Questa è la fotografia di Roberto Sapccino. Preferisco che sia nota la sua faccia invece di quella di Barbara. Barbara non c’è più ormai e nemmeno la bambina che portava in grembo. Quest’uomo è accusato di averle uccise emtrambe. Il processo inizia soltanto adesso. Qualsiasi sia l’esito, Roberto Spaccino ha ammesso di aver picchiato per futili motivi sua moglie incinta di otto mesi.
Dossier tratto da Giornalismo Partecipativo. Di BARBARA SPINELLI
E’ cominciato a Perugia un processo importante per il caso simbolo di un crimine, il femminicidio, non ancora riconosciuto dai nostri ordinamenti, ma dove forse più che in ogni altro aspetto della società, il progresso si sfida con la reazione.
Il femminicidio è l’atto ultimo di una serie di comportamenti svilenti, denigratori, violenti dell’uomo nei confronti della donna, dell’uso della forza dell’uomo per annientare la libertà e la personalità della donna.
La giurista Barbara Spinelli, autrice del saggio Femminicidio. Dalla denuncia sociale al riconoscimento giuridico internazionale, Franco Angeli, 2008, che avevamo presentato qui, ci spiega in questo straordinario dossier, che è anche un’eccellente maniera di fare Giornalismo partecipativo, perchè questo processo è importante.
Gennaro Carotenuto
- La storia
La notte del 24/05/2007 viene trovata nella sua camera da letto, a terra, morta, Barbara Cicioni, incinta di otto mesi e mezzo, nella villetta dove abitava insieme al marito, contigua alle abitazioni degli altri famigliari del marito.
A dare l’allarme al 118 è la cognata, a trovare la donna il marito, Roberto Spaccino, il quale affermò di essere uscito per fare delle commissioni e di aver successivamente, una volta rientrato, trovato la casa a soqquadro e la moglie senza vita, sul pavimento della camera da letto. Al momento dell’omicidio i due figli della coppia, di otto e quattro anni, dormivano nell’altra stanza.
In un primo momento si pensa che l’omicidio sia avvenuto ad opera di malviventi entrati in casa a scopo di furto (la stessa famiglia ne aveva già subìto uno nei mesi scorsi).
Il 29 maggio, poche ore prima del funerale di Barbara, Spaccino viene tratto in arresto e, sulla base delle rilevanze emerse dalle indagini, gli vengono contestati i delitti di omicidio volontario aggravato (futili motivi, crudeltà verso la vittima, rapporto di coniugio) per aver cagionato la morte della moglie Barbara Cicioni, maltrattamenti nei confronti della medesima e dei figli minori, calunnia nei confronti di ignoti, simulazione di reato (simulazione del furto).
Vedi anche:
- Chi è Barbara Cicioni
Barbara Cicioni è una donna forte e intraprendente.
Da giovanissima si innamora di Roberto Spaccino e si sposano. Hanno due figli.
Spaccino faceva il camionista, ma a seguito di un incidente deve smettere.
E’ cosi che Barbara Cicioni sceglie di aprire e gestire una lavanderia e, poiché gli affari vanno discretamente, Spaccino la convince ad aprirne una succursale di deposito in un vicino paese, onde potersela gestire in autonomia.
Barbara Cicioni amava la sua famiglia e tenerla unita per lei rappresentava un desiderio e al contempo una sfida, anche perché nella sua infanzia la separazione dei genitori aveva causato in lei delle sofferenze che avrebbe voluto evitare ad i suoi bambini, per tal motivo si era dimostrata, nel corso della vita matrimoniale, pur sempre “reattiva” nei confronti delle vessazioni da parte del marito, ma non aveva mai preso seriamente in considerazione l’idea di porre fine al matrimonio, almeno fino all’ultimo periodo, nel quale invece inizia a contemplare anche tale ipotesi.
- Le imputazioni a carico di Roberto Spaccino
L’imputato, coniuge convivente di Barbara Cicioni, è accusato di avere, per futili motivi, nella notte del 24 maggio 2007, percosso ripetutamente la predetta al capo e al volto, e di averne cagionato la morte, attraverso l’occlusione delle prime vie respiratorie e la compressione del collo, con violenza tale da provocare un arresto cardio-circolatorio[1].
I futili motivi consistono in una lite scoppiata perché Barbara Cicioni, a causa dello stato di avanzata gravidanza, non si sentiva bene e aveva chiesto al marito che la mattina successiva provvedesse lui in lavanderia ad una operazione di distillo: questi aveva insistito per uscire quella sera stessa a svolgere l’operazione e la moglie lo aveva accusato di voler uscire per andare chissà dove, alludendo al fatto che qualche sospetto nutriva su possibili tradimenti da parte del marito. Ciò ha scatenato l’ira di Spaccino che, nonostante lo stato di gravidanza della moglie, e il fatto che lei fosse a letto perché non stava bene a causa del diabete, la percuote a ceffoni sul volto, anche sopra il cuscino, (che si era posto sul viso lei stessa per non fare baccano e non far sentire ai figli nell’altra stanza, dice lui) e quindi, sempre secondo la ricostruzione di Spaccino, mandandola a quel paese “perché lei le aveva fatto male a un dito”, la lascia a sé stessa, guarda un po’ la tv in sala ed esce a fare il distillo. Su quanto avviene nelle ore successive, fino alla chiamata al 118, le ricostruzioni di accusa e difesa divergono, ed è anche questo uno dei punti che dovrà essere acclarato in dibattimento, sulla base dei dati emergenti dalle indagini preliminari e di quelli che emergeranno a livello testimoniale.
Spaccino è altresì accusato, attraverso la condotta di omicidio, di aver anche provocato l’interruzione della gravidanza della vittima, causando la morte del feto di sesso femminile di oltre otto mesi.
Le indagini poste in essere dalla Pubblico Ministero hanno evidenziato la non occasionalità dei comportamenti violenti posti in essere dallo Spaccino la notte del 24 maggio 2007, comportamenti che si inserivano in un contesto relazionale di abituali maltrattamenti fisici e psicologici posti in essere tanto nei confronti della moglie quanto dei figli minori.
Altro elemento emerso dalle indagini è l’alterazione della scena del delitto: nell’immediatezza dei fatti, l’imputato, al fine di conseguire l’impunità per aver provocato la morte della moglie e del feto, simulava all’interno dell’abitazione tracce tali da ritenere consumato il delitto di furto e conseguentemente accusava ignoti (stranieri, extracomunitari, albanesi) del delitto di omicidio in danno di Cicioni Barbara, pur sapendoli innocenti.
Ecco nello specifico i reati contestati :
CAPO A) delitto p.e p. dagli art. 575[2], 577 1° comma n. 4 in relazione ai nn. 1 e 4 dell’art. 61[3], 577 comma 2[4] cagionando la morte di Barbara Cicioni in stato di gravidanza all’ottavo mese, con reiterate percosse al capo ed al volto, stringendola al collo ed occludendole gli orifizi respiratori, così cagionandole la morte per insufficienza cardio-respiratoria acuta da meccanismo combinato asfittico (ostruzione meccanica violenta delle prime vie respiratorie determinante un quadro di asfissia meccanica da soffocamento e strozzamento) ed inibitorio (compressione delle strutture pascolo-nervose della regione laterale del collo). Con le aggravanti di aver commesso il fatto in danno del coniuge, per futili motivi (consistiti in una discussione famigliare) e per aver adoperato crudeltà verso la vittima in stato di avanzata gravidanza e dolorante sul letto a causa di esteso gonfiore alle gambe, ritenzione dei liquidi e diabete gravidico e non grado di opporre resistenza alle mortali percosse. Campignano di Marscian , 24 maggio 2007;
CAPO B) delitto p. e. p. dall’art. 572 c.p.[5] per avere maltrattato la propria moglie Cicioni Barbara con continue ingiurie, percosse, violenze psicologiche, nel corso dell’intera vita matrimoniale fino all’avvenuto omicidio di cui al capo A. Campignano di Marsciano, fino al 24 maggio 2007;
CAPO C) delitto p. e. p. dall’art. 572 c.p.[6] per avere maltrattato i propri figli minori Nicolò e Filippo con violenza psicologica (costringendo i medesimi ad assistere ai continui soprusi e maltrattamenti nei confronti della madre) e minacce di morte. Campignano di Marsciano, fino al 24 maggio 2007;
CAPO D) delitto p. e. p. dagli art. 81, 367[7], 368[8], 61 n. 2 c.p.[9] per avere, con più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso, al fine di conseguire l’impunità del delitto sub A, con dichiarazioni rese al P.M. in data 25.05.2007 (reiterato in data 26.05.2007) falsamente accusando soggetti ignoti di essersi introdotti a scopo di furto nella propria abitazione e di aver commesso il delitto di omicidio in danno di Ciccioni Barbara, pur sapendoli innocenti, nonché per aver simulato all’interno della propria abitazione, dopo avere egli commesso il delitto sub A, tracce tali da fare ritenere consumato il delitto di furto ad opera di ignoti (cassetti aperti ed apparentemente rovistati, cassaforte aperta con le chiavi inserite e vuota, etc.). Campignano di Marsciano, 24, 25, 26 maggio 2007;
CAPO E) delitto p.e p. dall’art. 18 commi 1, 2 e 4 L. 194/78 per aver causato l’interruzione della gravidanza di Barbara Cicioni mediante le lesioni mortali descritte sub A. Campignano di Marsciano, 24 maggio 2007;
CAPO D) delitto p.e p. dall’art. 368 c.p. per avere, nel corso dell’intero interrogatorio, reso al P.M. in data 15.06.2007, falsamente accusato soggetti ignoti di essersi introdotti a scopo di furto nella propria abitazione ed avere commesso il delitto di omicidio di Cicioni Barbara, pur sapendoli innocenti. Perugia, 15.06.2007.
- L’iter processuale.
La difesa dell’imputato ha dichiarato che questi ha scelto di sottoporsi al processo con rito ordinario: il che implica a livello procedurale una piena formazione della prova in dibattimento in contraddittorio tra le parti e a livello sanzionatorio nessuno sconto di pena connesso alla scelta di riti deflattivi.
a) Il rinvio a giudizio
Al termine delle indagini preliminari, il PM ha formulato la richiesta di rinvio a giudizio di Spaccino Roberto, cioè, sulla base degli esiti degli accertamenti effettuati attraverso le indagini, ha ritenuto che il procedimento non andasse archiviato ma che esistessero elementi sufficienti per sostenere l’accusa nei confronti di Roberto Spaccino in giudizio, e dunque per poter esercitare l’azione penale di accertamento della responsabilità nei suoi confronti per i reati allo stesso imputati nei capi sopra descritti.
Il Giudice per l’udienza preliminare, in camera di consiglio (cioè in una udienza che vede solo la presenza delle parti processuali e non è aperta al pubblico), ha ammesso la costituzione come parti civili (cioè parti che dalla condotta del soggetto hanno ricevuto un danno diretto, di tipo economico o morale), oltre che dei famigliari di Barbara Cicioni, di cinque associazioni, che dunque sono state considerate direttamente lese negli interessi di cui si fanno promotrici dalla condotta dell’imputato. Le associazioni sono:
- Associazione Nazionale Volontarie del Telefono Rosa – Onlus – Centro di Orientamento dei Diritti delle Donne
- Associazione Differenza Donna
- Associazione Comitato Internazionale 8 marzo
- Associazione Nazionale Giuristi Democratici
- Associazione Ossigeno Onlus
In quella sede, la PM, onde ottenere dal giudice che disponesse con ordinanza il rinvio a giudizio e non l’archiviazione del procedimento, ha esposto gli esiti delle indagini e le rilevanze che ragionevolmente evidenziano una responsabilità dell’imputato in ordine ai reati a lui ascritti.
Va detto che fin dalla notte stessa del fatto le indagini sono state svolte con particolare dovizia e attenzione dall’organo inquirente, e in questa sede va anche smentita l’infondata notizia diffusa dai media che voleva fossero state effettuati analisi del DNA sul feto per accertarne la paternità, peraltro mai messa in dubbio dallo stesso Spaccino.
Va anche detto che la tempestività con cui si è proceduto all’assunzione di sommarie informazioni e la sensibilità e l’acume della PM nel vagliare ogni ipotesi di indagine possibile fin dal primo momento, ha permesso di raccogliere elementi di tale rilevanza da poter contestare allo Spaccino non solo la responsabilità per l’omicidio della moglie, ma anche per i pregressi maltrattamenti nei confronti di moglie e figli, cosa che in altri casi analoghi indagini condotte in maniera superficiale non hanno consentito.
Nella sua puntualissima ricostruzione, la PM ha rimarcato come dalle testimonianze emerga chiaramente il clima di sudditanza psicologica che ha caratterizzato la vita matrimoniale di Barbara Cicioni, fatto di ingiurie, percosse, minacce, costantemente minimizzate da Spaccino, ma di rilevanza tale da costituire anche una forma di violenza psicologica rilevante nei confronti dei minori. Clima che Barbara non avrebbe mai denunciato per non far rivivere ai figli l’esperienza di separazione vissuta nella sua infanzia. Inoltre, con dovizia di analisi delle risultanze raccolte, la Pm evidenzia gli elementi che evidenziano la responsabilità dell’imputato e che sono tali e talmente concordanti da “spazzare via ogni interpretazione divergente”.
In tal senso si sono espressi anche i difensori delle parti offese (madre, padre, zia paterna della vittima e tutrice dei figli della vittima) e delle parti civili.
La difesa dell’imputato invece in quella sede ha insistito per la non responsabilità dell’imputato, e, pur consapevole che le evidenze probatorie erano tali per cui si sarebbe andati in giudizio, ha comunque richiesto la revoca della custodia cautelare o la trasformazione in arresti domiciliari e la revoca delle misure interdittive in materia di potestà genitoriale.
E’ utile ed emblematico partecipare allo svolgersi del dibattimento di tale processo proprio per la peculiarità della difesa dell’imputato: i suoi legali infatti, anche a fronte di palesi evidenze di responsabilità da parte del loro assistito in ordine ai fatti contestati, perseguono una linea difensiva non “tecnica” ma “sostanziale”, negando in toto la sua responsabilità in ordine ad ognuno dei reati contestati.
Continuando a insistere sulla tesi del furto commesso da estranei (“banda di rapinatori”), (tesi effettivamente insostenibile a fronte dell’assenza di qualsiasi traccia riconducibile a estranei all’interno dell’abitazione e a causa della prova certa di elementi circostanziali-temporali-spaziali che la escludono), i difensori di Spaccino, onde provare la sua non responsabilità anche in ordine ai reati di maltrattamento, riproducono quegli stereotipi e quei luoghi comuni sulla violenza domestica che caratterizzano e denotano un maschilismo di fondo, irrispettoso di una cultura dei diritti e del rispetto della dignità della donna, che in questa sede pretende peraltro di essere legittimato giurisdizionalmente. E’ così che parte integrante della difesa diventano anche discorsi di “riabilitazione” delle condotte del soggetto e “qualificazione” e “isolamento” di tutte le condotte violente emerse dalle testimonianze per cui “Spaccino era tutto cocchino fuori casa…ora io non sono uno psicologo ma se uno è violento è violento sempre…”, o ancora “si potevano evitare screzi alla presenza dei figli….ma da qui a dire che Roberto non gli voleva bene” “lui non ha mai mandato la moglie in ospedale…lui non è mai stato denunciato…”.
La ricostruzione della difesa dell’imputato, come affermato nella sentenza con cui si nega la revoca delle misure e si dispone il rinvio a giudizio, è tale che “per prestare fede allo Spaccino bisognerebbe ammettere alcuni dati che rasentano e forse valicano la soglia dell’assurdità”.
All’esito delle udienze in Camera di Consiglio il giudice per le indagini preliminari ha:
- emesso sentenza di non luogo a procedere nei confronti di Spaccino Roberto per il
reato di calunnia, per la presenza della scriminante del diritto di difesa;
- emesso decreto che dispone il giudizio in merito a tutti gli altri capi di imputazione;
- negato la revoca della custodia cautelare e delle misure interdittive inerenti la potestà genitoriale.
b) Le udienze pubbliche davanti alla Corte di Assise: 19 giugno 2008, ore 9.
Il 19 giugno 2008 per la prima volta si riunirà, in udienza pubblica, il collegio giudicante della Corte d’Assise, composto di giudici togati e giudici non togati, che, terminato il dibattimento, emetterà sentenza nei confronti di Roberto Spaccino.
a) COME SI PARTECIPA ALLE UDIENZE
La partecipazione all’udienza è disciplinata dall’art. 471 c.p.p.
Non possono essere portate in aula cose “atte a molestare”.
Non possono entrare minori, soggetti sottoposti a misure di prevenzione, in stato di ubriachezza o squilibrio mentale.
Non si deve turbare in alcun modo il regolare svolgimento dell’udienza.
Ai sensi del 472 c.p.c., se vi sono manifestazioni che turbano il regolare svolgimento dell’udienza il giudice può disporre che il dibattimento avvenga a porte chiuse, ovvero senza la presenza di pubblico.
b) COSA SUCCEDE NELL’UDIENZA DEL 19 GIUGNO
· Viene controllata la regolare costituzione delle parti
· Vengono affrontate le questioni preliminari, sempre che sollevate: nullità di atti di indagine preliminare/udienza preliminare/decreto che dispone il giudizio, questioni sulle costituzioni di parte civile, contenuto del fascicolo di dibattimento
· Pubblico ministero e difensori intervengono sulle questioni sollevate, quindi il giudice si ritira e le decide con ordinanza
· Al rientro, dopo la lettura dell’ordinanza, o, se non vi sono, subito, il presidente dichiara aperto il dibattimento e vengono i letti i capi di imputazione, ovvero tutti i reati per i quali l’imputato è chiamato a rispondere nel processo.
· Tutte le parti quindi indicano al giudice di quali prove chiedono l’ammissione
· Poi, l’imputato può scegliere o meno di rilasciare dichiarazioni spontanee
· Sulle prove di cui è chiesta l’ammissione si pronunciano tutti i difensori, e poi il giudice decide x l’ammissione
· A questo punto, o si stabilisce la data della prossima udienza, o si iniziano a sentire i testi.
- PERCHÉ È UN CASO DI FEMMINICIDIO ED È SIGNIFICATIVA LA PARTECIPAZIONE CONSAPEVOLE DELLE DONNE A QUESTO PROCESSO ?
“Col termine femminicidio si vuole includere in un’unica sfera semantica di significato ogni pratica sociale violenta fisicamente o psicologicamente, che attenta all’integrità, allo sviluppo psico-fisico, alla salute, alla libertà o alla vita della donna, col fine di annientarne l’identità attraverso l’assoggettamento fisico o psicologico, fino alla sottomissione o alla morte della vittima nei casi peggiori. Questo perché la violenza sulle donne può manifestarsi in forme molteplici, più o meno crudeli, più o meno subdole, e non è detto che lasci sempre marchi visibili sul corpo: essa infatti può provenire non solo dall’uomo, ma anche dalla società, che la favorisce o in taluni casi la provoca attraverso le sue discriminazioni, i suoi stereotipi, le sue istituzioni. Cionondimeno, in qualsiasi forma venga esercitata, la violenza rappresenta sempre l’esercizio di un potere che tende a negare la personalità della donna: brutalizzando il suo corpo o la sua anima si afferma il dominio su di essa, rendendola oggetto di potere la si priva della sua soggettività. Il femminicidio quindi è un fatto sociale: la donna viene uccisa in quanto donna, o perché non è la donna che l’uomo o la società vorrebbero che fosse.”
Anche se giuridicamente non esiste una fattispecie di femminicidio, tutte le ipotesi criminose di reato contestato contestate allo Spaccino indubbiamente rientrano nella definizione sociologica e criminologica del concetto, così come elaborata a livello internazionale (vedasi Spinelli B., Femminicidio. Dalla denuncia sociale al riconoscimento giuridico internazionale, Franco Angeli, 2008).
Cioè l’uccisione di Barbara Cicioni rappresenta l’atto ultimo di una serie di comportamenti svilenti, denigratori, violenti, che hanno caratterizzato il rapporto di Spaccino con la propria coniuge: un costante annientamento della libertà e della personalità di Barbara “in quanto donna”, perchè aveva scelto di rivendicare la propria autonomia decisionale non intepretando il classico ruolo di moglie e madre sottomessa e casalinga.
Un femminicidio perché Barbara mai è stata considerata nell’ambito relazionale dal marito un “soggetto” la cui sfera di dignità, integrità fisica e libertà morale di autodeterminazione andasse rispettata.
Le considerazioni che seguono sono tratte da:
Spinelli B., Femminicidio. Dalla denuncia sociale al riconoscimento giuridico internazionale, Franco Angeli, 2008, pp. 165–167.
“(…) per la prima volta, anche in Italia, il 18 marzo 2008, in un’aula di Tribunale si è parlato di femminicidio.
Questo è avvenuto in merito ad una situazione particolarmente emblematica, già da un anno sotto i riflettori dei media ed oggetto di attenzioni da parte del movimento femminista: si tratta del processo per l’omicidio di Barbara Cicioni, donna giovane, con due bambini, autonoma, imprenditrice, strangolata e soffocata dal marito mentre era incinta di ben otto mesi e mezzo. Si è parlato di questo caso come del classico esempio di femminicidio, in quanto è emersa dalle indagini la noncuranza con cui il marito di Barbara, l’imputato, usò violenza su di lei per tutta la durata della vita matrimoniale, picchiandola, denigrandola, tradendola, svalutandone le potenzialità anche davanti ad estranei, perché così riteneva normale per la “sua” donna: l’uccisione di Barbara è stato l’atto ultimo di un continuum di violenze e sopraffazioni volte ad annientarne la personalità, in quanto con la sua forza, con il suo carattere deciso, lei non era quella moglie sottomessa che il marito avrebbe voluto che fosse. Ad oggi inoltre è evidente il senso di noncuranza ed impunità dell’imputato, infatti è stata avanzata l’ipotesi che, per depistare le indagini, egli abbia simulato (o fatto simulare) un furto, commesso a suo dire da stranieri, e, nonostante l’ipotesi del furto sia stata comprovata come estremamente improbabile dagli esiti delle indagini, comunque egli continua a proclamarsi innocente. In questo processo le donne hanno deciso di manifestare la propria presenza, per rimarcare la natura pubblica della violenza sulle donne, il fatto che «per ogni donna violentata, offesa, siamo tutte parte lesa». Oltre ai presidi del movimento femminista locale (Rete delle donne Umbre e Sommovimento femminista di Perugia) e nazionale (Rete Nazionale Femministe e Lesbiche), che rivendicava la matrice culturale del femminicidio di Barbara Cicioni, in questo processo sono state ammesse come parti civili ben cinque associazioni. Si tratta di un evento degno di nota in quanto, oltre a tre associazioni che hanno come scopo specifico ed essenziale la difesa dei diritti delle donne, sono state ammesse anche due associazioni che hanno quale scopo la tutela e l’applicazione delle Convenzioni e norme in difesa dei diritti umani, e che nel loro agire in concreto si sono adoperate soprattutto per l’autodeterminazione delle donne e l’eliminazione di ogni discriminazione basata sul genere o sull’orientamento sessuale. Nello specifico, è simbolico il fatto che Giuristi Democratici[10], nel sostenere la propria ammissione, abbiano sposato una tesi ben precisa, rimarcando il fatto che le condotte dell’imputato rientrano nell’ipotesi di femminicidio, e che, in quanto tali, «hanno provocato una lesione del diritto soggettivo proprio dell’Associazione Nazionale Giuristi Democratici, da intendersi quale lesione dell’interesse concreto alla salvaguardia di situazioni storicamente circostanziate, di esplicita violazione dei diritti fondamentali delle donne e dei bambini riconducibili ad una cultura che non riconosce a tali soggetti la piena dignità di persone, ed in quanto tali assunte dall’associazione per farne oggetto delle proprie cure ai sensi delle finalità statutarie»[11].
L’ammissione della costituzione dei Giuristi Democratici come parte civile in questo processo ha una fortissima valenza, in quanto riconosce che il femminicidio, e nello specifico la violenza domestica, non rappresenta solo una lesione dei diritti della donna, un fatto privato, né tantomeno è un “fatto di donne”, ma costituisce una profonda ferita per la società tutta, che, nel momento in cui alla donna non viene riconosciuta la dignità di Persona ed in quanto tale viene fatta oggetto di discriminazioni e violenze, è collettivamente responsabile per l’eliminazione di quella cultura e di quegli stereotipi che ancora oggi minano l’autodeterminazione, la libertà, la vita delle donne ed il sereno sviluppo dei bambini che, in ambito famigliare, assistono a queste violenze e ne subiscono le conseguenze in termini psicologici[12].
Il fatto che in Italia, oltre al tentativo di legittimazione sociale del concetto di femminicidio (volto a sottolineare come priorità nell’approccio alla violenza di genere il riconoscimento della sua matrice sociale e culturale e la responsabilità istituzionale nel contrasto a tali stereotipi che rendono possibile o legittimano la violenza), nel quale abbiamo visto impegnati il movimento femminista ed i Giuristi Democratici, il dibattito sia spostato in concreto in un aula di Tribunale, è emblematico di come dare un nome alla violenza misogina e sessista serva ad identificare il singolo episodio delittuoso come espressione di quella cultura discriminatoria che lo sottende, a contestualizzare l’atto di un singolo nel substrato sociale che lo rende possibile non stigmatizzandolo sufficientemente.
La presenza in aula di quante sono impegnate per l’eliminazione di ogni forma di discriminazione che ostacoli l’autodeterminazione della donna, già di per sé «dispensa lo stigma», denota un cambiamento culturale: infatti questa presenza attiva rende il momento di accertamento della responsabilità, aldilà dell’esito, un momento di messa in discussione pubblica delle credenze e delle motivazioni del singolo che sottendono l’atto femminicida, nonché un momento di attenzione volto ad evitare un uso strumentalmente discriminatorio del diritto che la difesa dell’imputato potrebbe tentare, evidenziando piuttosto, come parti civili, il danno morale emergente per la comunità tutta da questi atti, in quanto lesivi della dignità umana.”
6. IL PRESIDIO E LA PRESENZA DELLE DONNE NEI PROCESSI CONTRO CHI COMMETTE VIOLENZE DI GENERE: UNO STRUMENTO DI CONSAPEVOLEZZA E DI DENUNCIA COLLETTIVA DELLA DIMENSIONE PUBBLICA DELLA VIOLENZA CONTRO LE DONNE.
L’esempio di Bologna e l’esperienza di Quelle che non ci stanno.
Quelle che non ci stanno è un collettivo che nasce nel settembre del 2006 dopo uno stupro subito da Mara, una di loro.
Singole e collettivi si sono uniti sotto questo nome per la volontà di denunciare i continui attacchi all’autodeterminazione delle donne e delle lesbiche attraverso la violenza maschile.
Tutte lavorano per denunciare la violenza maschile come questione politica contro la libertà di donne e lesbiche e non come emergenza per legittimare pacchetti sicurezza e leggi contro le/i migranti.
Il percorso di Quelle che non ci stanno è partito da un’esperienza specifica per approfondire una questione che spesso vuole essere relegata alla sfera privata delle donne e delle lesbiche, quella della violenza maschile su donne e lesbiche: risponde proprio all’obiettivo di “nominare correttamente la realtà”, l’uso, sempre, nei documenti della parola violenza maschile sulle donne e sulle lesbiche, perché quando i giornali parlano di “violenza familiare”, “violenza sessuale, coniugale o alle donne” sparisce dall’attenzione di chi legge il soggetto di chi compie l’azione, presentando così il problema come un eufemismo, cioè un problema delle donne che devono apparire sempre vittima con un destino ineluttabile.
Quelle che non ci stanno si sono imbattute a Bologna in un caso grave di “colpevolizzazione” della vittima da parte degli stupratori, ma quel che è più grave dalla stampa. Negli articoli tra le righe si leggeva che lo stupro questa donna in qualche modo era andato a cercarselo sperimentando un sesso non canonico. Attribuire la responsabilità dell’accaduto a chi subisce “rappresenta un meccanismo potente di disimpegno morale”. Oppure attribuire la causa dello stupro alle condizione economiche o culturali dello stupratore tende a giustificare e a esonerarlo dalla gravità del fatto, difendendo e sollevando da ogni responsabilità l’intero gruppo dominante degli uomini, in quanto coloro che compiono lo stupro.
Per denunciare la costante e ripetuta indifferenza delle persone, la normalizzazione della violenza, la costante complicità dei maschi con gli stupratori, la lesbofobia, il tentativo di orientare la paura della violenza in maniera strumentale contro i “diversi”, gli immigrati, cercando di far dimenticare che la maggior parte delle violenze avvengono tra le mura domestiche, per affermare che la violenza non è nel “degrado”, nelle strade buie, nei quartieri poveri, o nelle periferie cittadine, è nelle menti dei “signori” uomini, a volte come un’ossessione, e riguarda un modo di vita normale, una pratica, un’ideologia, caratterizzata dalla volontà di ridurre la donna a oggetto, per porre fine al “terrorismo sessuale-culturale” agito da giornalisti che continuano a scrivere articoli in cui raccontano in mille modi le attenuanti per gli stupratori, colpevolizzando la donna vittima, oppure che si dilungano in accurate descrizioni pornografiche delle violenze con linguaggi sempre più sessisti, per tutti questi motivi sono nate Quelle che non ci stanno e si muovono per denunciare pubblicamente lo stupro, il femminicidio, perché questo non venga considerato più come normale e naturale, ma come pratica violenta fisicamente, verbalmente e nel linguaggio dei media, con la quale gli uomini vorrebbero produrre l’annientamento della donna, rendendo invisibile ogni sua forma di azione.
Quelle che non ci stanno ha scelto come pratica di denuncia la presenza pubblica per mezzo del presidio e la diffusione di volantini in ogni luogo dove è avvenuto lo stupro/femminicidio, e soprattutto la denuncia pubblica, nei rari casi in cui si sa, proprio sotto casa degli stupratori.
Importante strategia di azione per Quelle che non ci stanno è la presenza con presidi sotto i tribunali durante alcuni processi per stupro/femminicidio o in alcuni luoghi dove sanno esserci alcuni di coloro che hanno sostenuto e difeso gli stupratori. Questo appoggio, attivamente praticato a Bologna già in due casi, è indispensabile per le donne che subiscono lo stupro, perché spesso devono affrontare la solitudine del dopo.
Obiettivo di quelle che non ci stanno con questa pratica è quello di dimostrare solidarietà alle donne che hanno subito lo stupro e di comunicare alle donne che è possibile non sentirsi sole. La denuncia di chi subisce e la presenza di donne a sostenerle è un’arma da usare contro la violenza maschile; la denuncia in piazza dello stupratore deve essere un monito di condanna per lui e per chi lo sostiene ufficialmente o ufficiosamente attraverso la complicità maschile: per tale motivo, Quelle che non ci stanno saranno presenti anche a Perugia.
[1] Spaccino ha confessato le percosse, al capo e al volto della coniuge, da sopra il cuscino, secondo dinamiche analoghe a quelle che hanno cagionato la morte di Barbara, tuttavia nega di averla uccisa, affermando che quando era uscito la moglie era viva.
[3] per aver agito per futili motivi e adoperando crudeltà verso la vittima
[4] per aver commesso il fatto in danno del coniuge
[5] Maltrattamenti in famiglia o verso fanciulli
[6] Maltrattamenti in famiglia o verso fanciulli
[9] Aggravante di aver commesso il reato per occultarne un altro e assicurarsi l’impunità.
[10] Rappresentati in giudizio dall’avv. Miserocchi, ma con un lavoro di squadra che ha visto me ed altre giuriste entusiaste partecipanti.
[11] http://www.giuristidemocratici.it/what?news_id=20080319194017
[12] Martini Eleonora, Omicidio Cicioni, «è femminicidio», in “Il Manifesto”, 20/03/2008, p. 6; Eduati Laura, Cicioni, «Fu femminicidio». Per la prima volta in Italia è una violazione dei diritti umani, in “Liberazione”, 22/03/2008, p. 7.
Da leggere, firmare e possibilmente diffondere.
Un po’ appello, un po’ invito alla riflessione. Questo testo redatto da alcuni intellettuali, giornalisti e scrittori che si sono fermati a riflettere su cosa Chiaiano (e non solo) rappresenti per il nostro paese. Al di là delle amare constatazioni sui fatti, come si sono svolti nel passato e nelle settimane scorse, il timore che probabilmente nella discarica di Chiaiano, con i rifiuti ci vada a finire anche la democrazia….
…
un appello per smuovere una partita ferma: governo e tutto il quadro parlamentare da una parte, la extra assente o occupata a lavare i panni dentro le quattro mura, i no questo e no quello uniti, i magistrati (per fortuna che ci son loro!).….
adesioni a : antoniabasuragmailcom (antoniabasuragmailcom)
Chiaiano è sola?
Sono trascorsi alcuni giorni dalle cariche di polizia, dalla tregua stipulata con il sottosegretario Bertolaso e dall’entrata dei tecnici nelle cave per verificarne l’idoneità a ospitare una discarica da 700mila tonnellate. Nell’attesa, gli abitanti di Chiaiano, Marano e Mugnano continuano a presidiare pacificamente i luoghi della contesa. Nei capannelli che si formano tra i gazebo all’ingresso delle cave, le persone ripercorrono a mente fredda gli ultimi avvenimenti, analizzando il resoconto fatto dai media degli eventi di cui sono state protagoniste. E in quei racconti, nessuno si riconosce.
Nei giorni di fuoco della protesta i cronisti di radio, giornali e televisioni hanno descritto chi si opponeva alla discarica come una folla di strani e sconsiderati personaggi, inventando storie di armi, droga e camorra per screditare i più giovani e attivi; insinuando come gli uomini sacrificassero senza scrupoli madri, mogli e figli sulla prima linea delle barricate; diffondendo notizie palesemente false come quella delle bombole del gas legate a un petardo, non confermata neanche dalle forze dell’ordine.
Gli editorialisti “democratici” (inutile soffermarsi sugli altri) hanno sostenuto, come fanno ormai puntualmente quando una comunità si oppone alla devastazione del territorio in cui vive, come sia giusto chiedere questo sacrificio alla gente di Chiaiano, quanto sia dolorosa ma inevitabile la decisione di scaricare i rifiuti nelle cave; con le solite acrobazie verbali, hanno giustificato la violenza sui manifestanti con la presenza di infiltrati o lanciatori di pietre, compatendo le persone “perbene” che protestavano come se fossero in balia di imprecisati manovratori o diabolici facinorosi di strada.
Era accaduto lo stesso a gennaio, a Pianura, nei giorni in cui l’opposizione dura e determinata degli abitanti della zona flegrea aveva impedito la riapertura di una discarica chiusa da tredici anni, un provvedimento che a posteriori è stato unanimemente giudicato deleterio dalle stesse istituzioni. Come a Pianura, anche a Chiaiano il sindaco di Napoli e i componenti del consiglio comunale si sono tenuti a distanza, mostrandosi colpevolmente incerti e confusi sulle decisioni da prendere; la stessa linea ha adottato il governatore della Regione, che ormai da mesi ha abdicato alle sue funzioni per chiudersi in un bunker da cui uscirà solo tra un anno per occupare la sua poltrona nel parlamento europeo. Entrambi si sono limitati ad approvare, e anzi a sollecitare, le misure anticostituzionali adottate dal governo centrale.
Come a Pianura, gli abitanti di Chiaiano, Marano e Mugnano chiedono di non fare una discarica in un terreno palesemente non idoneo, già destinato a parco naturale. In cambio ricevono dalle elite intellettuali e istituzionali della città, nel migliore dei casi silenzio e indifferenza, se non esplicito scherno e rimprovero. È questo – l’isolamento, la demonizzazione, il pregiudizio – quello che si merita Chiaiano e con Chiaiano tutta la città?
L’emergenza come tecnica di governo dura in Campania dai mesi successivi al terremoto del 1980. Un dispositivo che consente di espropriare la democrazia ai cittadini per comporre interessi non sempre trasparenti, come emerge da numerose inchieste giudiziarie. Ma se questo è il meccanismo, perché non provare a uscirne con un radicale cambiamento, cercando di restituire democrazia e responsabilità, ma anche le scelte ai cittadini. Oggi la loro protesta non è solo localismo. È anche una reazione a questo esproprio di democrazia.
Nella concezione della stampa, degli intellettuali, della classe dirigente, la parte giovanile e sottoproletaria di questa città appare sempre passiva rispetto alla cosa pubblica, oppure se si mobilita lo fa perché prezzolata da loschi interessi. Al contrario, con i suoi codici e le sue contraddizioni, questa composizione sociale (tutta o in parte) cerca una collocazione nel sentimento civico della comunità, riuscendo finalmente a interagire con altre tipologie di cittadini che si riconoscono in questa lotta.
Si cita spesso la camorra. Come una spiegazione che non spiega molto, perchè non si prova mai davvero a ricostruirne gli interessi. Se analizziamo il passato recente, la camorra sembrerebbe più incline all’apertura che non alla chiusura delle discariche, avendo dimostrato di saper entrare nel loro funzionamento (compravendita dei terreni, trasporto dei rifiuti, sversamenti abusivi, ecc.). E se la camorra può far pesare i suoi interessi in queste vicende, le responsabilità non sono certo dei cittadini che protestano ma dei gruppi dirigenti che gli hanno più volte aperto la porta.
Il decreto Berlusconi si inserisce perfettamente in questa filosofia emergenziale. E lo fa in più punti: nella costituzione di una superprocura che controlli le inchieste accettabili e quelle “inadeguate”, col rischio che queste ultime siano sempre quelle che colpiscono chi ha maggiori poteri e responsabilità nello sfascio; nella possibilità di agire in deroga alle norme igienico-sanitarie e ambientali; nella possibilità di stoccare in discarica diverse tipologie di rifiuti speciali e tossici; nello stanziamento senza controllo di altri 150 milioni di euro che permetterà di assegnare le infrastrutture senza gara d’appalto; nello stabilire uno stato d’eccezione con norme penali ad hoc per colpire chi protesta. Allo stesso tempo non si aggiunge niente per il problema dello sversamento abusivo di rifiuti tossici, che sembra del tutto rimosso.
Ma esistono altre vie d’uscita dall’emergenza. Un piano con dieci discariche e quattro inceneritori è un piano di trent’anni fa. Si è cominciato chiudendo le discariche (come chiedevano le direttive europee) e si finisce con l’aprirne dieci. Ma se davvero il commissario aveva poteri speciali, negli ultimi mesi avrebbe dovuto ridurre drasticamente gli imballaggi, separare almeno il secco dall’umido per togliere la parte putrescente, provvedere ad allestire impianti per la trasformazione dei rifiuti differenziati, in grado di ricavare compost (utile per bonifiche e agricoltura), nuovi polimeri dalla plastica, nuovo vetro. La Sassonia (Ansa, 21 maggio) ci ha appena detto che differenzia “a valle” la nostra immondizia. Percentuali altissime con impianti che potrebbero essere costruiti in breve tempo e con tecnologie molto più semplici degli inceneritori. Perchè non si può virare il piano in questa direzione, visto che questo chiedono le legittime paure delle comunità? E perchè si continuano a fare scelte così bizzarre: aree vulcaniche come Terzino; l’unico polmone verde di Napoli, come la Selva di Chiaiano.
Insomma, si chiede ai cittadini di sacrificarsi al buio, senza nessun segnale di inversione reale di rotta, di emancipazione dalla sudditanza agli interessi forti, di affermazione del principio di responsabilità per cui chi ha sbagliato (e sono tanti, anche nell’imprenditoria, non solo Bassolino) deve andare a casa.
Con questo appello intendiamo esprimere la nostra solidarietà alle persone che abitano nella zona delle cave, che animano i presidi e partecipano alle manifestazioni contro la discarica; intendiamo non rimanere in silenzio come i nostri politici e rivolgiamo ai mass media l’esigenza di un racconto dei fatti il più possibile oggettivo, approfondito e non pregiudiziale. Il territorio di Chiaiano non appartiene solo a chi lo abita, ma è un patrimonio di tutta la città e da tutta la città va difeso.
Antonio Basura
prime adesioni:
Maurizio Braucci scrittore Napoli
Guido Piccoli giornalista Napoli
24 Grana, musicisti Napoli
Giuseppe Palumbo, autore di fumetti, Bolognai
Fabio Rodriguez Amaya, pittore e docente di Letterature Ispano-americane presso l’Università degli Studi di Bergamo
Marco Salvia, giornalista e scrittore, Napoli
Francesco Martone, attivista freelance Roma
Lorenzo Pavolini scrittore Roma
Canio Loguercio, musicista, Roma
Carlo Cerciello regista Napoli
Andrea Morniroli — cantieri sociali — mestiere: cooperatore sociale Napoli
Alessandra Riccio, giornalista, Napoli