricordarlo — dopo una lunghissima gestazione dell’assemblaggio del pacchetto finanziario, a fronte di quattro miliardi di sterline di crediti, venne raccolto un miliardo di sterline di capitale di rischio”.[4] Stranamente l’ingegnere sembra ignorare il flop finanziario generato dall’Eurotunnel: dopo essere costato ai privati quattordici miliardi di euro e, indirettamente, ai poteri pubblici altri venti miliardi, a fine 2003 aveva accumulato nove miliardi di debiti. Al punto che la direzione generale ha dovuto minacciare il fallimento della società nel caso in cui venissero a mancare ulteriori finanziamenti pubblici a copertura del deficit.[5]
Il gruppo Zappia si sarebbe dichiarato disponibile a mettere i capitali necessari per fare il Ponte, “senza alcun costo diretto od indiretto per il contribuente italiano”. Quasi un regalo ai siciliani per vincere il loro atavico isolamento dall’Europa che conta. “Ma inizio a credere che insistano in Italia poteri anti-italiani, che remano contro gli interessi del paese e, purtroppo, sono più forti di coloro che lavorano per costruire l’Italia migliore, quella del benessere e del lavoro”,[6] è stato però l’amaro commento dell’ingegnere Zappia dopo l’arresto per associazione mafiosa accanto al boss don Vito Rizzuto.
Il Principe Bin d’Arabia
Il nome del magnanimo saudita pronto a investire sì tanto denaro attraverso la Tatweer International Company è rimasto nell’ombra per un po’ di tempo, sino a quando non è stato rivelato da Giuseppe Zappia a Il Giornale di casa Fininvest, il 2 febbraio 2006. Si sarebbe trattato, niente poco di meno che, del principe Bin Nawaf Bin Abdulaziz Al Saud, uno dei nipoti di re Fahd d’Arabia. Un colpo da teatro alla vigilia del processo che lo vede imputato accanto ad uno dei più spietati mafiosi d’oltreoceano? No, Zappia non avrebbe bleffato. Anche i reali sauditi avrebbero perso la testa per l’affare del secolo.
Come il principe Bin Nawaf Bin Abdulaziz, un altro sovrano di un petrostato si era dichiarato nel 1998 disponibilissimo a finanziare la realizzazione del Ponte. “Ma lo sa che ci hanno già contattato delegazioni americane e giapponesi, per non parlare del sultano del Brunei, che sarebbe interessato a entrare nell’affare?”, dichiarava ad un periodico l’ingegnere Fortunato Covelli, funzionario della società Stretto di Messina.[7] Uno degli uomini più ricchi della terra, capo del governo, ministro della difesa, delle finanze, comandante supremo delle forze armate, guida dell’Islam, capo della polizia e dei servizi segreti del minuscolo paese incastonato nell’isola del Borneo, il sultano Haji Hassanal Bolkiah è noto per essere stato uno dei cofinanziatori della Contra in Nicaragua e per i suoi stravaganti e costosissimi acquisti in mezzo mondo. Recentemente ha offerto più di 800 milioni di euro per realizzare all’Acqua Vergine di Roma, zona Prenestrina, un parco divertimenti di 150 ettari interamente dedicato alla città sumera di Agarta. Al progetto sarebbero pure interessati l’ex segretario generale dell’Onu Perez de Cuellar, l’ex ministro democristiano Vincenzo Scotti, l’ex ragioniere generale dello Stato Andrea Monorchio, e il presidente dell’Unione industriali del Lazio, Giancarlo Elia Valori.[8] Nel 1996, Haji Hassanal Bolkiah aveva pure tentato di acquistare la principesca villa Certosa che il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi possiede in Sardegna. L’operazione vedeva pure protagonisti, accanto al sultano, i principi sauditi Mohamed Faruok e Mahdi (congiunti di Abdoullah Sultan, fratellastro di re Fahd), ma sfumò perché gli acquirenti s’infastidirono per l’eccessiva attenzione dei mass media alla trattativa. Berlusconi aveva acquistato Villa Certosa a fine anni ’80 per poco più di tre miliardi di lire dal faccendiere Flavio Carboni.
Per riscuotere dall’emiro
Stando alle risultanze dell’inchiesta dei magistrati romani sulla “Mafia del Ponte”, il denaro necessario per concorrere all’esecuzione dei lavori nello Stretto sarebbe dovuto arrivare anche dalla riscossione di una ingente somma di denaro in Medio oriente da parte dell’ingegnere Giuseppe Zappia e di alcuni associati di don Vito Rizzuto. Il professionista aspirava ad entrare in possesso di un miliardo e settecento milioni di dollari corrispondenti al valore di alcuni lavori realizzati ad Abu Dhabi dalla ZMEC — Zappia Middle East Company Ltd., società costituita nel protettorato britannico (e paradiso fiscale) delle Isole Vergini. Nel piccolo emirato arabo, tra il 1979 e il 1982, mister Zappia aveva progettato un acquedotto di oltre quattrocento chilometri ed ottenuto ben otto contratti di costruzioni civili. Sorsero però dei contrasti con gli enti committenti e la vicenda finì davanti ad un tribunale civile degli Stati Uniti d’America.
Secondo quanto dichiarato dallo stesso Zappia, ottenute le commesse e avviati i lavori ad Abu Dhabi, intorno alla metà del 1982, la ZMEC si vide prima ritardare il pagamento di una tranche, poi subire il blocco dei restanti pagamenti, nonostante la società avesse eseguito lavori “al di là di quelli specificati in contratto”. Per rimanere solvibile, Zappia fu costretto a farsi prestare del denaro dalla Emirates Commercial Bank con condizioni particolarmente sfavorevoli.
Il 10 gennaio 1983 l’ingegnere sottoscrisse un accordo con l’istituto bancario che prevedeva la sostituzione della ZMEC con un’altra società di costruzioni, la Bovis International Limited. “Ho dovuto sottoscrivere quest’accordo perchè mi minacciarono di mettermi in prigione”, ha dichiarato Giuseppe Zappia. “Mi costrinsero a consegnare il passaporto al Ministero degli Interni di Abu Dhabi. Riuscii ad ottenerlo indietro solo alcuni mesi più tardi”. Una decina di giorni dopo la firma dell’accordo, la Emirates Commercial Bank ottenne da Sheikh Kalifa bin Zayed Al Nahyan (emiro e presidente del consiglio esecutivo di Abu Dhabi), l’autorizzazione a prorogare i tempi dei lavori a favore della società che aveva sostituto la Zappia Company.
Nel luglio 1985 l’istituto ed altre due banche dell’emirato furono ricapitalizzate e si fusero nell’Abu Dhabi Commercial Bank. La Bovis International concluse i progetti pendenti e vendette le attrezzature che, a dire di Giuseppe Zappia, erano nella titolarità della ZMEC. Dopo aver chiesto inutilmente alle autorità dell’emirato un congruo rimborso per i beni di cui si sarebbero “ingiustamente impossessati”, nel 1994 l’ingegnere citò di fronte alla giustizia americana l’Abu Dhabi Commercial Bank e l’Abu Dhabi Investment Authority, ente d’investimento interamente in mano all’emiro Sheikh Kalifa bin Zayed Al Nahyan.[9] I documenti prodotti dai legali di Zappia non dimostrarono tuttavia il controllo diretto dell’emiro o della famiglia reale sulla banca commerciale di Abu Dhabi, ed il giudice distrettuale rigettò il ricorso. Nel giugno del 2000 arrivò per l’italo-canadese una sentenza d’appello altrettanto sfavorevole. “Non ci sono elementi per dimostrare un sufficiente livello di cointeressenza tra la banca privata ed il sovrano, né che questi abbia abusato della propria autorità sulla società”, dichiarò la Corte d’Appello.[10]
A questo punto, per ottenere il risarcimento, Giuseppe Zappia contattò il generale in capo dell’esercito USA ad Abu Dhabi ed alcune delle maggiori autorità arabe, tra cui il sovrano del Marocco, il presidente siriano, il re di Giordania e il leader palestinese Yasser Arafat. Gli scarsi successi ottenuti con l’opera d’intermediazione degli illustri conoscenti, costrinsero Zappia ad affidare la questione al franco-algerino Hakim Hammoudi, personaggio che per conto del boss Vito Rizzuto stava seguendo alcuni affari della “famiglia” in vari paesi europei e mediorientali.
Hammoudi si lanciò con energia nel tentativo di riscossione del credito, convinto di poterne ricavare una soddisfacente provvigione. Per accreditarsi ad Abu Dhabi, Hammoudi si raccomandò ad un misterioso “principe” dell’Arabia Saudita, forse lo stesso che si sarebbe offerto a finanziare una parte del progetto di realizzazione del Ponte sullo Stretto.
“Domani, lo incontrerò il principe, sono due che vengono, il principe che è più forte e le Cher”, comunicò telefonicamente il mediatore franco-algerino al boss mafioso Rizzato, il 29 ottobre 2002. “In Arabia Saudita in ordine di importanza, di ruolo, di gerarchia viene prima il principe e poi le Cher. Sì, va tutto molto bene lì, e anche riguardo al Ponte, il principe ha intenzione di investire, tutti metteranno qualcosa, dei soldi”.[11] Replicò Vito Rizzuto: “Sì, ma a noi interessa principalmente tutto ciò ruota intorno a Zappia, a Giuseppe!”. Hammoudi: “Lui è il primo, ciò è ufficiale, Zappia sta al primo posto, si lavora con lui, molto a stretto contatto. Stasera lo sentirò. Siamo già d’accordo e dopo aver affrontato e sistemato i tre punti principali, è fondamentale che il principe intervenga. Ci sarà una conferenza, si parlerà anche con Sullavan, finalmente si potrà fare tutto ciò di cui lui ha bisogno. C’è pure un dispositivo, un meccanismo per parlare con Siyad. Ci sarà qualcuno domani che verrà a raccogliere tutti i documenti necessari per Sivabavanandan, per l’Arabia Saudita”.
Nove mesi più tardi, la riscossione del credito vantato da Zappia ad Abu Dhabi sembrava essere in dirittura d’arrivo. In un colloquio con il suo stretto collaboratore Filippo Ranieri, l’ingegnere italocanadese veniva a sapere che la sera precedente il faccendiere cingalese e Vito Rizzuto si erano incontrati a Montreal. “Sivabavandan ha potuto raccontare a Vito che tutto è al suo posto e gli ha detto che sta aspettando dei documenti da parte tua. E gli ha detto che i primi 100 milioni sono Ok”, affermò Ranieri. “Ma Sivabavandan gli ha detto che il Principe sta cercando di produrre degli interessi su questa somma. Sta aspettando solo la chiamata e adesso è fatto. E l’altro gli ha detto che è perfetto, ma non deve prendere ulteriore tempo di quello stabilito”. Giuseppe Zappia era tuttavia perplesso: “Ha ragione, ha ragione… Adesso se ci danno 100 milioni di dollari e poi prendono tutto il loro tempo per pagare questi 100 milioni, con tutte le spese che abbiamo affrontato, non ci rimarrà molto. Un terzo se ne va per il Principe e con il resto bisognerà fare il giro del gruppo”.
Sì, erano proprio pochi cento milioni di dollari. Ma c’era la speranza, comune, di strappare presto una cifra maggiore. Il 19 luglio 2003, Zappia colloquiò telefonicamente direttamente con Vito Rizzuto ed Hakim Hammoudi. “Penso che stiamo arrivando alla fine adesso, o no?!”, domandò Rizzuto. “Comunque loro, da come la vedo io, vogliono dare qualche cosa ma non è abbastanza. Vediamo se possiamo prendere di più”.
Tra corsari e governatori
Intanto anche a Messina alcuni chiacchierati imprenditori in odor di mafia e politici più o meno in declino puntavano a sedere al grande banchetto all’ombra dei lavori per la costruzione del Ponte. Ad alcuni di essi ci ha pensato la Procura di Reggio Calabria a mettere i bastoni tra le ruote, con un’articolata indagine sulle loro presunte scorribande finanziarie in mezzo mondo. Gioco d’azzardo il nome in codice dell’operazione che nella primavera del 2005 ha fatto scattare decine di avvisi di garanzia, mettendo a nudo i cattivi affari di una classe politica ed economica che, partita dallo Stretto di Messina, è giunta ad acquisire la gestione e il controllo di attività commerciali a livello internazionale (innanzitutto hotel e casinò) e numerosi appalti pubblici e privati.[12]
Uno dei principali indagati di Gioco d’azzardo opera da tempo immemorabile nell’isola di Sint Maarten (Antille olandesi). Nato a Santa Teresa Riva (Messina), nutre anch’egli il sogno di vedere realizzata nelle acque dello Stretto, l’“Ottava Meraviglia del Mondo”. Rosario Spadaro, don “Saro” per gli amici, ha diretto buona parte delle attività turistico-alberghiere e il gioco d’azzardo di Sint Maarten. Spadaro è stato pure attivissimo in altre isole dei Caraibi. Si è pure introdotto in Venezuela per programmare insediamenti turistici ed operare nel mercato dei prodotti petroliferi. Una frenetica attività a 360 gradi che lo ha condotto a mietere successi finanziari in lungo ed in largo, ma con un cruccio o meglio, un “desiderio insoddisfatto”, come dirà ad un giornalista della Gazzetta del Sud che lo raggiunge nelle Antille. Quello di non riuscire a portare a termine la realizzazione di un complesso immobiliare su uno dei terreni che possiede nella fascia ionica del messinese. “Ho comprato per la mia vecchiaia una grande fattoria in Canada, un posto dove non userò il telefono tranne che per fatti urgentissimi, ma in definitiva preferirei poter invecchiare nei luoghi dove sono nato”, ha spiegato il finanziere. “Quasi venti anni addietro ho programmato ad Alì Terme la costruzione di un insediamento turistico con porticciolo e impianti sportivi. Un’isola nell’isola. Sono passati vent’anni e niente si è mosso. Recentemente ho fatto vedere a mio figlio il progetto e l’ho portato con me a parlare dal sindaco. L’ho fatto per impegnarlo, perché sono convinto che io non riuscirò a realizzare questo mio sogno. Badi bene, non è una speculazione ma un sogno e voglio che almeno quando sarò morto mio figlio continui a tentare. Sono convinto che Alì potrà avere un grande futuro turistico nel momento in cui, tra l’altro, verrà costruito il Ponte sullo Stretto, un’opera che avrà una grande ricaduta turistica su tutta l’isola”.[13]
Eravamo nel luglio del 1991 e la costruzione dell’infrastruttura tra le sponde di Calabria e Sicilia sembrava proprio una chimera. Lo scoppio di Tangentopoli con l’effimera ondata di arresti che colpì la cupola dei Signori delle Grandi Opere raffreddò ulteriormente l’ardore dei pontisti. Bisognava attendere i governi di centrosinistra Prodi-D’Alema-Amato perché l’idea-sogno prendesse forma e sostanza. Su richiesta del CIPE, il 19 febbraio 1999, il presidente del Consiglio Massimo D’Alema firmava una delibera con cui si procedeva alla nomina di due advisor internazionali (le associazioni di imprese Steinman International — Gruppo Parsons Transportation Group; e PricewaterhouseCoopers Consulting, Preicewaters Coopers UK, Sintra Srl, Net Engineering Spa e Certet-Bocconi) per la valutazione degli aspetti finanziari e ingegneristici dell’opera. Il costo dei due approfondimenti pesò sui conti pubblici per circa sette miliardi di vecchie lire, ma ne valse la pena, perché alla fine gli advisor certificarono la “fattibilità” del Ponte.
Ripartirono stime e progetti e il nuovo corso pro-Ponte conquistò l’attenzione dei mass media di regime e di certa imprenditoria assetata di commesse. Ovviamente ripresero con slancio e determinazione anche i piani di sviluppo turistico di Saro Spadaro & soci. L’8 dicembre 1999 l’imprenditore rientrò in Italia in compagnia dell’avvocato catanese, Giovanni Cavallaro. Obiettivo del viaggio quello di fissare una strategia finanziaria per realizzare, finalmente, un complesso termale nei terreni di Alì Terme. Fu costituita una piccola società, l’Alì 2000 Srl, strettamente collegata alla Resort of the World N.V., la cassaforte finanziaria del signore delle Antille. Per l’investimento venne fissato un impegno finanziario di ottanta miliardi di lire, sfruttando l’opportunità offerta dalla legge 488/92 sui cosiddetti “Patti territoriali”, nel cui ambito è possibile ottenere, per l’attuazione di iniziative dirette allo sviluppo economico di determinate aree del Paese, un finanziamento pubblico a fondo perduto pari a circa il 65% delle spese sostenute. A certificare “solidità” e “solvibilità” della società di Saro Spadaro, condizioni indispensabili perché il progetto termale fosse inserito nella graduatoria regionale, la Bank of Nova Scotia di Toronto.[14]
Nel settembre 2001 il programma fu ammesso a ricevere il contributo pubblico di sedici miliardi di vecchie lire, il terzo maggiore importo stanziato in ambito regionale. Archiviato con successo il capitolo terme, l’imprenditore si lanciava nell’affare porticcioli turistici, puntando alla realizzazione di due infrastrutture, la prima ad Alì Terme e la seconda a Sant’Alessio Siculo, comune quest’ultimo, dove sono in attesa di approvazione nuovi insediamenti immobiliari di Rosario Spadaro.
Campione dell’11 settembre
Gli altri due principali indagati dell’inchiesta Gioco d’azzardo sono i politici-imprenditori Salvatore Siracusano (assessore comunale Dc ai servizi anagrafici del Comune di Messina dal 1977 al 1985) e l’on. Santino Pagano, altro uomo di punta della balena bianca peloritana, parlamentare della Democrazia Cristiana, del Ccd e dell’Udeur, già sottosegretario al Tesoro nell’ultimo governo di Giuliano Amato.
In una prima fase delle indagini, era stato attenzionato pure l’architetto Alfio Balsamo, che avrebbe messo la propria competenza professionale a disposizione dei due costruttori Siracusano e Pagano (il professionista di origine catanese è stato tuttavia prosciolto dal Gip di Reggio Calabria nell’ottobre 2007). Già assessore ai lavori pubblici del comune di Campione d’Italia ed interessato alla gestione del locale casinò, titolare della Inarc Proget con sede in Lugano, Alfio Balsamo è un potente esponente politico del Nuovo Partito Socialista, legato a Gianni De Michelis e Nanni Ricevuto, quest’ultimo per breve tempo sottosegretario alle Infrastrutture del governo Berlusconi, con delega alla realizzazione del Ponte, ed odierno presidente della Provincia regionale di Messina.
A Campione d’Italia avrebbe operato contestualmente Youssef Mustafa Nada, un banchiere di origine araba ma residente nel Canton Ticino, titolare con Albert “Ahmed” Huber (cittadino svizzero convertitosi all’Islam, conosciuto per i suoi vincoli con la Germania nazista) della società finanziaria Al Taqwa (Timore a Dio), ribattezzata il 5 marzo del 2001 “Nada Management”.[15]
L’uomo d’affari è noto alle polizie di mezzo mondo che indagano sui presunti finanziatori della rete occulta del terrorismo di matrice fondamentalista islamica, a seguito degli attentati alle Torri Gemelle di New York, l’11 settembre 2001. Appena sei giorni dopo l’attacco mortale di Al Qaeda, il quotidiano di Zurigo Blick aveva riportato le dichiarazioni del capo dei servizi d’informazione svizzeri, in merito ad un possibile legame dell’impresa finanziaria Al Taqwa con Osama bin Laden. Sempre secondo il quotidiano elvetico, uno dei membri del consiglio d’amministrazione della Al Taqwa di Lugano (filiale della finanziaria Taqwa con sede a Panama), avrebbe ammesso di avere incontrato durante una conferenza religiosa a Beirut persone vicine al leader islamico. Il 21 settembre 2001 era The Wall Street Journal ad asserire che la società Al Taqwa era sotto indagine per presunti legami con la Fratellanza musulmana, un gruppo fondamentalista fortemente radicato in Algeria, Egitto, Giordania, Libano e Yemen, sospettato di essere entrato nell’orbita di Al Qaeda.[16]
Youssef Moustafa Nada, il 7 novembre 2001, veniva fermato dalla polizia di Lugano, condotto per un interrogatorio al Palazzo di giustizia e infine rilasciato. Contemporaneamente a Campione d’Italia, su rogatoria dell’autorità elvetica, veniva perquisita la villa di sua proprietà. Nonostante non venissero riscontrati elementi sufficienti a formalizzarne l’imputazione per reati connessi al terrorismo internazionale, il nome del finanziere veniva inserito nell’elenco predisposto dalle Nazioni Unite relativo alle organizzazioni ed alle persone sospettate di terrorismo per cui si chiedeva l’applicazione di speciali sanzioni come il divieto di viaggiare e il blocco dei beni. Nella speciale lista nera finiva pure il direttore di Al Taqwa, Ahmed Idris Nasredin. Si apprendeva infine che i servizi segreti di Washington avevano ipotizzato sin dalla primavera del 2001 che alcune società di Nada potevano essere state coinvolte nella raccolta di fondi in Kuwait e negli Emirati Arabi Uniti da destinare alla rete di Osama bin Laden e di Hamas, l’organizzazione politico-religiosa e militare attiva a Gaza e in Cisgiordania. L’elenco era lungo: Al Taqwa Prade, Property and Industry Company Ltd, poi Waldenberg AG (sede a Vaduz, Liechtenstein e Campione d’Italia); Bank Al-Taqwa Ltd.; Nada Management Organization (alias Al Taqwa Management Organization SA); Youssef M. Nada & Co. Gesellscaft M.B.H.. Le società finivano tutte nella “Terrorist Exclusion List”, pubblicata nel febbraio 2003 dal governo statunitense per impedire agli “individui appartenenti alle organizzazioni designate e ai loro fiancheggiatori” di entrare nel territorio americano ed espellerli nel caso in cui vi avessero già messo piede.[17]
Ma cosa sapevano del finanziere Nada i siciliani in missione a Campione d’Italia? In mano alla Direzione Investigativa Antimafia c’è la trascrizione di una conversazione intercettata il 26 settembre 2001, durante la quale Salvatore Siracusano ed Alfio Balsamo commentavano un articolo apparso qualche giorno prima sul Corriere della Sera, relativo alle indagini in Svizzera sui presunti legami tra Al Taqwa e l’organizzazione facente capo a bin Laden. Nel corso della telefonata Siracusano rivelava di conoscere l’intenzione di Nada di “aprire una banca a Nassau dieci anni prima”, la nazionalità “siriana” della moglie di costui e la “presenza nella sua villa di sofisticati sistemi di sicurezza”. Il 7 novembre successivo, Siracusano, in compagnia di Santino Pagano, comunicava a Balsamo di aver visto in televisione il servizio relativo all’arresto di Nada. “Noi, i bigliettini di visita li abbiamo strappati tutti”, aggiungeva il costruttore messinese, invitando Balsamo a fare la stessa cosa.
Il 13 novembre 2001 lo stesso Siracusano riceveva una chiamata da tale “Rino” che gli riferiva che il faccendiere egiziano, secondo il Pentagono, avrebbe finanziato direttamente l’operazione culminata con l’attacco alle Torri Gemelle. Sempre secondo il misterioso “Rino”, Nada avrebbe fatto a tempo a “cancellare e far sparire tutto” dato che “gli inquirenti avevano effettuato la perquisizione domiciliare dopo tre o quattro mesi dall’inizio delle indagini avviate nei suoi confronti”. Affermava infine che al finanziere sarebbe stata sequestrata “un’ingente documentazione per lo più scritta in arabo”. La sera stessa Siracusano raggiungeva telefonicamente Balsamo a Campione d’Italia, per parlare sempre di Nada. “Ma lo sai che gli è stata trovata, tra le carte, una fitta corrispondenza con un noto esponente politico della Prima Repubblica?”, domandava Balsamo. I due proseguivano ironizzando su chi potesse essere tale personaggio, rimandando i particolari a un successivo incontro.[18] Quattro giorni più tardi un nuovo articolo del Corriere della Sera rivelava ulteriori particolari sulla Bank Al Taqwa di Nassau: la presenza tra i suoi soci, accanto a Nada, di due investitori dai nomi sospetti, Huda Mohammed Binladen e Iman Binladen, anche se non era chiaro “se i due Binladen abbiano un rapporto di parentela con Osama”.[19]
Chiamato in causa da alcuni organi di stampa, Salvatore Siracusano dava mandato al suo legale, l’avvocato Gualtiero Cannavò (esponente massonico del Grande Oriente d’Italia, con un passato giovanile nel neofascismo), di chiarire il tenore delle relazioni tenute con il presunto finanziatore di Al Qaeda. “Il mio assistito, anni orsono, ha acquistato nel Comune di Campione d’Italia un terreno per la costruzione di edifici ad uso civile, confinante con altro di proprietà della società “Al Taqwa Trade, Property and Industry Co. Limited” con sede nel Liechtenstein, amministrata da tale Youssef Nada”, spiegava Cannavò. “Conseguentemente, il Siracusano ha raggiunto l’accordo per la lottizzazione con tutti i proprietari delle particelle interessate e, quindi, anche con l’amministratore della società Al Taqwa. I proprietari dei terreni dunque, diedero incarico all’architetto Alfio Balsamo per la realizzazione della lottizzazione n. 27, a fronte di un compenso convenuto di 40.000 franchi svizzeri, che avrebbero dovuto essere versati in parti uguali dalle due società maggiormente interessate, la Al Taqwa, e la Silcam Srl di Messina, riconducibile al mio assistito. Quest’ultima società ha correttamente provveduto a pagare gli accordi al professionista incaricato della lottizzazione, mentre la società Al Taqwa si è defilata rifiutando di adempiere ai propri obblighi. La Silcam, quindi, è stata costretta ad intraprendere un giudizio civile contro la società di Youssef Nada celebratosi innanzi al tribunale di Messina”.[20]
Un mero rapporto causale dunque, finito per giunta con un contenzioso contro la maggiore delle società del gruppo Nada entrata a far parte della “Terrorist Exclusion List” stilata dall’amministrazione Bush. In verità, come dichiarato dai giudici di Milano, “il mero inserimento di una persona nelle cosiddette black list di sospetti finanziatori del terrorismo internazionale, stilate dall’ONU e dal Consiglio d’Europa dopo l’11 settembre, non può costituire elemento di prova penalmente rilevante”, dato che l’inserimento “avviene all’interno di una procedura che muove principalmente da opzioni e proposte politiche”. Così, nel luglio 2007, il Tribunale ha archiviato il procedimento penale aperto nei confronti di Youssef Nada.[21]
Il finanziere di Campione d’Italia non è stato tuttavia l’unico partner economico arabo degli “amici del Ponte” ad essere sospettato di rapporti finanziari con la complessa rete del terrorismo islamico. Il socio saudita di Silvio Berlusconi in Mediaset, lo sceicco Al-Waleed Bin Talal (altro nipote diretto di re Fahd),[22] è risultato azionista della banca statunitense Citigroup, la più grande del mondo, anch’essa inclusa nella speciale lista nera delle entità che avrebbero tenuto rapporti di vario genere con Al Qaeda. Casualità vuole che nel novembre del 2007, una quota pari al 4,9% di Citigroup è stata acquisita dall’Abu Dhabi Investment Authority, l’autorità statale dell’emirato arabo da cui l’ingegnere Giuseppe Zappia sperava di recuperare un credito da reinvestire nell’operazione Ponte sullo Stretto.
Altrettanto compromettenti sono i legami con le organizzazioni dell’estremismo religioso di Sheikh Kalifa Bin Zayed Al Nahyan, l’emiro regnante di Abu Dhabi. Affascinato dal misticismo islamico e fanatico del destino divino della propria famiglia, negli anni ’60 Sheikh Kalifa Bin Zayed visitò il Beluchistan pakistano sotto la protezione di un anziano funzionario dei servizi segreti di quel paese, tale “Awan”, che lo mise in contatto con molti mistici locali. Fu proprio grazie a questi contatti in Pakistan che l’emiro di Abu Dhabi incontrò l’uomo d’affari Agha Hassan Abedi, divenendone grande amico e collaboratore sul piano economico-finanziario.[23] Abedi fu il fondatore della BCCI, la Bank of Credit and Commerce International, più nota come Criminal Bank, per diversi anni il più importante centro di “lavaggio” del denaro proveniente dal narcotraffico, utilizzata dalla CIA per la conduzione di operazioni clandestine a favore dell’ex alleato Saddam Hussein, del dittatore pakistano Mohammed Zia, della Contra nicaraguese e della resistenza islamica all’occupazione sovietica dell’Afghanistan.[24] Fu proprio grazie all’amicizia con il potente emiro Zayed Al Nahyan, che la BCCI ebbe la possibilità di aprire tre filiali negli Emirati Arabi Uniti, una delle quali proprio ad Abu Dhabi.
Grandi mercanti sauditi
Il pakistano Agha Hasan Abedi è, a sua volta, uno dei più importanti soci del miliardario saudita Adnan Khashoggi, noto trafficante d’armi e, nei primi anni ‘80, intermediario per conto dell’amministrazione USA del trasferimento di strumenti di guerra a favore del governo “nemico” di Khomeiny. Il rapporto del Senato sull’affaire BCCI, lo definisce letteralmente come “uno dei contatti chiave per l’intelligence degli Stati Uniti in Medio Oriente”. Oliver North, il tenente colonnello dei marines che coordinava le forniture d’armi clandestine, si avvalse nel 1986 di Khashoggi per far giungere componenti missilistiche alle forze armate iraniane. Determinante fu il ruolo del saudita nelle vendite di armi all’Argentina, orchestrate negli anni della dittatura militare dal cosiddetto “Comitato di Montecarlo”, vera e propria filiale internazionale della loggia P2 di Licio Gelli. Ma Adnan Khashoggi è pure ritenuto dall’Interpol come uno dei principali terminali internazionali delle organizzazioni che gestiscono i traffici di droga, l’investimento delle tangenti e delle estorsioni, lo spionaggio. Nella sua inchiesta su armi e droga, il giudice Carlo Palermo aveva ricostruito i legami affaristici tra il miliardario saudita, il faccendiere piduista Francesco Pazienza, il finanziere socialista Ferdinando Mach di Palmstein e l’imprenditore palermitano Maurizio Mazzotta, poi implicato nella vicenda Calvi-Banco Ambrosiano.[25]
Dati i suoi strettissimi legami con l’entourage della famiglia reale saudita, gli affari migliori di Khashoggi sono consistiti nel trasferimento di tecnologie militari occidentali agli Stati arabi del Golfo. Notoriamente vicini al faccendiere sono il cognato di re Faisal d’Arabia, Kamal Adham, ex direttore della BCCI ed uomo di vertice dei servizi segreti sauditi, e Gaith Pharaon, consigliere del sovrano e fondatore con Assan Abedi della Criminal Bank. Anche Gaith Pharaon è un personaggio particolarmente noto in Italia: a fine anni ‘80, dopo essere stato implicato in un presunto trasferimento di componenti nucleari alla Libia, acquisì una consistente quota del pacchetto azionario dell’allora Montedison diretta dal socialista Mario Schimberni.[26] Quest’ultimo aveva accumulato fondi neri per un valore di mille miliardi di lire presso società con sede a Curacao, Antille olandesi.[27]
Importante partner economico-finanziario del regime dell’Arabia Saudita, perlomeno sino agli attentati terroristici dell’11 settembre 2001, era il Saudi Binladin Group (SBG), il colosso finanziario della famiglia bin Laden. Prima impresa privata dell’Arabia Saudita per fatturato (nel 1991 si stimava che il suo giro di affari fosse di trentasei miliardi di dollari), la holding ha operato nei settori delle costruzioni, della distribuzione, delle telecomunicazioni e dell’editoria.[28] Grazie all’amicizia personale con il re Abdulaziz Al Saud, fondatore del regno saudita, fu accumulato un immenso patrimonio finanziario da Mohammad bin Laden, il patriarca della famiglia morto negli Stati Uniti in uno strano incidente aereo. Amico personale di re Fahd (recentemente scomparso) era pure il primogenito Salem bin Laden, succeduto nella conduzione della holding, anch’egli vittima nel 1988 di un incidente aereo in Texas, dove si era recato per trattare affari con George Bush padre.
Amministrato da Bakr bin Laden, fratello del più noto Osama, il Saudi Binladin Group è stato per lungo tempo il principale e unico cliente della famiglia regnante dell’Arabia Saudita per la costruzione e l’amministrazione dei luoghi santi del mondo islamico. Il legame economico conferma l’adesione della controversa famiglia bin Laden al “wahhabismo”, il movimento rigorista sunnita diffusosi in Medio oriente nel XVIII secolo e rilanciato dai regnanti sauditi nel Novecento. A partire dagli anni ’70, l’Arabia Saudita ha investito somme notevoli per l’esportazione del pensiero wahhabita, dando vita a una pluralità di movimenti islamisti radicali, spesso legati al fenomeno del terrorismo, nell’area afghano-pakistana, in Caucaso ed Asia centrale e nel Sud-est asiatico.[29] Si spiegano così i notevoli investimenti dei bin Laden nella Al-Shamal Islamic Bank utilizzata dal principe Mohamed Al-Faisal Al-Saud per finanziare i movimenti wahhabiti internazionali. I bin Laden sono pure azionisti di un altro istituto bancario filoradicale, la Dubai Islamic Bank di Mohamed Khalfan ben Kharbarsh, ministro delle finanze saudita.[30]
Nonostante la forte connotazione pro-islamica, il Saudi Binladin Group si è affermato nei maggiori mercati azionari mondiali, conseguendo partecipazioni in imprese statunitensi, canadesi ed europee, come ad esempio General Electric, Motorola, Nortel Networks, Iridium, Unilever, Quaker e Cadbury Schewwpes. La holding dei Bin Laden ha ottenuto il controllo della Forship Ltd, una delle maggiori società mondiali per i trasporti a nolo, operativa in Gran Bretagna, Francia, Egitto e Canada.[31] Ad SBG sono pure stati assegnati appalti miliardari per la realizzazione delle basi militari statunitensi in Arabia Saudita e la ricostruzione del Kuwait, dopo la prima Guerra del Golfo.[32]
Rilevanti infine i vincoli con alcuni dei maggiori gruppi finanziari transnazionali: il Saudi Binladin Group ha operato congiuntamente con Goldman & Sachs, Citigroup, Deutsche Bank ed ABN Amro.
Goldman & Sachs ha acquisito recentemente il 2,84% della società Impregilo di Sesto San Giovanni, capofila dell’associazione d’imprese general contractor per la realizzazione del Ponte sullo Stretto. ABN Amro, dopo essersi offerta di finanziare la realizzazione del Ponte, nel gennaio 2008 ha deciso di entrare direttamente nel capitale d’Impregilo accettando la richiesta di IGLI (la finanziaria di controllo formata dai gruppi Benetton, Gavio e Ligresti) di rastrellare sul mercato il 3% delle azioni Impregilo. Entro un anno IGLI si riserverà l’opzione di acquisire questo pacchetto; in caso contrario ABN Amro deciderà se restare nella società oppure trasferire a terzi le azioni.[33] La banca olandese è pure azionista di maggioranza, con il 7,68%, del gruppo bancario italiano Capitalia (oggi in Unicredit) che detiene, a sua volta, poco meno del 2% del pacchetto azionario della holding delle costruzioni.[34]
Kabul-Messina la rotta dei capi dei servizi segreti
Ci sono poi altre vicende in cui gli interessi dei congiunti dell’uomo più ricercato del pianeta s’incrociano con le spericolate operazioni dei sovrani sauditi. Yeslam bin Laden, altro fratello di Osama, compare alla guida della Saudi Investment Company (SICO), società finanziaria creata nel maggio 1980 a Zurigo con lo scopo di amministrare una parte dei profitti del SBG. Grazie alla SICO i bin Laden hanno eseguito i lavori di ristrutturazione delle moschee della Mecca e Medina, e costruito aeroporti, autostrade, centrali elettriche e palazzi in Arabia Saudita, Cipro, Giordania e l’immancabile Canada.[35] Una sezione periferica della SICO ha sede a Curacao, isola delle Antille olandesi dove il finanziere Saro Spadaro si è occupato della gestione di alcuni hotel con annessi casinò.
La Saudi Investment Company è pure una delle società sospettate di essere stata utilizzata dalla CIA per finanziare la resistenza afghana, quando l’ancora giovane Osama bin Laden era il fedele alleato di Washington nella lotta contro gli occupanti sovietici. Da comandante dei mujahidin in Afghanistan, bin Laden aveva ottenuto ingenti finanziamenti da re Fahd e dai servizi segreti pakistani. Il suo diretto referente nella famiglia reale era al tempo il principe Turki bin Faisal al-Saud (uno dei figli di re Faisal nonché nipote dello stesso re Fahd), per oltre vent’anni a capo dei servizi segreti sauditi, da cui venne misteriosamente esautorato il 31 agosto 2001, undici giorni prima cioè dell’offensiva terroristica contro gli Stati Uniti d’America.[36] Sarebbe stato proprio il suo antico e solido legame di amicizia con Osama bin Laden la causa dell’improvvisa uscita di scena di Turki bin Faisal, su pressione USA. Eppure il principe si era costruito una solida reputazione di professionalità ed efficienza nella conduzione dell’intelligence saudita. Considerato uno dei più brillanti strateghi politico-militari della famiglia regnante, dal 1977 era stato il principale anello di congiunzione tra i servizi segreti arabi filo-occidentali e gli omologhi di Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna. Fu così che Turki bin Faisal divenne “l’uomo di contatto” per le operazioni saudite (e statunitensi) in Afghanistan e nell’Asia Centrale dopo l’invasione sovietica del 1979. Nel corso degli anni ‘80, il capo dei servizi segreti incontrò più volte Osama bin Laden per convincerlo a sostenere la lotta contro l’occupazione sovietica. Nel 1993 il principe Turki fece persino da mediatore tra le differenti fazioni in guerra in Afghanistan.[37] La sua innegabile simpatia, tuttavia, andava verso il gruppo islamico radicale dei Talibani, al punto che il nome del capo dell’intelligence saudita fu associato sempre di più ad Al Qaeda.
Stando a Turki bin Faisal, le sue relazioni con Osama bin Laden si sarebbero interrotte nel momento in cui quest’ultimo fu dichiarato “nemico pubblico” di Riyadh e gli fu cancellata la cittadinanza saudita. Sembrerebbe invece che il principe Turki visitasse regolarmente il quartier generale di Kandahar dove vivevano Mullah Mohammed Omar e Osama bin Laden almeno fino al 1996, anno in cui i Talibani conquistarono Kabul. Secondo il periodico francese Paris Match, i servizi segreti sauditi sarebbero però rimasti in contatto con i leader di Al Qaeda sino alla vigilia dell’11 settembre. All’ingresso delle truppe statunitensi in Afghanistan nel 2001, presso l’ambasciata saudita a Kabul funzionava ancora un servizio di logistica destinato ai combattenti di Al Qaeda. A occuparsene, la fondazione al-Haramain, promossa dal ministero della religione saudita e finanziata da ambienti wahhabiti e dalla famiglia reale.[38] Per tutto questo i familiari delle vittime dell’attentato alle Torri Gemelle hanno promosso una causa civile contro Turki bin Faisal ed il principe Sultan bin Abdul Aziz al-Saud, ministro della difesa saudita, richiedendo un risarcimento multimilionario per aver “finanziato direttamente, con banche e associazioni caritative, i terroristi coinvolti negli attacchi”.[39] Sembra incredibile, ma con tutti i suoi discutibili trascorsi, nel 2005 l’ex capo dei servizi è stato nominato ambasciatore dell’Arabia Saudita a Washington.
Ancora più incredibile invece la storia dell’uomo chiamato a sostituire Turki bin Feisal ai vertici dell’intelligence saudita, undici giorni prima, ripetiamo, dell’attacco aereo ai grattacieli di New York. Si tratta del principe Nawaf bin Abdul Aziz Al Saud, zio del suo predecessore, figlio di re Abd al-Aziz e fratello del principe Abdullah oggi sovrano d’Arabia.[40] Fresco di nomina, Nawaf bin Abdul Aziz in compagnia di Abdullah, partecipava il 19 settembre 2001 ad un summit a Riyadh con i vertici dei servizi segreti pakistani rientrati da una missione in Afghanistan presumibilmente finalizzata a “neutralizzare” Osama bin Laden e “disfarsi” del regime dei Talibani. Nulla di compromettente, anzi per certi versi in linea con l’inversione delle alleanze dopo gli attentati negli Stati Uniti. Il summit seguiva però una misteriosa visita lampo che il principe Abdullah aveva effettuato in Pakistan il 22 agosto 2001. Secondo l’accreditato periodico Asia Times, il saudita, in compagnia degli uomini a capo dei servizi segreti pakistani, si sarebbe incontrato proprio con il leader Mullah Omar per “tentare di convincerlo che gli Stati Uniti erano prossimi a sferrare un attacco in Afghanistan”; era pertanto opportuno che bin Laden raggiungesse l’Arabia Saudita “dove sarebbe stato tenuto in custodia senza possibilità di essere consegnato a paesi terzi”. Sempre secondo Asia Times, Abdullah, definito un “segreto supporter di bin Laden”, si sarebbe mosso proprio con l’obiettivo di salvare il leader di Al Qaeda. La proposta sarebbe stata tuttavia rifiutata da Mullah Omar.[41]
L’epilogo è contraddittorio. Dopo aver sostituito di gran corsa il pluridecennale capo dei servizi segreti con un congiunto senza alcuna esperienza d’intelligence, l’Arabia Saudita è divenuta una fedele partner degli Stati Uniti nella lotta a bin Laden e nella caccia agli estremisti islamici. Un ruolo pagato caro, dato che il Paese si è trasformato in uno dei bersagli privilegiati del terrorismo di marca islamica. Nel solo biennio 2003–2004 l’Arabia Saudita è stata vittima di ventidue attentati nei quali sono stati uccisi 90 civili e 39 poliziotti.[42] L’incapacità di prevenire quest’ondata di sangue è stata duramente stigmatizzata dagli stessi alleati USA, che alla vigilia del vertice internazionale sul Terrorismo di Riyadh (2005) hanno chiesto un forte impegno per il rilancio dei servizi segreti, le cui capacità erano andate “deteriorandosi” con la sostituzione di Turki bin Faisal.[43] Una decina di giorni prima del vertice, il principe Nawaf bin Abdul Aziz rassegnava le proprie dimissioni per assumere l’incarico di membro del Comitato Supremo del Centro per le scienze e la tecnologia “King Abdulaziz”.
D’obbligo spiegare come mai ci si sia soffermati a lungo su personaggi e vicende che nulla sembrerebbero compartire con i Padrini del Ponte. Ricordate i misteriosi “amici” arabi che dovevano intervenire a soccorso di mister Zappia per contribuire al finanziamento dell’opera di collegamento nello Stretto di Messina? Interrogato dai magistrati romani, l’ingegnere italo-canadese aveva fatto il nome di un principe saudita, “Bin Nawaf bin Abdulaziz Al Saud, uno dei nipoti di re Fahd d’Arabia”. Se non fosse per un bin di troppo e una leggera difformità nella trascrizione del nome, si potrebbe giurare che si tratti dello stesso “Nawaf bin Abdul Aziz Al Saud”, assunto a capo dei servizi segreti sauditi alla vigilia dell’11 settembre. O eventualmente di uno dei suoi più stretti congiunti. Esiste poi un’altra “coincidenza”: un altro strettissimo familiare del “principe”, Mohammed bin Nawaf bin Abdul Aziz Al Saud, ha ricoperto dal 1995 al 2005 l’incarico di ambasciatore dell’Arabia Saudita in Italia e Malta. Successivamente il diplomatico è stato destinato a rappresentare il regime arabo in Gran Bretagna ed Irlanda, sostituendo proprio l’ex capo dei servizi segreti Turki ben Al Feisal.
Eletto presidente del consiglio di amministrazione del Centro Culturale Islamico di Roma, nel settembre 1997 Mohammed bin Nawaf aveva coordinato la visita ufficiale in Italia dell’allora vice primo ministro e capo del dicastero della difesa e dell’aviazione saudita, principe Sultan bin Abdul Aziz Al Saud. Premier Romano Prodi, l’Arabia Saudita si affermò in quell’anno come il principale destinatario dell’export di armi “made in Italy”.[44] Con un’ulteriore inquietante “coincidenza”: il figlio del principe Sultan, Bandar, ha ricoperto dal 1983 il ruolo di ambasciatore saudita negli Stati Uniti, ma già due anni prima, da addetto militare a Washington, aveva svolto una determinate azione di lobby sul Congresso perché approvasse multimilionari trasferimenti di armi pesanti USA all’Arabia Saudita. “Più tardi, da ambasciatore, Bandar si sdebitò trasferendo dall’Arabia Saudita 10 milioni di dollari in una banca del Vaticano, così come lo ha raccontato The Washington Post; il denaro, depositato su richiesta di William Casey, al tempo direttore della CIA, fu utilizzato dalla Democrazia Cristiana in Italia contro il Partito Comunista. Successivamente, nel giugno 1984, Bandar avviò il pagamento di 30 milioni di dollari proveniente dalla famiglia saudita a favore del colonnello Oliver North per l’acquisto di armi diretto alla contra del Nicaragua…”.[45] Il racconto è di un testimone diretto, l’agente segreto Robert Baer, ventun’anni a servizio della CIA principalmente come ufficiale di campo in Medio Oriente.
Il cavaliere nero dell’Apocalisse
Un altro membro della dinastia saudita, Abdullah bin Saleh Al Obaid, è il fondatore della Lega islamica mondiale, con sedi in 120 paesi. In Europa, la Lega – che ha come fine il proselitismo religioso — ha al suo attivo, tra l’altro, la costruzione delle moschee di Copenaghen, Madrid e Roma.[46] Con un costo complessivo di cinquanta milioni di dollari (soldi forniti tutti dalla famiglia saudita), la grande moschea di Roma è stata realizzata a metà anni ‘90 da un’impresa italiana, la Federici, poi acquisita dal colosso Impregilo.[47] Nell’ottobre del 1996, alla stessa Impregilo (in associazione con la Rizzani de Eccher di Udine) è stato affidato invece il primo lotto di lavori per la realizzazione della più grande moschea del mondo (500 mila metri quadrati di superficie), quella di Abu Dhabi. Il megacomplesso religioso è stato voluto e finanziato dallo sceicco Kalifa bin Zayed Al Nahyan, lo stesso che aveva affidato alla Middle East Company dell’ingegnere Zappia, la realizzazione di importanti opere pubbliche nel piccolo emirato.[48]
Attraverso la controllata Fisia Italimpianti, Impregilo ha realizzato ad Abu Dhabi sette dissalatori. Proprio di recente la società ha sottoscritto con l’emirato un contratto per un nuovo dissalatore della capacità di cento milioni di galloni al giorno ed una centrale elettrica di 1.500 MW a Shuweihat, lungo la costa del Golfo Persico. Altri dissalatori sono stati realizzati da Fisia-Impregilo in Arabia Saudita, Qatar, Kuwait, Bahrain (3) e Dubai (4). Ad Abu Dhabi è presente pure una sede operativa di Grandi Lavori Fincosit, altra società con cui sarebbe entrato in contatto l’ingegnere Zappia in vista della gara per il Ponte. Fincosit ha inoltre costruito in Arabia Saudita il Centro direzionale Al Nowaisser di Gedda e la strada per la Mecca della lunghezza di 169 chilometri.
L’emirato di Abu Dhabi è stato il destinatario finale di una partita di cannoni svizzeri “Oerlikon” trattata nei primi anni ‘80 da tale Rosario Cattafi, avvocato originario di Barcellona Pozzo di Gotto (Messina). Militante di estrema destra nei primi anni ’70 accanto a Pietro Rampulla, l’artificiere della strage di Capaci, Cattafi è stato “compare d’anello” del boss Giuseppe Gullotti, rappresentante di Cosa Nostra nel barcellonese.
I documenti sulla transazione di materiale bellico a favore di Abu Dhabi furono scoperti nel corso di un’inchiesta della procura di Milano interessata a verificare se dietro un viaggio del Cattafi a Saint Raffael c’era l’obiettivo di “stipulare per conto della famiglia Santapaola un accordo con la famiglia dei Greco per la distribuzione internazionale di stupefacenti”. Le indagini consentirono di accertare che il Cattafi aveva avuto accesso a numerosi e cospicui conti correnti in Svizzera e che lo stesso aveva tenuto “non meglio chiariti” rapporti con presunti appartenenti ai servizi segreti.[49] Rapporti con il variegato mondo degli 007 a cui ha fatto accenno pure il collaboratore catanese Maurizio Avola, ex killer di fiducia del clan Santapaola. Nel corso di un’intervista rilasciata ai giornalisti Roberto Gugliotta e Pietro Suber, Avola ha definito Rosario Cattafi una “persona molto potente”. “Per noi – ha aggiunto il collaboratore – Cattafi era più importante degli altri uomini d’onore perché eravamo convinti che fosse legato ai servizi segreti e anche alla massoneria. Cattafi rappresenta l’anello di congiunzione tra la mafia e il potere occulto”.[50]
Nei primi anni ’80, l’ambiguo personaggio era stato ritenuto dagli inquirenti uno dei capi di una presunta associazione operante a Milano responsabile del sequestro, avvenuto nel gennaio 1975, dell’imprenditore Giuseppe Agrati, successivamente rilasciato in cambio di un riscatto di due miliardi e mezzo di lire. All’“organizzazione” fu anche contestata la compartecipazione nei traffici di stupefacenti e nella gestione delle case da gioco per conto delle “famiglie” mafiose siciliane. Cattafi e gli altri indagati furono però prosciolti in istruttoria.[51] A sottolineare il rilevante ruolo di Cattafi ci ha pensato pure Angelo Epaminonda, indiscusso padrone delle bische clandestine di Milano. Nell’inverno del 1984, interrogato sulle modalità di penetrazione della mafia nella gestione dei casinò del nord Italia, Epaminonda dichiarò: “Fui contattato un anno fa da Rosario Cattafi. Mi disse che agiva come emissario di Santapaola e mi propose di gestire insieme alcune attività legate al casinò di Saint Vincent. Io però non ero interessato e rifiutai”. Il tentativo di scalata della mafia fu accertato nell’indagine che seguì al cosiddetto blitz della notte di San Valentino contro i colletti bianchi di Milano. E vide protagonisti il finanziere palermitano Carmelo Gaeta ed il cambista Maurizio Monticelli, uomo di fiducia del clan dei marsigliesi, poi trasferitosi a Sint Maarten per gestire il casinò “Il rosso e il nero” con don Saro Spadaro. Otto anni più tardi, Rosario Cattafi venne arrestato nell’ambito dell’inchiesta sui traffici di armi e droga dell’autoparco di Milano. Dopo una pesante condanna in primo grado, la sentenza fu annullata per un vizio procedurale. Rifatto il processo, Cattafi venne assolto perché in sede dibattimentale furono dichiarate inutilizzabili le intercettazioni ambientali che avevano documentato le sue frequentazioni presso l’autoparco di via Salomone.[52]
Sempre nel 1992, Cattafi aveva incrociato le sue disavventure giudiziarie con lo stesso signore delle Antille. Cattafi e Spadaro furono coinvolti in un’inchiesta dei giudici di Messina (Arzente Isola) su un traffico di armi prodotte da alcune imprese italiane ed inviate a paesi sottoposti ad embargo. Indagato pure il faccendiere Filippo Battaglia, altro personaggio originario del messinese, successivamente trasferitosi in Perù.
Amministratore unico della Battaglia Holding, della Corpelia S.A. e della Rami S.A., società finanziarie registrate all’estero, Filippo Battaglia aveva voluto Cattafi come proprio testimone di nozze.
Filippo l’Augusto
“Ho svolto l’attività di casellante all’autostrada Messina-Catania, per la precisione allo svincolo di Roccalumera. Dopo tre mesi venni trasferito negli uffici con mansioni superiori, fino a diventare poi il direttore del servizio del centro elettronico. Rimasi alla A-18 fino al 1978”. Esordisce così Filippo Battaglia in un’intervista rilasciata alla Gazzetta del Sud dopo un tentativo di acquisto nei primi anni ‘90, misteriosamente naufragato, della società calcistica del Messina. Il faccendiere era pure stato insignito del passaporto diplomatico: “Il ministro degli Interni del Perù mi ha nominato rappresentante all’Unfdac, la sezione dell’ONU di Vienna che si occupa della lotta al narcotraffico. Io ho combattuto per ottenere dal governo peruviano donazioni di mezzi per combattere il narcotraffico nel Sud America”.[53] Battaglia divenne così l’intermediario privilegiato per l’acquisto di armi e mezzi militari da parte dei governi di Perù e Venezuela.
Per conto dell’Agusta Spa, una delle protagoniste del mercato mondiale degli elicotteri da guerra e delle inchieste sui traffici di armi gestiti da faccendieri, mafiosi e piduisti,[54] Filippo Battaglia ha pure trattato, nella primavera del 1992, la vendita di dodici elicotteri CH47 per il trasporto truppe ed armamenti alla Guardia nazionale dell’Arabia Saudita. Comandante al tempo dell’istituzione militare, Abdullah bin Abdul Aziz, il principe (oggi sovrano saudita) che abbiamo incontrato accanto al congiunto Nawaf bin Abdul Aziz, aspirante finanziatore del Ponte.
Il trasferimento dei mezzi da guerra targati “Agusta” al regime di Riyadh vide scendere in campo gli uomini di punta del governo arabo. Nel corso di una telefonata del 15 giugno 1992 tra Filippo Battaglia e Domenico Maria Ruiz, direttore generale dell’industria bellica, il faccendiere forniva l’identità del suo diretto interlocutore: “È lo sceicco Hassan Hennany a tenere le fila con re Fahd. Hennany è il segretario del principe Feisal ben Fahd, il figlio del sovrano d’Arabia, e può darci una mano a vendere elicotteri anche al Marocco”. Il mese precedente, Filippo Battaglia, in compagnia di Felice Cultrera (un finanziere domiciliato a Marbella frequentatore di don Saro Spadaro), del commerciante catanese Aldo Papalia e di tale Gianni Meninno, era stato ospite del saudita a bordo del suo yacht ormeggiato a Cannes. I particolari di quell’incontro erano stati raccontati dal Papalia, responsabile per le relazioni estere di Forza Italia, al direttore commerciale di Pubblitalia-Fininvest Alberto Dell’Utri. “In questi giorni sapremo le date, te le comunico e ci incontriamo. Ok?”, chiedeva il Papalia. Poi aggiungeva: “Se per caso il tuo presidente, se potesse venire per dire… un incontro. Perché c’è pure in grande pompa magna quell’Hennany. Alberto, io non ci sto dormendo la notte!”.
L’identità del “presidente” prendeva forma nel corso di una telefonata intercorsa il 3 giugno 1992 tra il Cultrera e il Papalia, oggetto un appuntamento molto importante fissato da lì a cinque giorni. “Scusami Aldo, noi lunedì c’incontriamo. Possiamo parlare con questo Berlusconi o no?”, domandava Cultrera. “Gioia mia, mi auguro di sì. Io non te lo posso dire in questo momento e neanche lui me lo sa dire”, replicava Papalia. E Cultrera: “Sì, ma va bene. Sai perchè è importante. Non perché voglio parlare con lui, è che di solito, quando c’è un filtro non è la stessa cosa”.[55]
Nella trattativa con gli arabi non poteva far mancare il suo contributo il trafficante d’armi Adnan Kashoggi, socio d’affari dei sovrani sauditi e del padre di Osama bin Laden.[56] Il 13 aprile 1992, Filippo Battaglia e l’amico Roberto Ricciardi si recarono all’aeroporto di Catania Fontanarossa per accogliere il Dc9 privato in cui viaggiavano Kashoggi, la moglie Azam, il figlio Kabilia e tre mercanti d’armi di fama internazionale: il siriano Marwan Hamwik, l’americano Robert Shaneen (un ex ufficiale dell’esercito USA, da tantissimi anni braccio destro del miliardario saudita), il belga Josef Rogmans. Nella sala vip dello scalo siciliano, Battaglia formalizzò al saudita la proposta di vendita dei CH47 prodotti in licenza dall’Agusta. Alla vigilia della firma del contratto, Filippo Battaglia ricevette perfino una chiamata del chiacchierato uomo d’affari libanese Albert Chamad, ricercato dall’Interpol per l’omicidio del connazionale Samir Traboulsi, avvenuto nel 1982 a Parigi.[57] Traboulsi aveva lavorato alle dipendenze di Kashoggi sino alla seconda metà degli anni settanta, per poi mettersi in proprio e trasferirsi nella capitale francese.
Le triangolazioni belliche del gruppo Cultrera-Battaglia finirono sotto indagine dalla procura di Catania che, grazie alle intercettazioni e al racconto di alcuni collaboratori, ipotizzò pure l’investimento di presunti capitali mafiosi per la realizzazione di cinquemila appartamenti a Tenerife. I faccendieri siciliani avrebbero pure tentato di acquisire le società che gestivano alcune case da gioco ad Istanbul, Mamunia (Marocco) e Praga. Tra il 1992 e il 1994 il sodalizio avviò la trattativa per rilevare parte del patrimonio di Roberto Pasquale Memmo, l’immobiliarista e finanziere noto per dirigere l’omonima “Fondazione per l’arte e la cultura”, con sede a Roma nel prestigioso Palazzo Ruspoli. In particolare, dal tenore di una telefonata tra il Meninno e il Cultrera, si evince che i due personaggi erano particolarmente interessati all’acquisto delle quote dei casinò di Malta e Montecarlo di proprietà del Memmo che, secondo quanto riferito dal Meninno, “sarebbe anche in società con il Principe Ranieri di Monaco”. Scrive il Gip di Catania nell’ordinanza di custodia cautelare contro Cultrera e soci: “Memmo invita il Meninno e il Felice Cultrera a Montecarlo per una cerimonia (forse un vernissage) di una “Fondazione” da lui creata. All’affermazione di Meninno, che potrebbe essere questa l’occasione per presentarlo a Memmo e per fargli conoscere Pedro Poiares, Cultrera replica che preferirebbe portare Alberto, poi identificato per Alberto Dell’Utri. Nel corso della telefonata i due lo descrivono come un ottimo manager, ben inserito in un gruppo imprenditoriale serio e molto stimato dal Memmo. Il Cultrera, continuando a parlare dell’affare che debbono concludere con Memmo, specifica di voler fare mettere i soldi a quelli di Hong Kong».[58]
Le armi, l’acqua, il ponte
Rinviati tutti a giudizio per violazione delle normative sul commercio delle armi, Felice Cultrera, Filippo Battaglia e soci vennero successivamente assolti dal Tribunale di Catania, l’1 ottobre del 2003. Ma al di là dell’esito finale del procedimento, la lettura delle informative e della documentazione allegata fornisce uno spaccato dei vasti interessi dentro cui si muovevano i protagonisti della vicenda. Compreso – dieci anni prima della svolta decisiva – il progetto del Ponte sullo Stretto. Nel 1992, anno della trattativa per il trasferimento degli elicotteri Agusta al regime saudita, Filippo Battaglia diede vita ad un’operazione finanziaria tesa all’acquisizione della maggioranza del pacchetto azionario della “SICOS – Azienda Regionale Siciliana, Costruzioni e Servizi”, costituita appositamente a Palermo in previsione della costruzione del Ponte e dell’autostrada Catania-Gela e il cui pacchetto era detenuto dall’ESPI, l’Ente Siciliano per la Promozione Industriale di Palermo. Amministratore della SICOS era al tempo Armando Di Natale, strettamente legato al Battaglia. Per il rilevamento della SICOS si pensò di utilizzare come schermo una società in forte crisi di liquidità, la S.A.IN. (Società Appalti Internazionali), facente capo al costruttore Gioacchino Del Din.
Del Din era entrato da qualche tempo in rapporti d’affari con i siciliani; in particolare, grazie all’intermediazione di Felice Cultrera e Gianni Meninno, la società da lui rappresentata aveva sottoscritto un contratto di joint venture con la AMEC International di Londra per partecipare alla gara d’appalto per la costruzione di un tratto autostradale tra Cuneo e Borgo San Dalmazzo. In tale affare Battaglia aveva assunto la vece di procuratore speciale per conto della S.A.IN.. Successivamente Cultrera e Meninno avevano proposto a Del Din di entrare in società per l’acquisto di alcuni terreni a Vigo e il compimento di una serie di speculazioni immobiliari in altre località della Spagna; per di più Del Din aveva preso parte nell’aprile del 1992 ad una delle riunioni svoltesi a Nizza sul panfilo dell’emiro saudita Hassan Hennany.[59]
In vista dell’acquisizione della SICOS, Filippo Battaglia e Armando Di Natale si attivarono per usufruire di cospicui stanziamenti regionali. Tali iniziali stanziamenti sarebbero ammontati a dieci miliardi di lire ed erano finalizzati ad avviare nel frattempo un servizio agro-meteorologico regionale per il controllo a terra dei corsi d’acqua, la riutilizzazione delle acque reflue e il coordinamento delle risorse idriche delle dighe esistenti, quindi programmi di nuove dighe e nuovi lavori. Allo scopo Battaglia si recò a Palermo per incontrare l’allora presidente della Regione Siciliana. “La SICOS ha delle spese di gestione bassissime perché utilizza del personale regionale che è stato messo in parcheggio e che quindi non viene pagato dalla società”, spiegava in una telefonata il Battaglia a Del Din. Il messinese aggiungeva che il costo di rilevamento si aggirava sui 300 milioni più un costo aggiuntivo che gli avrebbe detto in separata sede.[60]
Battaglia operava pure in stretto contatto con l’allora presidente dell’ESPI, Francesco Pignatone, cointeressato unitamente a Di Natale al “CEOM Scpa”, il Centro Oceanologico Mediterraneo costituito agli inizi degli anni ‘90 dall’ENI e dalla Regione Siciliana per lo studio e lo sfruttamento delle risorse marine. Altro importante punto di contatto di Filippo Battaglia a palazzo dei Normanni, l’allora assessore regionale all’Industria Franco Sciotto, leader socialdemocratico originario di Milazzo (affiliato alla loggia massonica “La Maestra” del Grande Oriente d’Italia), successivamente transitato nel Ccd di Pier Ferdinando Casini. Sino al novembre 1986 Franco Sciotto aveva pure ricoperto il ruolo di amministratore unico della IDC-Italian Drinks Company, una società a responsabilità limitata con sede a Barcellona Pozzo di Gotto interessata alla “produzione e commercializzazione in Italia e all’estero di bibite, vini, latte e prodotti affini”, di proprietà di Rosario Cattafi.
Come accertato dal GICO della Guardia di finanza di Firenze, negli stessi mesi in cui Filippo Battaglia era sceso in campo per l’acquisizione della società pro-Ponte, il compare Cattafi tempestava di telefonate le utenze fisse ed i cellulari intestati alla Regione Siciliana, alla Presidenza di tale Ente e all’assessorato all’Industria. “Particolare non trascurabile – aggiunge il GICO — è che tutti e tre i soggetti (Battaglia, Cattafi e Sciotto N.d.A.) avevano a loro volta rapporti telefonici con l’onorevole Dino Madaudo, sottosegretario al Tesoro”.[61] Deputato nazionale del Psdi, poi sottosegretario alla Difesa, Madaudo è stato indicato dal collaboratore di giustizia Antonino Calderone come persona che avrebbe cercato di impossessarsi dell’eredità elettorale del ministro Giuseppe Lupis: nel 1979 si sarebbe rivolto alla cosca Santapaola per ottenere il suo appoggio in vista delle imminenti elezioni politiche; a dire del collaboratore i voti non gli sarebbero stati dati perché ritenuto poco affidabile.[62]
Conclusa l’esperienza parlamentare, Dino Madaudo si è dedicato prioritariamente alla produzione e commercializzazione di vini ed attualmente risulta pure cointeressato alla gestione di alcune sale Bingo tra Messina e Catania. Nel mese di maggio 2007, il suo nome è comparso nella lista degli “indagati a piede libero” della cosiddetta operazione Montagna sugli interessi economici delle cosche mafiose dell’area dei Nebrodi.[63] Pur frequentando i tavoli del centrosinistra peloritano, quando ne ha l’occasione Dino Madaudo non fa mancare il suo sostegno a favore dei paladini del progetto di collegamento stabile Calabria-Sicilia.
Filipopoo Battaglia, invece, rientrato in Sicilia qualche mese prima della provvidenziale assoluzione del tribunale di Catania al processo per la vendita di armi pesanti ad Arabia Saudita e Marocco, fu contrattato nell’estate 2003 dai manager dei Cantieri navali Rodriquez per avviare una trattativa con il governo di Hugo Chavez per la realizzazione di acquastrada e pattugliatori guardiacosta in joint venture con Dianca, l’azienda navale della Marina da guerra venezuelana. In occasione della visita in Sicilia dei militari latinoamericani, a Filippo Battaglia fu pure consegnato il grest del Comune di Messina, quale riconoscimento per il suo “impegno a favore dell’economia locale”. A fare gli onori di casa l’allora presidente del Consiglio comunale Umberto Bonanno e l’assessore di Forza Italia, Elvira Amata.
Altro instancabile sostenitore del Ponte sullo Stretto, Umberto Bonanno (che è pure braccio destro del socialista Nanni Ricevuto), è stato arrestato nel gennaio 2007 nell’ambito dell’inchiesta Oro Grigio, su alcune gravissime speculazioni edilizie che hanno devastato il territorio del Comune di Messina. Altrettanto sfortunato il Battaglia, che negli stessi giorni veniva condannato ad un anno e otto mesi di reclusione per abusivismo edilizio: aveva realizzato su una collina della Panoramica dello Stretto di Messina una villa-fortino di 350 metri quadrati di superficie.
I guai non sarebbero finiti. Stando al settimanale Centonove, Filippo Battaglia sarebbe sotto processo per evasione fiscale dopo un’indagine della Guardia di finanza che avrebbe svelato un giro di assegni e versamenti su conti correnti da società o imprese collegate per sei milioni di euro, “effettuati da soggetti vicini a Battaglia”.[64] Il finanziere sarebbe inoltre indagato – ancora una volta — per “traffico internazionale d’armamento”, relativamente al trasferimento al Venezuela, via Toscana, di imbarcazioni da combattimento (forse “gommoni d’assalto”).
Qualche analogia con la trattativa delle unità navali per cui il Battaglia è stato insignito dell’alta onorificenza del Comune di Messina?
[1]Il presente saggio è tratto dalla ricerca condotta dall’autore per conto del Centro siciliano di documentazione “Giuseppe Impastato” di Palermo, di prossima pubblicazione. Vi si rievocano alcune inchieste giudiziarie non ancora conclusesi. Tutte le persone coinvolte e/o citate a vario titolo, sono da ritenersi innocenti fino a sentenza definitiva.
[3]L’Opinione è tra i pochi organi di stampa non siciliani a sostenere senza tentennamenti la campagna a favore del Ponte. L’Opinione ha pure ospitato una lunga intervista all’amministratore delegato della Società Stretto di Messina, Pietro Ciucci. Cfr.: L. Tentellini, “Stretto di Messina, non sparate su quel ponte”, L’Opinione,Edizione n. 86 del 16 aprile 2005.
[4] R. Capone, “L’intervista — Il Ponte sullo Stretto possibile, raccontato da Giuseppe Zappia”, L’Opinione, 11 febbraio 2006.
[5] A. Mangano, A. Mazzeo, Il mostro sullo Stretto. Sette ottimi motivi per non costruire il Ponte, Edizioni Punto L, Ragusa, 2006, p. 58.
[6] R. Capone, “L’intervista — Il Ponte sullo Stretto possibile”, cit..
[9] L’Abu Dhabi Investment Authority è titolare del maggiore fondo d’investimenti statale del mondo, pari a 875 miliardi di dollari. L’Abu Dhabi Investment Authority, nel novembre 2007, ha acquistato il 4,9% di Citigroup, la principale banca internazionale; inoltre possiede il 25% dell’Arab Banking Corporation. Un altro 26% delle quote dell’Arab Banking Corporation è in mano alla Central Bank of Lybia del colonnello Gheddafi. L’Arab Banking Corporation possiede a sua volta circa il 5% delle azioni del gruppo bancario Capitalia (oggi in Unicredit), il 7,5% dello Juventus Football Club, il 2% della Fiat e il 9% di Fin.Part..
[10] U.S. 2nd Circuit Court of Appeals, Zappia Middle East Construction Company Limited, v. The Emirate of Abu Dhabi, Abu Dhabi Investment Authority, and Abu Dhabi Commercial Bank, Argued: December 14, 1999. Decided: june 12, 2000. Docket No. 99–7272.
[11] I testi delle intercettazioni telefoniche ed ambientali riportate sono tratti da: Tribunale Penale di Roma, Ordinanza di custodia cautelare in carcere e di arresti domiciliari nei confronti di Vito Rizzuto + 4, Proc. Pen. N. 6332/04 GIP, Roma, 22 dicembre 2004.
[12]Originariamente gli indagati di Gioco d’azzardo erano 63. Il 16 ottobre 2007, con decreto del Gip di Reggio Calabria, è stata archiviata la posizione di 41 persone. Escono così dal procedimento alcuni dei personaggi che vengono citati nelle pagine successive. Si tratta in particolare di Alfio Balsamo, Filippo Battaglia, Rosario Cattafi, Luigi Cavallaro, Felice Cultrera, Gioacchino Vincenzo Del Din, Armando Di Natale.
[13] R. Labate, “Ma vorrei trovare un jeans della mia taglia”, Gazzetta del Sud, 9 luglio 1991.
[14]Tribunale di Reggio Calabria – Ufficio del Giudice per le Indagini Preliminari, Ordinanza di applicazione di misure cautelari nei confronti di Siracusano Salvatore + 22, N. 2836/02 RGNR, Reggio Calabria, 2005,p. 169.
[15] W. Goobar, Osama Bin Laden el banquero del terror, Editorial Sudamericana, Buenos Aires, 2001, p. 179. Secondo The Wall Streat Journal (21 settembre 2001), Youssef Nada è stato pure componente di una commissione delle Nazioni Unite che si occupava dei rapporti con il mondo islamico e di cui facevano parte, fra gli altri, diversi membri del governo italiano, il senatore democratico Gary Hart e il consulente del Dipartimento di Stato americano Edward Luttwak. Sempre negli Stati Uniti, il banchiere è risultato essere particolarmente legato all’ex funzionario Onu, Giandomenico Picco, già alto dirigente del Gruppo Ferruzzi.
[16] R. Labévière, Les dollars de la terreur, Grasset, Parìs, 1999.
[17] A. Morigi, Multinazionali del terrore, Edizioni Piemme, Casale Monferrato, 2004, pp. 68–69.
[18] R. Gugliotta, G. Pensavalli, Messina campione d’Italia, Edizione IMGPress, Messina, 2005, pp. 162–164.
[19] Nello stesso articolo si asseriva che molte delle società di Youssef Nada con sede a Vaduz, erano state costituite con l’assistenza della Asat Trust, società “in passato legata alla famiglia del principe del Liechtenstein”. Alcune di esse si sarebbero pure appoggiate alle strutture della Fimo, la finanziaria di Chiasso accusata di aver riciclato miliardi per conto del clan mafioso dei Madonia con la collaborazione di Giuseppe Lottusi, poi condannato a 20 anni di carcere. (Cfr.: V. Malagutti, “Due Bin Laden e un italiano tra i soci di Al Taqwa”, Corriere della Sera, 17 novembre 2001).
[21] Nel giugno 2005 anche la Procura federale svizzera ha deciso l’archiviazione dell’inchiesta contro la Bank Al Taqwa, non avendo raccolto prove sufficienti sui legami con Al Qaeda. In Egitto le cose sono andate diversamente: nel febbraio 2007, Youssef Nada è stato deferito a un tribunale militare con le pesantissime accuse di finanziamento al terrorismo, riciclaggio di denaro sporco e tentativo di sovvertire le istituzioni dello Stato. Nel procedimento compaiono i nomi di altri 43 presunti dirigenti o finanziatori dei Fratelli Musulmani, tra cui un altro cittadino italiano, Ali Ghaleb Himmat, di origine siriana, vice-presidente della Bank Al Taqwa (Cfr.: Corriere della Sera, 24 luglio 2007).
[22] Al-Waleed Bin Talal è considerato uno degli uomini più ricchi del mondo. Possiede enormi partecipazioni nelle transnazionali Citigroup Inc. (dove sono presenti pure i bin Laden), Apple Computer, AOL Time Warner e nella catena di alberghi di lusso Four Season. Nel giugno 1994 ha acquisito circa il 24% del pacchetto azionario di Euro Disney, investendo oltre 500 milioni di dollari nel megaparco giochi alle porte di Parigi. Al Waleed è stato pure indicato come azionista della società immobiliare “Vetus”, il cui amministratore unico è Giuseppe Maranghi fratello dell’ex amministratore delegato di Mediobanca, Vincenzo Maranghi (Cfr.: La Repubblica, 26 agosto 1998).
[23] C. Palermo, Il quarto livello. 11 settembre 2001 ultimo atto? Dalla rete nera del crimine alla guerra santa di Osama bin Laden, Editori Riuniti, Roma, 2002, p. 86.
[24] Fu la National Bank of Oman a trasferire il denaro della Cia, via Pakistan, ai Mujaheddin e al giovane Osama bin Laden. Questo istituto era controllato per un 29% dalla BCCI.
[25] M. A. Calabrò, Le mani della Mafia. Vent’anni di finanza e politica attraverso la storia del Banco Ambrosiano, Edizioni Associate, Roma, 1991, pp. 100, 139, 197 e 202.
[27] I conti segreti dell’Eni presso la finanziaria di Curacao furono scoperti nel 1993 dalla procura di Milano a seguito dell’arresto del manager Montedison, Lino Cardarelli (Cfr.: La Repubblica, 15 dicembre 1993). Superato il ciclone di Mani Pulite, nel 2002 Lino Cardarelli entrò a far parte del consiglio d’amministrazione della Società Stretto di Messina, concessionaria statale per la realizzazione del Ponte. Alla fine della seconda guerra del Golfo, l’ex manager Montedison è stato nominato vicedirettore del PMO (Program management office), l’organismo sotto controllo degli Stati Uniti che si occupa degli aspetti economici, finanziari e industriali della ricostruzione in Iraq.
[29] R. Redaelli, Il fondamentalismo islamico, Giunti Gruppo Editoriale, Firenze, 2005, p. 76.
[30] W. Goobar, Osama Bin Laden el banquero del terror, cit., pp. 36–43.
[31] J. Brisard, G. Dasquiè, La verità negata. Una voce fuori dal coro racconta il ruolo della finanza internazionale nella vicenda Bin Laden, Marco Tropea Editore, Milano, 2002, p. 92.
[32]Anche l’ingegnere italocanadese Giuseppe Zappia ha concorso alla realizzazione negli Emirati Arabi di campi base utilizzati dalle forze armate Usa per sferrare l’attacco all’Iraq durante la prima guerra del Golfo.
[33] (P. Stefanato, “Impregilo, IGLI < > per crescere”, Il Giornale, 17 gennaio 2008). Negli ultimi mesi Impregilo è stata al centro di convulsi scambi azionari che ne hanno modificato sostanzialmente l’assetto societario. Usciti definitivamente la finanziaria Gemina della famiglia Romiti, il gruppo italoargentino Rocca ed Efibanca (merchant bank di BPI — Banca Popolare Italiana, ex banca Popolare di Lodi), importanti quote societarie sono state acquisite attraverso diversi fondi di gestione risparmio dai colossi bancari statunitensi Morgan Stanley International (8,01%) e JP Morgan Chase & Co. (2,08%). In Impregilo ha pure fatto ingresso la britannica Theorema Asset Management Ltd. (2,21%). Theorema ha sede a Londra e filiali nelle isole Bermude e Cayman; ed è stata fondata nel dicembre 2000 da Emanuele Antonaci e Giovanni Govi, due consulenti finanziari di origine italiana. Oltre ad IGLI (29,9%), altri importanti azionisti d’Impregilo sono Deutsche Bank (3,3%), le Assicurazione Generali (3,1%) e la Banca Popolare di Milano (3%) presieduta da Roberto Mazzotta, membro del Cda di Aedes Spa, la finanziaria immobiliare socia in Sicilia della famiglia Franza (gli oligopolisti del traghettamento privato dello Stretto). Durante la breve stagione di Mani Pulite, al tempo della sua presidenza della Cariplo, Roberto Mazzotta fu arrestato e processato per una storia di tangenti a Dc e Psi. Dopo una condanna in primo grado, è stato assolto in appello grazie alla modifica dell’art. 513 del codice di procedura penale che impedisce l’utilizzo delle accuse in fase istruttoria se non ripetute in aula.
[34] Capitalia controlla MCC-Medio Credito Centrale, già advisor finanziario della Società Stretto di Messina per uno studio sulle modalità di acquisizione dei capitali privati necessari alla realizzazione del Ponte.
[35] J. Brisard, G. Dasquiè, La verità negata, cit., p. 39.
[38]A. Morigi, Multinazionali del terrore, cit., p. 125.
[39]BBC, “Prince Turki al-Faisal, who is set to become Saudi ambassador to the US, is a former head of foreign intelligence”, London, 20 July 2005, http://news.bbc.co.uk/2/hi/middle_east/4700589.stm. Il controverso ruolo del principe Turki bin Faisal alla vigilia degli “attentati” dell’11 settembre, è pure al centro dello straordinario documentario di Michael Moore, Fahrenheit 911, dove viene pesantemente messa sotto accusa l’amministrazione Bush.
[40] Il principe ereditario Abdullah governava di fatto l’Arabia Saudita sin dal 1995, quando re Fahd, suo fratello, era stato colpito da un ictus.
[43]A. H. Cordesman, N. Obaid, Saudi Counter Terrorism Efforts: The Changing Paramilitary and Domestic Security Apparatus, Center for Strategic and International Studies, Washington, February 2, 2005, Pages 32–33.
[44]Il figlio del ministro della difesa saudita, Khaled bin Sultan bin Abdul Aziz Al Saud, già comandante in capo delle forze saudite durante la prima guerra del Golfo, fu fermato nel luglio 1995 dalla Guardia di Finanza mentre era in vacanza con il suo yacht a Capri, perché trovato in possesso di un vero e proprio arsenale militare: una trentina di mitragliette, fucili da guerra, pistole e oltre quattro mila munizioni. Le armi furono poi restituite al principe che potè riprendere indisturbato la sua crociera nel Mediterraneo (Cfr.: I. De Angelis, “Le mille armi dello sceicco”, La Repubblica, 24 luglio 1995).
[45]R. Baer, “The Fall of the House of Saud”, Atlantic Monthly, May 2003.
[46] J. Brisard, G. Dasquiè, La verità negata, cit., p. 66.
[48] Il valore della commessa assegnata ad Impregilo è stata di 120 milioni di dollari. Cfr.: A. G. Wright, “In Abu Dhabi, Sheikh Zhayed Builds A House for the Holy”, ENR — Engineering Nes Record, 3/15/2004.
[49] M. Torrealta, La trattativa. Mafia e Stato: un dialogo a colpi di bombe, Editori Riuniti, Roma, 2002, p. 126.
[50] R. Gugliotta, P. Suber, “E non chiamatemi pentito!”, Sette – Corriere della Sera, 10 marzo 1997.
[51] Commissione Parlamentare d’inchiesta sul fenomeno della criminalità organizzata mafiosa o similare, Relazione finale di minoranza, Relatore on. Giuseppe Lumia, Roma, gennaio 2006.
[52] Rosario Cattafi è stato indagato (e prosciolto) anche nell’ambito dell’inchiesta sui cosiddetti Sistemi Criminali relativa ai presunti mandanti della strategia stragista del biennio 1992–93, conclusasi con l’archiviazione del Tribunale di Palermo. Secondo un rapporto della D.I.A. del 1994, sarebbero stati rilevati contatti telefonici fra le utenze utilizzate da Cattafi “con soggetti riconducibili a Licio Gelli e Stefano Delle Chiaie fra la fine del 1991 e gli inizi del 1992”. Nella stessa indagine sono stati pure indagati e prosciolti il finanziere messinese Filippo Battaglia, strettamente legato da amicizia ed affari a Cattafi, i boss mafiosi Totò Riina e Nitto Santapaola, il commercialista massone Giuseppe Mandalari e l’ex parlamentare reggino Paolo Romeo.
[53] F. Pinizzotto, “Filippo Battaglia: non ho scheletri nell’armadio”, Gazzetta del Sud, 4 settembre 1993.
[54] L’Agusta Spa ha un fatturato di oltre 2,5 miliardi di euro ed un portafoglio ordini per oltre 7,6 miliardi. L’Agusta opera in joint venture con la britannica Westland ed è controllata da Finmeccanica (ex IRI), società di cui è stato amministratore delegato l’ex Ad di Impregilo, Alberto Lina. Lina è oggi vicepresidente di Sirti, società ex azionista di IGLI-Impregilo, produttrice di sistemi avanzati di telecomunicazione militare. Anche l’attuale presidente del Cda di Impregilo, Massimo Ponzellini, è stato consigliere di Finmeccanica. Un altro ex consigliere d’amministrazione di Finmeccanica è stato pure il dott. Pietro Ciucci, odierno amministratore delegato della Società Stretto di Messina, nonché presidente di ANAS, l’ente che è azionista di riferimento della concessionaria pubblica per la realizzazione del Ponte. Un ex consigliere dell’Agusta, il professore Emmanuele Emanuele, cavaliere del Santo Sepolcro, è stato membro sino all’aprile 2005 del consiglio d’amministrazione della Società Stretto di Messina.
[55] A. Carlucci, “Siamo sicuri che Silvio verrà?”, L’Espresso, 3 febbraio 1995.
[56] Relativamente alle relazioni di affari intercorse da Kashoggi, la famiglia reale dell’Arabia Saudita e i bin Laden si consulti il volume di Ronald Kessler, Kashogui. El ombre más rico del mundo, Ediciones B, Barcelona, 1987.
[57] Tribunale di Catania – Ufficio del giudice per le indagini preliminari, Ordinanza custodia cautelare in carcere nei confronti di Cultrera Felice + 8, N. 6975/93, Catania, 5 maggio 1995, pp. 77–78.
[58] Ibidem, pp. 22–23.
[59] Tribunale di Catania, Ordinanza custodia cautelare in carcere nei confronti di Cultrera Felice + 8, p. 34.
[60] Guardia di Finanza — Servizio Centrale di Investigazione sulla Criminalità Organizzata, Gruppo Interprovinciale di Firenze, Rapporto alla Procura della Repubblica presso il tribunale di La Spezia, Procedimento Penale Nr. 876/95/21–3 R.G.N.R., Roma, 3 aprile 1996.
[62]Tribunale di Reggio Calabria, Ordinanza di applicazione di misure cautelari nei confronti di Siracusano Salvatore + 22, cit., p. 262
[63] Cfr.: G. Lazzaro, “Politici, funzionari e imprenditori tra i 57 indagati della Dda”, Gazzetta del Sud, 10 maggio 2007. L’operazione Montagna ha svelato le ramificazioni del clan Rampulla di Mistretta nella gestione di “imprese idonee ad acquisire appalti pubblici costituendo anche cartelli d’impresa finalizzati all’illecita gestione dei lavori relativi alle opere pubbliche, riuscendo inoltre a spartire gli appalti tra gli imprenditori “amici” mediante il sistema del subappalto”.
[64]A. Serio, “L’ultima Battaglia”, Centonove, 18 luglio 2008.
La storia d’Italia conservata nelle case
Montenegrina – Questa giovane ragazza, fotografata prima della cattura, era sospettata di essere una collaboratrice dei partigiani. Fu uccisa schiacciandole la testa con una pietra: c’era l’ordine di non sprecare pallottole nelle esecuzioni dei “ribelli”.
“La storia d’Italia conservata nelle case” è il titolo di una trasmissione che andrà in onda a Radio Onda Rossa domani, 23 luglio alle ore 11.
Sarà diretta da Salvatore Ricciardi e si avvalerà della collaborazione dell’amico Gavino Puggioni, esperto e studioso di storia orale e scrittura popolare, che interverrà telefonicamente.
La trasmissione, alla quale seguiranno altre iniziative sia editoriali che in rete, ha per oggetto proprio lo studio della storia orale del nostro paese, fatta e scritta da coloro i quali l’hanno vissuta in prima persona.
Nel corso della prima trasmissione sarà presente Davide Conti, autore del libro: L’occupazione italiana dei balcani – Crimini di guerra e mito Della brava gente (1940–1943). Ed. Odradek.
“La trasmissione di mercoledì 23 parlerà del Regio Esercito durante l’occupazione italiana dei Balcani negli anni 1940–1943.
Occupazione caratterizzata da una lunga serie di crimini di guerra, di cui una testimonianza sono le quattro fotografie, (di cui pubblicata su questo sito) scattate a Niksic in Montenegro da un soldato italiano tra il maggio e il novembre 1942. Delle quattro fotografie racconteremo le loro origini, il loro ritrovamento e le ricerche che ne sono seguite per raccontare la storia, le storie, di cui sono viva testimonianza.” (Gavino Puggioni)
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Qui la registrazione della trasmissione di Radio Onda Rossa