Delta del Niger: il conflitto continua

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di Edo Dominici per A Sud
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Nigeria: Delta del Niger, combattimenti proseguono, ma per il governo “conflitto finirà presto”. Mend: Abbiamo fatto esplodere due oleodotti e cinque “flow-station”della Chevron. Eni – 50 mila barili /giorno. Il governatore del Rivers State: “Militanti combattono per una giusta causa”.
 
Secondo i quotidiani locali, sarebbero più di mille e cinquecento le persone appartenenti a diverse comunità della regione, in gran parte civili, uccise nei primi dieci giorni dell’offensiva dell’esercito nigeriano. È impossibile verificare la situazione nei villaggi della regione, dove ci sarebbe i civili morti e migliaia di rifugiati, poiché l’accesso ai luoghi teatro dell’operazione militare è fortemente limitato. Il Mend nella notte ha fatto saltare due oleodotti e cinque stazioni di pompaggio della Chevron. Scaroni (ENI) “Abbiamo chiesto la force majeure su 50.000 barili” in Nigeria.
 
Le forze armate della Nigeria hanno reso noto nel fine settimana di aver liberato diversi cittadini filippini in ostaggio dei gruppi ribelli, ma in un comunicato diffuso oggi il Mend ha smentito questa informazione, chiarendo di aver rilasciato tre ostaggi filippini come annunciato in un precedente comunicato.
Nella nota del Mend si legge anche ”Attorno alle 2 di oggi  combattenti del Mend hanno distrutto importanti tronconi degli oleodotti. L’impianto della Chevron nel Delta del Niger e’ fuori uso. Colpite anche 5 stazioni di pompaggio per bloccare il rifornimento di greggio agli impianti della società petrolifera Chevron”. Le stazioni di pompaggio colpite sono quelle ad Alero Creek, Otunana, Abiteye, Makaraba e Dibi. Nel testo si afferma che questa sarà ora “la modalità standard” delle operazioni del Mend, in risposta alle operazioni delle forze governative nell’area. La notizia trova successive conferme, prima nelle dichiarazioni dell’Amministratore Delegato dell’ENI, Paolo Scaroni, che questa mattina, a margine del G8 Energia ha dichiarato: “Abbiamo chiesto la force majeure su 50.000 barili” in Nigeria, in seguito agli attacchi che hanno riguardato l’area del Delta del Niger. “Per ora sappiamo poco, quello che sappiamo e’ che hanno attaccato un impianto Chevron”, ha aggiunto Scaroni, spiegando di non poter prevedere l’impatto dell’ultima ondata di attacchi del Mend.
Sempre questa mattina i  militari nigeriani hanno confermato gli attacchi agli oleodotti della regione, rivendicati dal Mend in risposta all’offensiva militare contro i militanti.

“Vogliamo informare il pubblico che … (il leader del Mend) Kingsley Opuye e il suo gruppo di militanti hanno fatto esplodere questa mattina il gasdotto della Chevron a Abiteye. Si tratta di un atto di sabotaggio che non potrà essere perdonato” ha detto il portavoce della Joint Task Force militare nella regione, Col. Rabe Abubakar.

 
Nella nota il Mend sostiene che i suoi militanti sono rientrati senza colpo ferire nel cosiddetto “campo 5”, che l’esercito aveva riferito di aver conquistato nei giorni scorsi e dove secondo i servizi di sicurezza si nascondeva uno dei leader del Movimento, Government Ekpemukpolo conosciuto come “Tompolo”.
“L’Unità speciale dell’esercito nigeriano (Joint task force, Jtf) – si legge nella nota firmata dal portavoce del Mend, Jomo Gbomo – ha inseguito le ombre nelle ultime due settimane e non ha ottenuto alcun successo militare, noi continueremo con la nostra tattica del gatto con il topo finché non cesserà del tutto l’esportazione di petrolio”.
 
Intanto il Parlamento nigeriano (la camera bassa) ha votato una mozione che richiede al Presidente Yar’Adua di estendere gli attacchi delle forze speciali dell’esercito (JTF) ai campi del Mend ( che secondo diversi rapporti sono circa 500) in tutti gli Stati del Delta.
 
Torna a farsi vivo anche il Vice-presidente nigeriano di origine Ijaw, Goodluck Jonathan, le cui dimissioni sono state chieste nei giorni scorsi da diverse personalità di spicco della comunità Ijaw (14 dei 20 milioni di abitanti del delta sono di etnia Ijaw) e dal portavoce del JRC (Join Revolucinary Council) Cynthya White, che coordina l’attività dei gruppi armati. Durante la visita in Nigeria del primo ministro francese Francois Fillon,  la seconda carica dello Stato nigeriano, in una dichiarazione all’agenzia di stampa nazionale Nan, ha detto che il conflitto nella regione ricca di petrolio finirà nei prossimi giorni.(?!?). “Il governo – avrebbe dichiarato Jonathan – non ha intenzione di punire nessuno, ma piuttosto integrare le popolazioni della regione per gestire tutti insieme le risorse, che siano essi militanti o giovani”.
 
Forte invece la presa di posizione del governatore dello Stato del Rivers, Chibuike Rotimi Amaechi, che durante un incontro con gli ambasciatori stranieri e con i governatori degli stati del Delta del Niger ha dichiarato “i militanti combattono per una giusta causa”. “I militanti del Delta del Niger sono stati costretti a impugnare le armi contro lo Stato dai lunghi anni di emarginazione, ingiustizia e dalla mancata attuazione di politiche in materia di sviluppo della regione”.
 
La confusione delle notizie, vere o presunte tali, regna sovrana. Due soli dati certi: la produzione nigeriana di petrolio, secondo le dichiarazioni dello stesso Ministro del petrolio, è dimezzata, e gli attacchi continuano, con effetti catastrofici sull’intera economia nigeriana. Migliaia di civili innocenti continua a soffrire per gli sconsiderati attacchi della JTF, che cerca di risolvere “manu militari” un problema essenzialmente politico. Che ruolo giochino le potenti ed in fluentissime major petrolifere sul conflitto in corso non è dato sapere.
 
Altra notizia certa riguarda l’ENI, che in Nigeria potrebbe produrre circa 150 mila barili al giorno, la Società italiana già nei mesi scorsi non riusciva a produrre più di 120–125 mila barili a causa dei danni agli impianti causati dagli attacchi. La scorsa settimana era stata dichiarata la clausola di “force majeure” per 9 mila barili, se sommiamo i 50 mila di questa mattina e facciamo due conti ci accorgiamo che la compagnia petrolifera “guidata” dallo Stato stà perdendo ogni giorno metà della sua produzione prevista… in silenzio, in mezzo a un conflitto. Ma i tanto decantati rapporti dell’Eni con le “comunità locali” ?
 
 

Delta del Niger: il Mend dichiara l’inizio di ” una grande guerra del petrolio”

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“…Loro vivono lì e noi qui. Già. Oggi mentre tornavo a casa guardando gli stranieri ed in particolare gli africani alle fermate dell’autobus pensavo che una volta si andava dall’Europa a prenderli con le navi mentre ora per diventare “schiavi” come i loro antenati devono pure pagarsi il viaggio su barconi fatiscenti…Così va il mondo, purtroppo, nell’indifferenza generale, in una sorta di egoismo legalizzato e il dramma che ogni giorno va in scena in tutti i Delta del Niger del mondo sembra proprio non appartenere a nessuno…” (un commento sul sito Portametronia)
di Edo Dominici per A Sud
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Nel Delta State l’esercito attacca un campo del Mend sarebbero almeno 200 i militanti uccisi, tra loro potrebbe esserci Government Ekpemukpolo alias Tompolo . Ucciso da un “colpo vacante sparato dall’esercito” uno degli ostaggi filippini.
 
Una giornata di combattimenti e comunicati, di morti reali o presunti ‚di vittorie schiaccianti e di smentite, in una regione nella quale i giornalisti non sono tollerati dall’esercito e dove spesso anche i rari quotidiani locali hanno difficoltà a verificare sul campo quanto sta realmente accadendo. Il bilancio degli scontri di venerdì, secondo il Vanguard , tra civili, soldati e militanti potrebbe essere di oltre 250 morti.
Il Movimento per l´emancipazione del delta del Niger (Mend) oggi ha ribadito la dichiarazione di «guerra totale» in tutta la regione del Delta del Niger.
 
«Il Mend dichiara guerra nella regione e invita tutti gli uomini adulti a sostenere la lotta per la nostra libertà – si legge in una dichiarazione pubblicata dai media nigeriani — Le forze armate nigeriane venerdì hanno eseguito bombardamenti aerei indiscriminati sulla popolazione civile inerme nella zona di Gbaramatu nel Delta State come punizione per l´umiliante sconfitta subita quando mercoledì 13 maggio quando i reparti della JTF (le forze speciali dell’esercito nigeriano) hanno cercato di assalire con un raid due campi di militanti.
 
Le vittime del bombardamento sono soprattutto donne, bambini e anziani che non sono potuti fuggire rapidamente nella boscaglia o in mare aperto. Considerato che questi sono i bersagli presi di mira dal governo per difendere la sua falsa pace e la finta proposta di amnistia, il nostro scetticismo si è rivelato più che corretto. Ribadiamo ancora una volta il nostro ordine a tutte le compagnie petrolifere di evacuare entro il termine della mezzanotte di oggi (Venerdì) e di cessare la produzione di petrolio fino a nuovo avviso. Questa è l´ultima volta che un tale avviso viene rilasciato».
 
Oggi la marina e l’esercito nigeriano hanno nuovamente attaccato i militanti del Campo 5 del Mend, comandato da Tom Polo, lungo il Chanomi Creek nel Delta, lo stesso attaccato mercoledì . Secondo Jonjon Oyeinfe, ex leader del Ijaw Youth Council, scontri sono in corso anche sul fiume nelle vicinanze del terminale della Chevron di Forcados.
 
Il portavoce dell’esercito, il colonnello Rabe Abubakar ha detto che le forze armate nigeriane hanno attaccato il Campo 5 con mezzi pesanti compresi cannoni e copertura aerea «per scovare i criminali dopo il dirottamento di due petroliere (tra cui la MV Spirit), gli attacchi contro i soldati e le minacce alle imprese petrolifere perché evacuassero il loro personale nel corso degli ultimi giorni. La task force militare non può alzare le mani e consentire che questo tipo di eventi continuino».
 
Secondo il portavoce dell’esercito l’operazione ha avuto inizio a Oporoza dove c’era poca resistenza all’attacco dei militari. Il conflitto a fuoco è avvenuto dopo che i militanti hanno lasciato il grande Campo 5.
Dopo il raid ad Oporoza i soldati si sono trasferiti vicino Kunukunuma e Okerenkoko, tutto intorno alle insenature di Chanomi dove i militanti si sarebbero ritirati.
 
Secondo il colonnello Abubakar il comandante dei militanti del Campo 5 Government Ekpemukpolo alias Tompolo potrebbe essere rimasto ucciso, ma la notizia non può essere verificata. Sempre secondo il portavoce militare i militanti uccisi sarebbero più di 200.
 
In serata Jomo Gbomo portavoce del Mend ha comunicato che durante l’attacco uno degli ostaggi, tutti di nazionalità filippina, è rimasto ucciso colpito da una pallottola vacante sparata dall’esercito.
Intanto la direzione della Shell Petroleum Development Company (SPDC) ha riferito che ha cominciato ad evacuare il proprio personale dalla travagliata area mentre la Chevron Nigeria Limited (CNL) ha dato delle restrizioni alla circolazione dei lavoratori all’interno degli impianti.
 
Difficile dire cosa sta realmente accadendo e dove possa portare questo conflitto. Tra comunicati e smentite di vittorie vere o presunte c’è la certezza di 20 milioni di civili che vivono con meno di un dollaro al giorno in una zona ricchissima di petrolio e sono spesso loro le vittime inermi del conflitto che ormai rischia di coinvolgere tutte le comunità e gli Stati del delta del Niger.
 
In questi tre giorni i combattimenti si sono svolti tutti nel Delta State, ora il rischio concreto che la “guerra del petrolio” si estenda agli altri Stati della regione è sempre più concreto, soprattutto nel Bayelsa e nel Rivers dove ci sono numerosi gruppi affiliati al Mend.
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Questa invece è un’agenzia Apcom sulla situazione rispetto all’Italia:
Roma, 13 feb. (Apcom) - Il Movimento per l’emancipazione del Delta del Niger (Mend) rilancia gli attacchi contro la compagnia petrolifera italiana Agip in Nigeria e alza il tiro parlando di una “grande guerra del petrolio”. “Il Movement for the Emancipation of the Niger Delta (Mend) è venuto a sapere che un individuo senza scrupoli chiamato ‘Octopus’ (piovra) ha rassicurato l’Agip di poter sventare l’attacco programmato contro le aziende italiane sul Delta del Niger”, ha affermato il portavoce dei ribelli, Jomo Gbomo, in un’email inviata ad Apcom. Quest’uomo — prosegue Gbomo — è la stessa persona che ha “pagato un riscatto con l’aiuto della famiglia Daukoru e il primo pronto a negare pubblicamente di aver pagato un riscatto”. Il portavoce si riferisce a Gladys Daukoru, la moglie dell’ex ministro dell’Energia, Edmund Daukoru, rapita a inizio febbraio a Port Harcourt e rilasciata pochi giorni dopo, secondo il Mend, grazie al pagamento di un riscatto di 2,5 milioni di dollari. Per fugare ogni dubbio, Il movimento dei ribelli nella mail, sottolinea: “Vogliamo ribadire ancora una volta la nostra determinazione a danneggiare gli affari italiani a tempo debito”. Il Mend afferma di aver respinto l’offerta di denaro e la richiesta della “piovra” e dei suoi soci criminali dentro l’Agip per rovesciare la decisione. E non finisce qui. Nel mirino del Mend c’è ancora il ministro degli Esteri Franco Frattini, in tour in Africa in questi giorni: “E’ piuttosto spiacevole che invece di venire in Nigeria con un ramo d’olivo, il ministro italiano abbia scelto di venire con un ‘regalo greco’ che porterà ora a una grande guerra del petrolio”. Le sue affermazioni mostrano chiaramente, ha concluso Gbomo, che “il governo italiano ha scelto ancora una volta di stare con la parte sbagliata come fece Mussolini”. Quando la guerra sarà terminata e il Delta del Niger “emancipato”, il Mend “ricorderà solo quei paesi che sono stati dalla parte della giustizia”.

Appello agli studenti per boicottare Israele

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Questa lettera è presa dal sito Boicotta Israele, e sarebbe utile farla circolare come meglio si può… attaccarla nelle bacheche delle scuole, ai cancelli o davanti gli ingressi dei parchi. Insomma… impariamo l’importanza dei boicottaggio ! e magari riprendiamo anche quelle belle usanze dell’attacchinare e volantinare in quartiere, nei propri posti di lavoro, nelle scuole… (Grazie Vale! : - ) )

di Boicotta Israele

 

 

Tra qualche giorno, care ragazze e ragazzi delle scuole elementari e medie avrete finito questa fatica. Sarete sicuramente promosse e promossi, ma se anche dovesse esserci qualche complicazione, qualche piccolo inciampo… suvvia non sarà la fine del mondo. Avete una vita davanti e tutto il tempo per recuperare brillantemente qualsiasi rallentamento e andare ancora più avanti. 
Alla vostra età si ha il tempo dalla propria parte, è un prezioso alleato il tempo, non dimenticatelo.  
 
Comunque vada sarà stato un anno importante. Avete imparato tante cose, fatto conoscenze interessanti, avete approfondito conoscenze precedenti…  
 
Ricordate? Ogni mattina vi recavate, casomai un po’ insonnolite/i, con i vostri libri, quaderni, matite, pennarelli, che poi utilizzavate per trascorrere ore piacevoli e interessanti… Fermiamoci qui un momento e pensiamo: siamo sicuri che per tutti i bambini e le bambine del mondo ogni mattina era così ?  
 
Macchè! Sono 100 milioni (fonte-Unicef) i ragazzi e le ragazze che non hanno la possibilità di andare a scuola: guerre, povertà, oppressione…  
 
Prendiamo un esempio non lontano da noi: i vostri fratellini e sorelline palestinesi (sono duecentomila a Gaza) anche quando le bombe avevano smesso di cadere e nessuno sparava più, non potevano andare a scuola con i libri, quaderni, matite negli astucci colorati. Perchè?  
 
Semplicemente perché i burocrati del governo di Israele, che mantiene uno stretto controllo su questa piccola striscia di terra lungo il Mediterraneo e sui suoi abitanti, anche dopo il ritiro dei coloni israeliani nel 2005, ritiene che la carta e l’inchiostro non siano “bisogni umani fondamentali”… e questa non è una bella cosa.  
 
Anzi è una cosa talmente brutta che bisogna mettercela tutta per farli smettere.  
 
Si può fare qualcosa? Certo! Dite ai vostri genitori, per esempio, di non comprare più i prodotti israeliani, che sono quelli che hanno il “codice a barre” che inizia con 729.  
 

Per maggior informazioni leggi qui.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Ruanda 1994, quindici anni fa il genocidio

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Ringrazio Antonello Mangano e l’ottima redazione di Terre Libere per la segnalazione.

Rimando al sito di Terre Libere per ogni approfondimento sull’argomento. Qui una pagina completa ed esauriente.

Quindici anni fa si compiva nel cuore dell‘Africa il terzo genocidio del Novecento, dopo quello di armeni ed ebrei. Emmanuel Murangira, il guardiano delle ossa di Murambi, la scuola dove, il 21 aprile del 1994, furono massacrati 50.000 ruandesi, racconta la sua drammatica esperienza di sopravvissuto a quel massacro accusando gli assassini e denunciando le responsabilità dell’Occidente … (leggi tutto)


Il Vertice delle Americhe e il Vertice dei Popoli di Trinidad e Tobago: La riappacificazione tra i potenti di sempre e i “discoli” passa sulla testa dei soggetti realmente antagonisti

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Tito Kayak sulla statua della LibertàNell’entusiasmo generale che ha accompagnato il Vertice delle Americhe di Trinidad e Tobago, è sfuggito agli osservatori internazionali che hanno seguito con trepidazione forse eccessiva l’incontro e la “storica”  stretta di mano tra il neo presidente degli Stati Uniti Barack Obama e quello del Venezuela Hugo Chávez, che alcune ore prima, mentre i media internazionali si beavano di un’atmosfera  festosa da inizio di nuovo mondo, all’aeroporto dell’isola venivano arrestati senza nessuna  spiegazione alcuni rappresentati dei movimenti antagonisti sociali latinoamericani che erano appena arrivati   per partecipare al contro Vertice dei Popoli, la risposta organizzata dei  movimenti  al Vertice istituzionale dei capi di Stato.
 
Le delegazioni fermate sono state quelle del Brasile, del Venezuela, di Cuba e di Porto Rico. Questi due ultimi paesi sono i due grandi esclusi dal Vertice delle Americhe, sebbene i riflettori come ogni anno  siano accesi più sull’assenza  di Cuba (che alla fine si trasforma di fatto in una grande presenza a livello mediatico) che su quella  di Porto Rico.  
 
Ai delegati di questi paesi, appartenenti a diverse associazioni latinoamericane sono stati sequestrati i passaporti e dopo essere stati trattenuti  alcune ore in stato di fermo senza nessuna giustificazione né motivazione,  sono stati rilasciati  con la minaccia  che se avessero organizzato qualunque tipo di manifestazione sarebbero stati arrestati nuovamente ed espulsi dal paese.
 
Diversamente è andata però ad uno degli appartenenti della delegazione di Porto Rico, le cui già note forme di protesta pacifiche ma spettacolari e di grande impatto hanno sempre riscosso grande simpatia. Alla notizia infatti  dell’arrivo all’aeroporto del leader   ambientalista  Alberto de Jesús,alias Tito Kayak,  militante del gruppo ambientalista Amigos del M.A.R (Movimiento Ambiental Revolucionario) la polizia locale di Trinidad e Tobago in sinergia  con l’FBI ha preso contro di lui  misure straordinarie  e gravemente lesive della libertà di movimento e del diritto di protesta pacifica delle persone.
 
Tito Kayak è stato accolto al suo arrivo all’aeroporto di  Trinidad e Tobago  da un nutrito numero di poliziotti armati fino ai denti che lo hanno ammanettato appena sceso dalla scaletta dell’aereo davanti a tutti gli altri passeggeri.
 
“Non so perchè mi hanno arrestato” ha commentato Kayak. “”Non potevano permettere che la mia presenza in nessun modo rovinasse quello che si sarebbe celebrato il giorno dopo” ha detto in un’intervista.
 
Tito Kayak da anni porta avanti una lotta del tutto pacifica, ma espressa sempre spettacolarmente,  per chiedere  l’indipendenza di Porto Rico dagli Stati Uniti, sotto il cui dominio  si trova dal lontano 1898, dal tempo della guerra Ispano-Americana.
 
Nel 2005 fu arrestato per aver cercato di togliere  la bandiera degli Stati Uniti sostituendola  con  quella di Porto Rico dalle aste davanti agli Uffici delle Nazioni Unite a New York; sempre nello stesso anno si è arrampicato sulla Statua della Libertà e nel suo paese e nell’intera area caraibica è conosciuto per le proteste ambientali e politiche che compie sul suo kayak.
 
Ha detto Tito che non gli sono stati spiegati i motivi del suo arresto durato una intera notte a Trinidad e Tobago e che al mattino seguente è stato rimesso su di un aereo che lo ha riportato a Porto Rico senza nemmeno avergli riconsegnato il passaporto. Al suo arrivo è stato interrogato a lungo da un agente dell’FBI.
 
“Non ci sono dubbi che dietro quanto accaduto ci sia il governo statunitense” ha dichiarato con convinzione  Tito Kayak. Il grande show del vertice delle Americhe non poteva essere rovinato dalla presenza di un pacifista ambientalista già noto per le sue proteste improvvise e spettacolari.
 
L’agenda del Vertice delle Americhe come sempre viene stabilita dagli Stati  Uniti e se era stato deciso che questo era il momento di accendere i riflettori sull’incontro tra  Obama e Chávez e sull’apertura verso Cuba, non sarebbe stato permesso  nessun  “fuori programma” che avesse portato l’attenzione su problematiche sulle quali l’amministrazione di Obama non ha ancora deciso di prendere posizione, come per esempio la richiesta di indipendenza di Porto Rico.  
La riappacificazione tra i potenti di sempre e i “discoli” (Chávez ma anche Raúl Castro) passa sempre sulla testa dei soggetti realmente antagonisti che non ci stanno a subire un’agenda dettata dall’opportunismo del momento e dalle convenienze economiche.
 
Gli antagonisti di sempre riuniti nel Vertice dei Popoli che si è svolto regolarmente nonostante i tentativi del potere di boicottarlo e cancellarne la presenza delle sue voci più significative, hanno discusso di crisi economica, di ambiente, di alimentazione, di cultura, di disarmo.
 
Hanno convenuto che al pari dell’analisi delle cause della crisi economica attuale è importante mettere in atto strategie appropriate per affrontarla.
 
Sono state denunciate  realtà dove ancora viene applicata  una schiavitù di tipo moderno e dove gli immigrati, vengono sfruttati in condizioni disumane, concludendo che la globalizzazione e le sue politiche economiche stanno alla base dei moderni e massicci fenomeni migratori.
 
Hanno chiesto che sia Cuba ma anche Porto Rico vengano ammessi a partecipare ai vertici internazionali, e per la piccola  colonia a stelle e strisce è stata chiesta l’indipendenza.
 
I popoli, i veri attori di questo vertice, le donne e gli uomini latinoamericani, i giovani studenti, gli operai,  i sindacalisti, i contadini e gli indigeni hanno chiesto che la loro terra sia smilitarizzata, che vengano smantellate le basi militari, che la IV Flotta degli Stati Uniti di pattuglia nella regione lasci le acque del Mar dei Caraibi, che vengano rispettate le garanzie e i diritti individuali e dei popoli calpestati dagli Stati nel nome della politica di “sicurezza democratica”.
 
Hanno chiesto di essere ascoltati, hanno concluso che “ascoltare i popoli ed operare in funzione dei loro interessi e non dei guadagni di pochi è l’unica via di uscita alla crisi, durevole, sostenibile e che va nel senso di un’America più giusta”.
 
Vedi la fotogalleria di Tito Kayak 
 

26 marzo: Giornata Internazionale della Resistenza Armata

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Si sono conclusi in Venezuela, a Caracas,  il  26 marzo,  dichiarata “Giornata  Internazionale della Resistenza Armata”,   gli incontri della  Scuola Continentale di Formazione  Marxista “Manuel Marulanda”, organizzati dalla Coordinadora Continental Bolivariana (CCB).
 
Come è noto  la Coordinadora Continental Bolivariana, (in via di trasformazione in Movimiento Continental Bolivariano), è un coordinamento latinoamericano che,  solidale con le lotte di liberazione delle popolazioni oppresse e vicino  ai movimenti sociali, organizzazioni contadine, indigene e sindacali della regione, non ha mai discriminato forme diverse di lotta, a partire da quella armata. Semplicemente,  in alcune particolari condizioni di sfruttamento e oppressione si considera che questa sia un diritto inalienabile dei popoli, una “risposta possibile a pressioni sociali ricorrenti e ingiuste” come ha dichiarato lo scrittore e analista politico messicano Carlos Montemayor in questa intervista rilasciata qualche mese fa a chi scrive.
 
La scuola Continentale di Formazione Marxista  Manuel Marulanda vuole essere uno spazio permanente e  un momento importante di formazione per quadri di base e quindi per tutti quei rappresentanti sindacali, contadini, difensori dei diritti umani  o semplici militanti affinché possano operare e attuare richieste e trasformazioni nella società consapevoli del loro ruolo e della loro missione. Partire dallo studio dei classici del marxismo e delle esperienze rivoluzionarie internazionali,  può essere un momento importante di riflessione in questo periodo di crisi del capitalismo e del neoliberismo, ma soprattutto deve essere uno strumento valido per coloro che hanno deciso di fare della politica e della propria militanza un’opportunità per tutta  la collettività.
 
I lavori e gli incontri della scuola sono stati inaugurati  il 20 marzo scorso  dall’intellettuale  marxista argentino Nestor Kohan con una conferenza sul tema “Materialismo, Dialettica, e Filosofia  della Prassi”. (Qui una sua intervista in italiano rilasciata alla agenzia ABP)
 
Carlos Casanueva Troncoso, segretario generale della CCB e dirigente del Partito Comunista del Cile, introducendo i lavori ha salutato la vittoria del FMLN nelle ultime elezioni presidenziali in El Salvador e  ha dichiarato che nonostante fosse prevista ai seminari una partecipazione di circa  60 persone,  le presenze registrate sono state ben superiori alle 250.
 
Sono intervenuti apportando contributi importanti nonché la loro  personale esperienza di militanti e rivoluzionari, oltre ad Amilcar Figueroa del Parlatino, Paul del Río, presidente del Cuartel San Carlos, Narciso Isa Conde della presidenza collettiva  della CCB, anche numerosi delegati e rappresentanti del Partito Comunista del Venezuela, mentre Iñaki Gil de San Vicente de Heuskal Herria, della presidenza collettiva della CCB, non potendo essere presente per motivi di salute al seminario,   ha inviato la sua esposizione sul tema: Marx e tutte le forme di lotta, la violenza e l’aspetto militare in Marx.
 
Le attività della scuola e gli incontri non potevano non essere caratterizzati da un forte appoggio solidario con la lotta dell’insorgenza colombiana delle FARC  e grande enfasi è stata data alla figura del leader guerrigliero colombiano deceduto proprio il 26 marzo dell’anno scorso, Manuel Marulanda, alias Tirofijo.
 
Lo stesso tema della vigenza della lotta armata e della sua legittimità, che accesi dibattiti e opinioni controverse suscita anche nel nostro continente, è stato indubbiamente centrale a quasi tutti i seminari ed è stato l’argomento principale del foro conclusivo sulla “combinazione di tutte le forme di lotta e la violenza in Carlo Marx”  tenutosi simbolicamente nel Cuartel San Carlos, centro di detenzione e tortura soprattutto negli anni ’70 ma in uso fino a tutto il 1994 (vi fu rinchiuso nel 1992 anche Hugo Chávez).
 
Gli incontri si sono conclusi con un corteo autorizzato dal municipio Libertador verso la piazza Marulanda dove un busto del guerrigliero è stato inaugurato lo scorso mese di ottobre.
 
Al riguardo ha segnalato Narciso Isa Conde che questa commemorazione è stata possibile nell’ambito dello spazio dell’autonomia di alcune organizzazioni del potere popolare e che “una cosa sono le relazioni tra gli stati e un’altra l’esercizio del diritto dei popoli all’interno di tali stati”.
 
Percorsi diversi caratterizzano il Venezuela di oggi, sempre sospeso tra passato e presente ma sempre più deciso a partire dalla base, in un percorso che trova riscontro anche nelle istituzioni,  a ridare dignità al popolo. Perchè no? Partendo anche da quei simboli che nel bene o nel male hanno segnato la cultura di una intera regione.
E così mentre si accoglie una scuola di pensiero marxista che legittimi il diritto dei popoli all’insorgenza (diritto riconosciuto come inalienabile in altre diverse situazioni geopolitiche) o si innalzano busti a Manuel Marulanda o a Che Guevara o a  Emiliano Zapata, viene rimossa la statua di Cristoforo Colombo dal parco del “Calvario”.
 
E non si tratta di “riscrivere” la storia come la miopia tutta eurocentrica di Rocco Cotroneo vorrebbe far credere ai lettori del Corriere della Sera, ma semplicemente  di restituire centralità alla consapevolezza della realtà storica latinoamericana   e quindi di viverla  finalmente da protagonisti e non da soggiogati, in un percorso che vuole essere più sociale che storico, più culturale che politico.
 
Non si tratta di un “richiamo alle origini indigene del Venezuela, evidente nei tratti somatici del suo comandante” come sottolinea il Cotroneo con una punta di razzismo, ma della rivalutazione delle figure eroiche continentali che fino a questo momento sono state oscurate e nascoste dall’iconografia occidentale dominante.
 
E se finalmente il 12 ottobre legittimamente potrà essere  chiamata “Giornata della resistenza indigena”, allora salutiamo con la simpatia che nutriamo da sempre per tutti i popoli oppressi, il 26 marzo “Giornata Internazionale della Resistenza Armata”. 
 

Le uniformi di Tsahal

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Le magliette di moda nell’esercito israeleiano: “meglio ammazzarli da piccoli”.

La denuncia scioccante viene dal quotidiano israeliano Haaretz. Ai soldati israeliani piace andare in giro con magliette che superano i classici simbolismi del militarismo per addentrarsi nella guerra del futuro, quella asimmetrica nella quale il protagonista è il cecchino onnipotente con la testa vuota che ammazza civili, meglio se donne e bambini.

E questo si riflette nella moda, nell’abbigliamento dei soldati di Tsahal. Sembra vadano a ruba le magliette con disegni di bambini presi nel mirino, oppure madri piangenti sulle tombe dei figli oppure t-shirt come quella nella foto che mostra una donna palestinese incinta e lo slogan: “con un tiro due piccioni”.

Tutte le scritte sono per “uomini veri”, notevole per un esercito che fa dell’integrazione delle ragazze motivo d’immagine. I riferimenti sessuali, perfino allo stupro, sono continui come sono continui quelli alla maternità “piangeranno, piangeranno”. A una maglietta che mostra un bimbo ammazzato si accompagna un “era meglio se usavano il preservativo”. A quella con un bambino palestinese nel mirino si accompagna un “non importa quando si comincia, dobbiamo farla finita con loro” che suona in italiano come “meglio ammazzarli da piccoli”.
Leggi tutto il reportage di Haaretz qui e conserva questo link per la prossima volta che ti diranno che i palestinesi educano i figli alla cultura dell’odio.

Non ne avete diritto…

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22 marzo: poco da festeggiare
di Sara Vegni – A Sud
 
 
Istanbul si chiude oggi il V World Water Forum, organizzato, come le edizioni precedenti di Marrakech, L’Aja, Kyoto, Città del Messico, dal World Water Council, un think-tank internazionale di governi, esperti, ong e agenzie intergovernative sponsorizzato e di fatto guidato dalle più grandi multinazionali del settore idrico.
 
Nato su iniziativa della Banca Mondiale per affrontare la crisi idrica globale e per realizzare gli obiettivi del millennio, comprendenti la riduzione della sete nel mondo, propone come soluzione le stesse politiche che questa crisi hanno creato: la considerazione dell’acqua come merce, sottoposta alle regole di mercato e la costruzione di grandi infrastrutture che colpiscono ecosistemi e comunità. Del resto l’attuale presidente del World Water Council Loïc Fauchon è allo stesso tempo presidente della Société des Eaux de Marseille, di proprietà di Suez e Veolia, rispettivamente 70 e 110 milioni di clienti nel mondo, le più grandi multinazionali dell’acqua.
 
Dal 2003 il Consiglio si è aperto ad un numero sempre maggiore di attori ma ancora oggi rimane saldamente nella mani del settore privato che conta il 41% dei membri, una percentuale significativa comparata con le istituzioni accademiche (27%), i governi (17%), le organizzazioni non governative (10%) e quelle internazionali intergovernative (5%).
 
Il forum in tutte le passate edizioni, e questa non fa eccezione, propone e porta avanti la privatizzazione delle risorse idriche del pianeta. Ma oggi il contesto globale appare certamente mutato, con un numero sempre maggiore di Stati riconoscere attraverso interventi legislativi l’acqua come bene comune indisponibile al mercato. In Ecuador e Bolivia il diritto all’acqua viene addirittura sancito nelle nuove Costituzioni votate e adottate dai paesi Andini come simbolo della difesa non solo della sovranità nazionale ma come proposta capace di mettere al centro delle relazioni e del ruolo degli Stati la difesa della vita e dei diritti.
Già in occasione dell’edizione del Forum tenutosi a Città del Messico nel 2006Uruguay, Bolivia, Venezuela e Cuba, firmarono congiuntamente una dichiarazione per chiedere che un reale processo democratico, trasparente e aperto si sostituisca al World Water Forum.
 
Ma la macchina del Forum, incurante del mutato scenario e della crisi globale che è innanzitutto crisi ambientale e quindi idrica, è andata avanti e per l’edizione del 2009 ha scelto la Turchia come paese ospite. E la Turchia rappresenta un terreno di sperimentazione privilegiato per le politiche degli oligopoli mondiali dell’acqua.
 
Da tempo infatti questo paese ha aperto ai privati la gestione dei servizi idrici e attualmente sta elaborando una legislazione per consegnare al mercato anche le fonti d’acqua. In altre parole, la proprietà delle stesse fonti idriche potrebbero essere trasferite nelle mani dei grandi interessi privati che già oggi gestiscono la distribuzione dell’acqua per il consumo umano.
 
Ma non solo. È evidente che parlare di politiche dell’acqua non significa solo concentrarsi sul diritto all’accesso all’acqua degli esseri umani. L’acqua rappresenta un paradigma trasversale collegato inesorabilmente con altri beni comuni universali come terra, cibo, energia, biodiversità, spazio bioriproduttivo e rappresenta un fattore geopolitico cruciale.
 
Riguarda anche la scelta di progetti infrastrutturali come le grandi dighe che erodono spazi vitali ed agricoli, responsabili di milioni di sfollati ambientali e di danni incalcolabili agli ecosistemi fluviali. Un passivo ambientale e sociale che rimane ancora fuori dai bilanci delle multinazionali e dagli interessi di molti Stati, più preoccupati a fare affari che a garantire diritti.
 
Una delle regioni del mondo più colpita da questi progetti è il Kurdistan turco, zona estremamente ricca d’acqua. Ed è proprio per la sua ricchezza che questa regione è stata scelta come il luogo “ideale” per la realizzazione del mega-progetto che prevede la costruzione di dighe GAP.
 
GAP è l’acronimo con cui il governo turco identifica il Guney Anadolu Projesi, colossale progetto di sviluppo idrico infrastrutturale nel sud-est della Turchia che prevede la costruzione di 22 dighe e 19 impianti idroelettrici sui fiumi Tigri, Eufrate ed i loro affluenti, oltre che la costruzione di diverse strutture per lo sviluppo economico della regione. Una delle principali opere del GAP è rappresentata dall’impianto Ilisu, che il governo turco intende costruire sul fiume Tigri, in Anatolia sud-orientale — la regione kurda della Turchia -, appena a valle della città di Hasankeyf ed a soli 65 chilometri a monte della frontiera con l’Iraq e la Siria.
 
La diga Ilisu sarà alta 138 metri, larga 1.820 metri e creerà un lago artificiale ampio 313 chilometri quadrati e comporterà l’inondazione di 6000 ettari di terre agricole, la distruzione dell’ecosistema del fiume Tigri, la scomparsa di numerosi centri d’inestimabile valore archeologico e storico tra cui la città di Hasankeyf, luogo con 5000 anni di storia, forse il centro più importante per la cultura curda.
 
Il progetto è di fatto l’ennesimo strumento di repressione che lo stato turco usa contro la popolazione Kurda, che si oppone da oltre dieci anni al progetto, maggioranza nella regione, già vittima di continue violazioni ai propri diritti umani individuali e collettivi. Uno strumento diretto di controllo del territorio (terra di confine con Siria e Iraq) attraverso la gestione diretta della sua anima: l’acqua.
 
Anche quest’anno un’articolazione variegata di comunità in resistenza, movimenti, reti, associazioni, organizzazioni non governative ha portato ad Istanbul la voce dei popoli che si oppongono alla mercificazione dell’acqua a favore di una gestione pubblica, partecipata e democratica della risorsa idrica: acqua come strumento di pace, simbolo e anima della difesa dei territori. Mentre nei giorni che hanno preceduto il Fourm diverse Carovane in solidarietà con il popolo Kurdo, contro le dighe ed in difesa dell’acqua hanno attraversato il paese con l’obiettivo di costruire una solidarietà attiva nei confronti di un popolo dimenticato in nome degli interessi strategici che legano l’Europa alla Turchia.
 
Nelle giornate di seminari e assemblee i rappresentanti della società civile internazionale hanno denunciato l’illegittimità del World Water Forum e le ingiustizie che le politiche globali sull’acqua producono. Come nel recente Forum Sociale Mondiale di Belém centrale è stata la critica alla insostenibilità del modello di sviluppo che ha trasformato l’acqua e i beni comuni in merce, l’intera Natura in una riserva di materie prime e il pianeta in una discarica a cielo aperto.
 
Diverse le manifestazioni di protesta, alle quali sono seguite le reazione durissime da parte della polizia turca: 17 gli arresti e due attiviste rimpatriate perché accusate di un reato d’opinione (l’apertura di uno striscione contro le dighe). A dimostrazione di quanto aperto e democratico fosse il Forum.   
 
Molti italiani dei comitati e della società civile hanno partecipato alle proteste. Ma altrettanto folta è stata la delegazione italiana presente al forum ufficiale. La delegazione governativa, guidata dalla ministra Prestigiacomo aveva tra i suoi obiettivi primari quello di una maggiore co-partecipazione pubblico-privata nella gestione dei servizi idrici “resa obbligatoria dalla crescita dei costi dell’oro blu” si legge nella nota stampa ufficiale. In altre parole continuare a portare avanti le politiche già ampiamente sperimentate nel nostro paese di aziende miste per la gestione dei servizi idrici, in cui i costi economici, politici e sociali delle privatizzazioni ricadono sul pubblico con aumento di tariffe per i cittadini, diminuzione occupazionale, scarsa manutenzione e qualità, e con utili altissimi sempre nelle stesse mani: Suez, Veolia, e le altre sorelle.
 
Modello che ha portato un bene collettivo a trasformarsi in pacchetti azionari fluttuanti nel mercato borsistico sempre più distante dal controllo dei cittadini e delle comunità. In un paese dove negli ultimi anni i movimenti per l’acqua si sono diffusi e moltiplicati, raccogliendo più di 400.000 firme per una gestione pubblica e partecipata dell’acqua, moltissimi enti locali dalla Lombardia alla Sicilia si sono schierati a favore della ripubblicizzazione dell’acqua.
Esempio in Italia e all’estero della co-partecipazione pubblico-privata nella gestione dell’acqua rimane Acea, ex municipalizzata del Comune di Roma da dieci anni trasformata in una holding con partecipazioni azionarie di Suez e Caltagirone, quotata in borsa, vorace nell’acquisire il controllo dei servizi idrici in Italia e nel mondo, capace di occuparsi di energia, rifiuti, inceneritori e forse domani gas. Ai cittadini di Roma toccano solo rialzi in bolletta, i malfunzionamenti e la scarsa qualità, nel silenzio del Consiglio Comunale e della giunta impegnati più a tutelare gli interesse dei grandi azionisti in borsa.
 
A Istanbul come a Roma le politiche dell’acqua sono sempre più una cartina tornasole del livello di democrazia e partecipazione dei cittadini e delle comunità locali. Riappropriarsi dell’acqua significa riacquisire spazio pubblico vitale, recuperare dal basso parola di fronte allo svilimento della politica istituzionale e dare corpo e senso alla democrazia.
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Si condanna ogni azione fascista e antisemita commessa nel nome del boicottaggio

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Sta prendendo sempre più piede in  questi giorni in Italia la campagna di boicottaggio dei prodotti israeliani che anche da questo sito è attivamente appoggiata e promossa.
 
Non stupisce pertanto il fatto che  i fascisti, come già avvenuto in passato in altre occasioni, si pongano al servizio  dei poteri forti e delle potenze imperialiste cercando di inquinarla, confondendola con azioni  razziste e antisemite con il solo scopo di creare confusione e gettare discredito su questo movimento spontaneo e pacifista che sta prendendo sempre più piede e  che si avvale dell’entusiasmo e dalla voglia di partecipazione di migliaia di giovani desiderosi di contribuire in prima persona al raggiungimento della pace e della dignità del popolo palestinese.
 
Il boicottaggio dei prodotti provenienti da Israele  che si sta cercando di portare avanti anche coinvolgendo i sindacati presenti nelle grandi aziende di distribuzione commerciale o nei porti, pratica pacifista e non violenta che in passato ha sancito la fine del regime dell’apartheid in Sud Africa,   nulla ha a che vedere con l’azione  fascista e chiaramente antisemita del boicottaggio dei negozi della comunità ebraica romana e con azioni criminali e chiaramente razziste contro di essa che condanniamo fermamente.
 
 
 
 

Radio Onda Rossa appoggia il boicottaggio

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Comunicato di Radio Onda Rossa relativo al boicottaggio:
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Da più parti si propone di organizzare un boicottaggio dei prodotti provenienti da Israele. Si tratta di iniziative promosse da numerosi movimenti pacifisti al fine di sollecitare il governo di Israele verso un percorso di autentica e giusta pace nei confronti della popolazione palestinese.
 
Queste proposte si sono intensificate dopo la tremenda ggressione dei giorni scorsi dell’esercito israeliano a Gaza che ha ucciso oltre mille palestinesi di cui circa 400 bambini, distruggendo territorio, case e infrastrutture e riducendo alla fame la popolazione.
Molte autorevoli personalità pacifiste si sono fatte promotrici di tali iniziative(una per tutti Naomi Klein), molti siti internet hanno raccolto e rilanciato questo invito al boicottaggio, moltissime donne e uomini si stanno organizzando per poter esprimere con questa azione concreta la loro umanità , anche perchè i governi dell’intero mondo, con rarissime eccezioni, fiancheggiano, anche stavolta, i massacri dello stato colonialista di Israele.
 
IL PUNTO E’ CHE UN BOICOTTAGGIO NON SI REALIZZA SPONTANEAMENTE MA VA ORGANIZZATO!!!
E’ un’organizzazione che deve crescere dal basso e alla quale tutte e tutti possono partecipare.
L’esperienza che prendiamo come insegnamento e riferimento è il grande e partecipato boicottaggio verso l’apartheid del Sud Africa
negli anni ’60 e ’70 che piegò quel regime razzista imponendogli di trattare con l’African  National Congress il passaggio ad una democrazia formale. Così come avvenne anche per il boicottaggio verso le aziende che partecipavano all’aggressione statunitense alla popolazione vietnamita.
 
1)La prima cosa da fare è mettere in movimento tutte le rappresentanze sindacali dei posti di lavoro che si dimostrino sensibili a una iniziativa pacifista e umanitaria come il boicottaggio verso uno stato aggressore. Le rappresentanze sindacali dovranno attivarsi nell’ individuare se l’azienda in cui lavorano ha rapporti commerciali con aziende israeliane o acquista componenti
provenienti da Israele.
Successivamente con assemblee e azioni
sindacali dovranno convincere la direzione aziendale a
interrompere tali rapporti commerciali.
Le aziende più adatte a questo fine sono le catene della grande distribuzione (Coop, Conad, Gs, Panorama, Sma,
Todis ecc., insomma supermercati, ipermercati, centri commerciali e distributori vari).
Sono da prendere in considerazione anche le aziende che producono articoli tecnologici di ogni genere, poichè utilizzano componentistica che proviene da aziende israeliane.
E soprattutto i lavoratori dei porti, degli interporti, degli scali ferroviari e degli aeroporti. Noi tutti ricordiamo
il meraviglioso impegno profuso dai portuali di Rotterdam, Liverpool, Genova, e tanti altri nel far marcire nelle stive delle navi le merci provenienti dal Sud Africa razzista e piegare così il presidente Frederik Willem de Klerk ad avviare colloqui di pace con Nelson Mandela (possiamo affermare che i portuali organizzati dei porti europei, per aver contribuito più di altri alla pace giusta e contro la barbarie, avrebbero dovuto meritare nel ‘900 un premio Nobel per la Pace).
 
2)Seconda cosa da fare è organizzarsi in gruppi di quattro, cinque o
anche più e recarsi davanti ai supermercati, soprattutto il sabato che è giornata di grandi acquisti e informare, parlare, comunicare con i potenziali clienti   della necessità di un acquisto consapevole che non armi le mani infanticide dei militari israeliani.
 
3) Fare pressioni perchè gli amministratori locali più sensibili dichiarino pubblicamente la loro adesione al boicottaggio e sostengano attivamente le relative iniziative nel territorio di loro competenza.
 
4)Si invitano studenti e docenti, presidi e rettori ad aderire a tale boicottaggio nel campo della ricerca e degli scambi culturali e scientifici.
 
 
Link e siti di riferimento:
1)Global BDS Movement (http://bdsmovement.net/)
 
2)Boycott Israel (http://www.mylinkspage.com/israel.html)
 
 
 
 
   
 
 
 

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