A Ponticelli, dove i bambini giocano nell’amianto ma gli abitanti hanno più paura dei rom, sembra esserci una percezione distorta del problema sicurezza. Il presunto rapimento di una neonata da parte di una giovane rom e l’operazione di terrorismo mediatico che ne era seguita, avevano fatto scattare nei giorni scorsi la furia collettiva e in una sola nottata sono stati dati alle fiamme ben cinque campi nomadi, dopo che centinaia di persone terrorizzate tra cui moltissimi bambini e neonati erano state allontanate a suon di minacce e bastoni da una folla inferocita.
Giornali e televisioni hanno così gettato il cerino su quella che di fatto era una polveriera, fatta di cattiva gestione del territorio ed emergenze di ogni tipo: sanitaria, ambientale, abitativa, di sicurezza, di degrado. Qualcuno già esasperato da una pessima e criminale gestione della cosa pubblica, qualcun altro rispondendo a interessi non proprio limpidi, ha deciso in quel contesto di farsi giustizia e pulizia da solo. E’ difficile districare, in una realtà complessa come quella di Napoli e nel caso particolare di Ponticelli, la fitta rete di relazioni che esiste tra Camorra, istituzioni, singoli cittadini e imprenditori, soprattutto costruttori edili. Se ne è parlato pochissimo, ma a Ponticelli il prossimo 4 agosto scade il termine per avviare i lavori di edilizia pubblica e privata che rientrano nel così detto Programma di Recupero Urbano (PRU), approvato recentemente dalla Giunta Comunale. Se questa data prevista non verrà rispettata, saranno revocati i finanziamenti ministeriali che si aggirano intorno ai 67 milioni di euro. Una settimana dopo l’assalto ai roghi dei campi nomadi, è provato che questi sono già stati puliti e bonificati, con una solerzia rara e pertanto sospetta e con la stessa solerzia sono già stati smaltiti anche alcuni di quei pannelli all’amianto di cui il quartiere è ancora pieno e la cui presenza nociva viene inutilmente denunciata da anni.
I bipiani all’amianto del terremoto
Pannelli danneggiati e pertanto ancora più pericolosi, che i rom utilizzavano per costruire le loro baracche e che avevano recuperato perchè erano stati lasciati incustoditi a seguito della parziale demolizione di alcuni dei così detti “bipiani del terremoto”, prefabbricati montati a Ponticelli nel 1980 durante l’emergenza abitativa che seguì al sisma di quell’anno e costruiti interamente con pannelli all’amianto. E così mentre la diossina sprigionata dai roghi dei copertoni che bruciavano i nomadi per estrarne il rame è stata, dicono, oltre al presunto rapimento della bimba, uno dei motivi scatenanti della follia razzista di qualche centinaio di persone, si tollera ancora oggi a Ponticelli, da ormai venticinque anni, nella più assoluta indifferenza delle istituzioni, la convivenza con le fibre di amianto sparse praticamente dappertutto.
Ma mentre i rom rubano, puzzano, li incontri per strada o sui mezzi pubblici, ti infastidiscono all’uscita dalla messa, i copertoni che bruciano sprigionano diossina ed emettono un fumo nero che vedi anche da lontano, l’amianto c’è ma non puzza, sta lì e puoi anche fare finta che non esista, fa morire, ma di una morte lenta che non si sa bene quando arriva e se poi le istituzioni rassicurano che c’è ne è talmente poco, probabilmente non è nemmeno così dannoso per la salute come dicono.
Nei bipiani, in quelli non ancora sgomberati, notoriamente pericolosi, trovano alloggio centinaia di famiglie, sia di extracomunitari che di cittadini della zona, nonché disperati di ogni genere e nazionalità, per i quali non si riesce a trovare una sistemazione alternativa. Sono già noti casi di tumori e leucemie tra i bambini che vivono tra quelle pareti assassine, tre solo negli ultimi sei mesi.
Fino a qualche anno fa lì risiedevano anche alcuni rom, prima di essere dislocati nei campi nomadi per poter provvedere alla demolizione dei prefabbricati, avvenuta soltanto parzialmente, e che, ormai abbandonati alle intemperie e mai rimossi, continuano a rilasciare nell’aria pericolose fibre di amianto. Sono diventati luoghi di gioco per i bambini e rifugio per clandestini ed extracomunitari.
La scuola San Giovanni Bosco
In questi giorni abbiamo sentito parlare spesso della scuola San Giovanni Bosco, del 57° circolo didattico di Napoli-Ponticelli, saltata alla cronaca dopo un’inchiesta del quotidiano La Repubblica che, intervistando gli alunni, ha dato ampio spazio ai macabri e violenti dettagli sui roghi dei campi rom. E’ così che si altera la percezione del problema sicurezza in un paese, il nostro, che ormai è incapace di vedere al di là delle proprie paure più immediate. Tra i tanti temi degli studenti, tra i quali ne spiccano tantissimi dove si denunciano gli episodi di razzismo e dove si esprime solidarietà ai loro coetanei nomadi rimasti senza una casa, la giornalista ha scelto quelli che meglio rappresentano l’ipocrisia generale del paese Italia.
“Abbiamo dovuto usare le maniere forti” hanno scritto nei loro temi alcuni bambini della scuola. Siamo consapevoli che si è trattato di un esiguo numero di bambini, rispetto a quanti invece hanno dimostrato di avere maggior senso civico. Quello che è certo invece è che tutti i genitori e gli insegnati dei bambini di quel complesso scolastico sono consapevoli che i loro figli e i loro alunni, anno , anno dopo anno, dall’asilo alle elementari e poi alle medie, respirano giorno dopo giorno fibre di amianto. E non solo loro, ma tutta la popolazione che vive nei dintorni di Via Luigi Volpicella a Ponticelli.
Via Volpicella è infatti la strada dove si trovano i bipiani ed è adicente a Via Angelo Camillo De Meis, dove risiede proprio la scuola del quartiere, la Giovanni Bosco. Purtroppo la vulgata generale che si è mobilitata nel denunciare l’emergenza rom prima e gli episodi di razzismo popolare che ne sono seguiti poi, si è dimenticata di denunciare il razzismo istituzionale che condanna moltissimi bambini, di ogni nazionalità, piccoli studenti di quella scuola a vivere nei bipiani fatiscenti adiacenti al plesso scolastico, respirando giorno dopo giorno la polvere d’amianto che li sta uccidendo lentamente e che si sparge in tutta la zona. Fu un bambino albanese nella primavera del 2003 a scrivere all’allora sindaco di Napoli Rosa Russo Iervolino, denunciando la situazione. Tutto è rimasto immutato.
Petizioni, denunce, richieste sono state fatte anche da parte di alcuni comitati di cittadini e da politici locali, tutte rigorosamente senza nessun seguito, ma non c’è mai stata nessuna azione rabbiosa e violenta come quella messa in moto per liberare in una sola nottata i campi nomadi da quella presenza umana fastidiosa, maleodorante che “è sporca”, “che non lavora” , e che “ruba i nostri figli”.
Nessuna “emergenza sicurezza” per l’amianto, che c’è ma non si vede ( e non ruba i bambini).
Grande assemblea studentesca oggi alla Sapienza. Contro il parere della magistratura, dei politici e delle forze dell’ordine, che all’unanimità parlano di una rissa tra studenti di opposte fazioni e non di un’aggressione neofasciosta premeditata, le istituzioni universitarie, rappresentate al momento dal pro rettore vicario Luigi Frati (per l’assenza del rettore Guarini che da Mosca dove si trova segue comunque la vicenda e approva l’operato del suo vice) si schierano apertamente con i ragazzi dei collettivi di sinistra, condannando l’aggressione subita da tre di loro e chiedendo che venga fatta distinzione tra aggrediti e aggressori. Per Emiliano Marini, infatti, simpatizzante di sinistra, sono stati confermati ieri nel processo per direttissima che si è tenuto insieme ad altri sei giovani, di cui 4 appartenenti a Forza Nuova, gli arresti domiciliari e il processo è stato rimandato a luglio. I suoi compagni ne chiedono oggi a gran voce la liberazione.
Il pro rettore vicario Luigi Frati, sta assumendo un ruolo sempre più importante in tutta la vicenda e significativo e fondamentale appare proprio in questo momento la sua presa di posizione a favore di un’università antifascsita dove la violenza e la prepotenza non possono più essere tollerate. Ieri è stato duramente attaccato da Forza Nuova per queste sue dichiarazioni :”lo stesso sindaco Alemanno, che ha una storia non proprio vicina alla nostra ha condannato apertamente la xenofobia di queste persone…potrebbe essere anche strumentale o quello che vi pare, ma questo rafforza ancora di più le nostre riflessioni”. A nome del preside che rappresento — ha aggiunto Frati — fermiamo ogni forma di violenza e di espressione se accompagnata da qualcuno che ha in mano un pugnale o bastoni. Questi soggetti non possono prendere parola all’interno dell’università”. Ieri pomeriggio inoltre alle ore 18 è uscita dal suo ufficio questa circolare: L’università sta esaminando la possibilità di costituirsi parte civile nei procedimenti giudiziari che riguardano fatti che hanno danneggiato la vita accademica…ribadiamo ancora una volta la linea di garanzia per un confronto libero e civile delle idee e di condanna delle aggressioni e di ogni atto che con la violenza o in nome della violenza vuole imporre idee”.
E’ controverso che l’aggressione compiuta da una squadraccia di venti persone incappucciate, ai danni dei negozi di cittadini del Bangladesh avvenuta qualche giorno fa nel quartiere romano del Pigneto, non abbia una matrice politica come ha reso noto la Polizia. Non c’è ombra di dubbio invece sulla matrice politica che ha guidato l’aggressione di questa mattina agli studenti dei collettivi antifascisti, avvenuta poche ore fa nei pressi dell’Università La Sapienza.
Sembra di essere tornati nella Roma degli anni ’70. Siamo invece nel 2008 e i militanti di Forza Nuova, eredi di quei fascisti picchiatori e assassini, dei quali uno è appena diventato sindaco di Roma, come decenni fa utilizzano ancora mazze, tirapugni e bastoni contro altri giovani, colpevoli soltanto di attaccare dei manifesti per strada.
All’origine dell’aggressione ci sarebbe però la revoca dell’autorizzazione da parte del pro rettore dell’università La Sapienza, al convegno organizzato da Forza Nuova e da Lotta Studentesca che si sarebbe dovuto tenere giovedì prossimo nelle aule della facoltà di Lettere e Filosofia dell’ateneo, dal titolo: “Foibe, l’unica verità contro il negazionismo dei collettivi antifascisti”. Era previsto anche un intervento di Roberto Fiore, segretario nazionale di Forza Nuova.
Gli studenti antifascisti, indignati giustamente dal fatto che nella facoltà si tenesse un convegno organizzato da un partito di estrema destra di chiara matrice neofascista e neonazista, hanno occupato ieri la presidenza della facoltà di Lettere e Filosofia e hanno scritto una lettera al rettore, firmata anche da numerosi docenti, invitandolo a rivedere l’autorizzazione al convegno. Il rettore, preoccuapato che la situazione potesse degenerare e probabilmente influenzato anche da quanto accaduto qualche giorno fa al Pigneto e dal clima di intolleranza e di violenza che si respira in questi giorni nella capitale, ha deciso così di revocare l’autorizzazione.
Nella nottata le vie adiacenti alla facoltà, per ripicca, sono state tappezzate dai militanti di Forza Nuova di volantini di chiara matrice fascista e mentre oggi studenti dei collettivi antifascisti stavano provvedendo a coprirli, è scattata l’aggressione. Da quattro auto sono scese circa venti persone, armate di spranghe, bastoni e catene. Qualcuno parla anche di coltelli. Raccontano i testimoni: “uno aveva la maglietta dei Boys”, un gruppo ultrà della curva romanista notoriamente di estrema destra, “e un altro una croce celtica tatuata sul polpaccio”, “tutti sui trent’anni”.Il bilancio dell’aggressione, avvenuto davanti a decine di persone, è di tre feriti da “codice giallo” , un ragazzo con una spalla lussata altri due con ferite alla testa.
Nel primo pomeriggio è stata indetta presso l’ateneo, da parte dei collettivi universitari un’assemblea e una conferenza stampa.
Il pro rettore ha dichiarato che si tratta di “fatti di un’enorme inciviltà” e che questo dimostra pertanto che l’organizzazione del convegno aveva scopi diversi da quello culturale come di voleva far credere.
Inoltre ha dichiarato di aver messo i manifesti dell’iniziativa a disposizione dell’autorità giudiziaria, in quanto “non è possibile, nel 2008, mettere un pugnale nel proprio simbolo: uno che mette nel suo simbolo un pugnale non ha cittadinanza in questa università”.
di Alessandro Robecchi
Poche righe in cronaca, e nemmeno su tutti i giornali, per l’anziana signora che ha ridotto in schiavitù la badante rumena a Lainate (Milano). A differenza dei delinquenti stranieri (di cui si pubblica nome e cognome), e a differenza dei rapinatori italiani (di cui si pubblicano le iniziali), della signora schiavista non si sa nulla, se non l’età avanzata, 75 anni, e la dignitosa semiricchezza dell’abitazione, una villetta. E così, volendo usarla come metafora, un nome glielo devo trovare io, e la chiamerò Italia. Dunque, la storia: Italia è vecchia. Italia vuole qualcuno che la accudisca essendo i giovani d’Italia incapaci di accudire i vecchi, o svogliati, o scontrosi ed avendo Italia servizi sociali inesistenti. Italia si serve di mano d’opera straniera. Ma Italia fa in modo che questa mano d’opera straniera non conosca i suoi diritti, che sia sfruttata e terrorizzata. Italia non la paga e la ricatta con l’incubo dell’espulsione o dell’arresto. Italia le fa fare la doccia fredda, una volta al mese. Italia le dà da mangiare i suoi avanzi. La rinchiude in un seminterrato. Italia spende poco per pagare la straniera che lavora per lei, ma spende molto in tecnologia per il controllo e la repressione: telecamere a circuito chiuso e addirittura sensori acustici per conoscere i movimenti della sua schiava. Italia usa parole come “serva” e frasi come “è solo una rumena”. Italia ha vicini di casa che conoscono la situazione, ma stanno zitti, perché sono italiani anche loro, complici, in qualche modo figli d’Italia. Il capitano dei carabinieri intervenuto ha descritto bene Italia: “Un mix di cattiveria, ignoranza e razzismo”. Forse qualche mese fa, osando un po’, avrei potuto chiamarla Padania, ma oggi non ho dubbi sul nome da dare alla vecchia schiavista: Italia le sta benissimo, ci canta, per così dire. E non capisco cosa aspettino i governanti d’Italia e la loro melliflua opposizione, a recarsi in blocco fuori dalla villetta di Lainate a intonare qualche canto corale. Per esempio Fratelli d’Italia. Che diamine, un po’ di coerenza!
“Gabri, Nunzia, state molto bene insieme! Grazie per restare qui, ma non è necessario. Se avete qualche invito galante per colazione, Vi autorizzo (sottolineato) ad andarvene!”. “Molti baci a tutte e due !!! Il “Vostro” presidente”.
“Caro presidente… gli inviti galanti li accettiamo solo da lei.… E poi per noi è un piacere essere… (non si capisce il seguito)”
E poi ditemi che il loro Presidente non è un puttaniere e che il il Parlamento non è un puttanaio.
E Gabri (Gabriella Giammarco) e Nunzia (Nunzia De Girolamo) che sono?
E’ una notizia ANSA di oggi. Da due anni alcuni genitori rom non hanno più notizie di 12 bambini che sono stati allontanati dalle loro famiglie dal Tribunale dei Minori di Napoli. Lo denuncia l’europarlamentare ungherese rom Viktoria Mohacsi. Alcuni erano accusati di accattonaggio, ma i genitori non sanno più che fine hanno fatto.
Forse per questo oggi un rom in provincia di Nola, si è recato con altri tre connazionali nella casa famiglia dove alloggiavano i suoi tre figli di un anno e mezzo, tre e sette anni dopo che gli erano stati tolti e portati via dal campo nomadi dove vivevano, ed è fuggito con loro.
e poi dicono che la sinistra non c’è più…
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Una folla di giovani e di meno giovani, di varie associazioni, di sindacati e alcuni esponenti politici, tutti insieme venerdì 9 maggio 2008 hanno rifatto in corteo il presunto tragitto che Peppino Impastato ha fatto trent’anni fa prima di essere ucciso barbaramente dagli uomini del boss di Cinisi Tano Badalamenti. Più o meno 10.000 persone con le bandiere al vento, con i propri striscioni e con i propri slogan per dire che Peppino non è morto invano e che oggi le sue idee non moriranno mai. Il corteo è iniziato da Terrasini davanti la casa, dove Peppino e i suoi compagni avevano la sede della straordinaria Radio Aut, con la quale denunciavano il sistema politico-mafioso di Cinisi. La nipote di Peppino, Luisa Impastato ha distribuito migliaia di fiori, gerbere, donate da un’associazione pugliese, portate dai partecipanti al corteo. Tanta l’emozione di tutti ma tantissima emozione dell’amico di Peppino, Salvo Vitale che ha dato il saluto incazzato per l’avvio del corteo. Da Terrasini a Cinisi un corteo lunghissimo aperto dallo striscione dei compagni di Peppino “La mafia uccide il silenzio pure”. C’erano giustamente i ragazzi di Radio Aut, Libera, l’Arci, Addio Pizzo e tantissimi altri. Il corteo ha sfilato per il lungo mare, dove le tante bandiere rosse e non solo sventolavano al vento, con la musica festosa che risuonava per tutta la spiaggia, mentre atterravano gli aerei diretti all’aeroporto di Punta Raisi. Poi si è passati dal passaggio a livello della strada ferrata, dove la notte tra l’8 e il 9 maggio 1978 Peppino veniva dilaniato dal tritolo. Infine l’entrata trionfale a Cinisi con in testa il fratello Giovanni e i compagni di Peppino, con il corteo che intonava “Bella Ciao”. Mi ricordava la scena del film “I cento passi” quando arriva quella folla di giovani per dare l’ultimo saluto a Peppino e portarlo al cimitero, ma se allora erano in mille dopo 30 anni erano in seimila. Passando dalla Casa Memoria dove Peppino ha vissuto, l’hanno salutato con il pugno alzato e hanno ricordato anche la grande Mamma Felicia. Il corteo si è concluso 100 passi sopra la casa di Tano Badalamenti, dove dal palco prima di tutti ha preso la parola, il compagno Umberto Santino, Presidente del Centro Impastato, il quale ha detto che la lotta di Peppino “è stata culturale, sociale e politica. Oggi è importante non solo per ricordare ma per continuare la lotta alla mafia come sistema di potere”. Ha denunciato il rapporto che esiste tra la mafia e il berlusconismo. “La manifestazione di oggi è riuscita ma stiamo attenti perchè Cosa nostra è alle corde ma molto rimane da fare”. Ha proposto che quella piazza fosse intitolata a Peppino e che la casa di Badalamenti venga confiscata. Poi ha denunciato che “di Cinisari o Cinisensi ce ne sono stati ben pochi come quando feci il comizio dell’11 maggio 2008 al posto di Peppino Impastato che le finestre erano chiuse. Anche nel caso di oggi ciò si è ripetuto”. Ha invitato i Cinisensi a non aver come eroi Tano Badalamenti e i mafiosi ma di aver come eroe Peppino Impastato e Felicia. Poi ha preso la parola Salvo Vitale l’amico di Peppino e presidente della Casa Memoria. Con il suo inconfondibile humor ha detto “ci siamo rotti le balle di fare solo manifestazioni corteo, oggi ha un senso se alziamo lo scontro. Non ne possiamo più. Dobbiamo prendere a modello la resistenza per sconfiggere la mafia”. Ha concluso il fratello Giovanni dicendo che a distanza di 30 anni ce l’hanno fatta perché il messaggio di Peppino è stato recepito dai giovani. Poi ha risposto ai suoi concittadini dicendo che non è ricordando Peppino che si scredita Cinisi ma “ospitando” capimafia come i Lo Piccolo. Poi il 9 maggio si è concluso all’insegna della musica con il concerto. Noi del circolo Arci di “Corleone Dialogos” siamo stati presenti e l’abbiamo sentito come un dovere partecipare perché Peppino è simbolo di chi ha fatto antimafia attraverso anche l’informazione libera e per noi questa rimane la via da seguire ed è vero che le sue idee oggi sono le nostre idee. Grazie Peppino la tua morte non è stata vana.
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Altre foto del corteo si trovano qui, ringrazio gli amici della redazione di Corleone Dialogos
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Ieri, mi sono trovata a passare del tutto casualmente, durante una imprevista quanto piacevole passeggiata, per Via Caetani. Praticamente erano secoli che non passavo di lì.
Devo dire che mi sono emozionata e forse anche commossa, le autorità avevano deposto da poco le loro corone di fiori e qualcuno aveva lasciato un mazzo di lilium accompagnato da una bella lettera scritta a mano indirizzata ad Aldo Moro. Trent’anni dopo. E ho pensato che io avevo pubblicato solo un ricordo a Peppino Impastato, ma nulla che ricordasse anche il trentennale della morte di Aldo Moro. Non so bene per quale motivo, forse perchè ho sempre la tendenza a ricordare prima gli ultimi o a scrivere generalmente più di quello di cui si racconta meno. “Tanto” – mi dico, “agli altri c’è già chi ci pensa”.
Credo anche che niente avvenga per caso, almeno le cose che mi riguardano. E così mi sento, anche se solo con una foto, di ricordare l’uomo Aldo Moro, ucciso dalle Brigate Rosse a Roma il 9 maggio 1978. Forse rimasto oggi anche più solo di Peppino, a differenza di lui, ricordato solo freddamente dalle autorità. Peppino, invece nella sua Sicilia è stato ricordato da migliaia di persone. Lo voglio ricordare, Aldo Moro, anche perchè, almeno per me, non è vero che “ha avuto ciò che si meritava” come ebbe a dire il cardinale Siri, quando gli diedero la notizia della sua morte.
Appartiene al tuo sorriso
l’ansia dell’uomo che muore,
al suo sguardo confuso
chiede un pò d’attenzione,
alle sue labbra di rosso corallo
un ingenuo abbandono,
vuol sentire sul petto
il suo respiro affannoso:
è un uomo che muore.
(Peppino Impastato)
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Questo il Programma del Forum Sociale Antimafia 2008
Fa troppo male all’Italia democratica e moderna un gruppo di nazifascisti che ammazza a sangue freddo un coetaneo per una sigaretta. Ma questa è un’ipotesi confortante, il fatto ben più triste è che quanto accaduto era meglio se non fosse successo, dato il governo che ci ritroviamo.
E allora va messo in atto il piano B. Che consiste:
a) nello spoliticizzare l’accaduto e a questo ci pensano le istituzioni e i mezzi di comunicazione. Ci ha provato Gianfranco Fini, neo presidente della Camera, affermando che è stato più grave bruciare una bandiera che non aver ammazzato un giovane.
b) nel tentativo subdolo e ignobile di trasformare la vittima, nella coscienza di noi tutti, trovandogli pecche, atteggiamenti da poter criticare, qualsiasi appiglio per cui anche a livello giudiziario quanto commesso dagli omicidi possa trovare anche una sola minima giustificazione. E a questo ci stanno pensando i legali degli assassini e di nuovo, i mezzi di comunicazione.
E infatti:
Prima era una sigaretta, Nicola, ieri invece stava già fumando un canna che avrebbe rifiutato ai cinque nazi che lo hanno massacrato. Oggi è tornata per fortuna ad essere una sigaretta. E certo, vuoi mettere la differenza tra uno che fuma una sigaretta e uno che fuma una canna? Un pestaggio si trasforma in una rissa tra balordi. E poi la spersonificazione della vittima. Nicola oggi non è più Nicola, ma semplicemente “codino”. Lo è sui giornali, lo è in rete, lo è stato nei vari TG.
Intanto sembra che avrebbe anche risposto male ai suoi assassini, anzi avrebbe detto a uno di essi: “io ti spacco la faccia”. Quattro di loro si sono avvalsi della facoltà di non rispondere in attesa dei risultati dell’autopsia, ma tutti negano di aver colpito Nicola mentre l’unico che ha parlato è Andrea Visentini. Secondo il suo legale Francesco Delaini, egli avrebbe tentato di sedare la rissa, scoppiata perchè “codino”, con aria minacciosa si sarebbe avvicinato al gruppo dicendo a uno di loro “io ti spacco la faccia”. Anzi, i tre ragazzi, tra i quali la vittima stavano, quando gli è stata chiesta la sigaretta, “cercando inutilmente di entrare spingendo la porta chiusa” di un locale, un bar in Vicolo Leoni. Speriamo che non va a finire che i cinque nazi hanno massacrato Nicola per impedirgli di effettuare una furto con scasso al bar.
Capisco che in questo consista il lavoro degli avvocati, ma almeno un po’ di rispetto per i morti per favore e vergogna!