Antonio Mazzeo: Deportazioni in massa e minacce di bombardamenti per i pirati della Somalia
Deportazioni in massa e minacce di bombardamenti per i pirati della Somalia.
di Antonio Mazzeo
La flotta aeronavale USA attivata a largo delle coste della Somalia, attende nelle prossime ore l’autorizzazione per avviare la caccia ai pirati e, eseguita la cattura, garantire la loro deportazione in un paese africano top secret. Lo ha dichiarato in un incontro con i giornalisti, il vice ammiraglio William E. Gortney, comandante dell’US Naval Forces Central Command, il Comando Centrale delle Forze Navali da cui dipende la task force internazionale –Combinated Task Force 151 – che pattuglia una vasta aerea geografica compresa tra il Golfo di Aden, il Mar Rosso e l’Oceano Indiano. “Stiamo lavorando a stretto contatto con il Dipartimento di Stato – ha esordito Gortney — per portare a termine un accordo con una delle nazioni dell’area che permetterà alla CTF 151 e alle forze della coalizione di spezzare, impaurire, catturare e detenere le persone sospettate di essere responsabili di atti di pirateria. Stiamo negoziando tutti i dettagli per decidere come prenderli, dove imprigionarli, quale corte li dovrà giudicare e dove verranno detenuti nel caso in cui saranno dichiarati colpevoli”.
Una o più Guantanamo starebbero dunque per sorgere nel continente africano (tra le candidate più accreditate ad ospitarle Gibuti, Kenya e Tanzania), ma lo scenario che l’amministrazione USA delinea per la Somalia potrebbe essere ancora più tragico. Il viceammiraglio William E. Gortney non ha escluso infatti la possibilità di utilizzare aerei e unità navali per bombardare le presunte postazioni terrestri dei “pirati”. “Se assisteremo ad un assalto”, ha dichiarato, “abbiamo tutto il potere che desideriamo per inseguirli, aprire il fuoco letale e prenderli sotto la nostra custodia”.
Nel dare priorità a quella che è ormai una guerra a tutti gli effetti, l’amministrazione statunitense ha affidato la pianificazione e la direzione delle operazioni della Combinated Task Force 151 all’US Central Command (CENTCOM), il Comando centrale unificato delle forze armate USA con sede nella base aerea MacDill di Tampa, Florida, relegando così in un secondo piano il nuovo Comando per le operazioni Usa in Africa, Africom.
Alla CTF 151 hanno già aderito le marine militari di una ventina di paesi partner degli Stati Uniti. Si tratta di una versione ancora più aggressiva della Task Force 150 attivata nella regione del Golfo Persico nel 2001 dal Comando della 5^ Flotta USA. “Le operazioni della CTF 150 includevano la deterrenza di attività destabilizzanti, come il traffico di droga ed armi”, ha spiegato l’ammiraglio Terry McKnight, comandante della CTF 151. “Con la creazione della Combinated Task Force 151, si darà enfasi alle attività anti-pirateria, mentre la CTF-150 continuerà nei suoi compiti. Le nazioni che non hanno esperienza continueranno ad operare con la CTF-150, mentre le altre offriranno le loro capacità contro I criminali coinvolti in atti in pirateria. Dimostreremo che la Marina degli Stati Uniti non ammette atti criminali nei mari e che vogliamo, come possiamo, garantire accordi commerciali aperti in qualsiasi parte del mondo”.
L’ammiraglio McKnigt ha spiegato che gli Stati Uniti hanno avviato nell’agosto 2008 (due mesi prima, cioè, dall’approvazione delle Nazioni Unite delle risoluzioni che hanno legittimato l’intervento militare in Somalia), un piano d’azione in tre fasi per potenziare le capacità di risposta delle marine militari e delle grandi compagnie di navigazione private contro i tentativi di abbordaggio. “Abbiamo già ottenuto notevoli successi con le prime due tappe del processo e adesso 14 nazioni cooperano con noi”, ha aggiunto il Comandante della CTF-151. “L’industria navale sta avendo un grande impatto. Sta facendo un ottimo lavoro di condivisione per migliorare e velocizzare le misure difensive e prevenire l’abbordaggio sulle proprie navi. Adesso è giunta l’ora di prendere i pirati”.
Ammiraglia della Combinated Task Force 151 è la nave anfibia “USS San Antonio” (LPD-17), in cui sono imbarcati un plotone del 26th Marine Expeditionary Unit del Corpo dei Marines, un distaccamento della polizia militare e personale della Guardia Coste e dei servizi d’intelligence. Nella “San Antonio” sono stati trasferiti dalla portaerei USS Theodore Roosvelt, tre elicotteri HH-60H “Seahawk” per la guerra navale e antisottomarina e un team di specialisti per il pronto intervento e la cura sanitaria di feriti.
In sintonia con le unità della forza multinazionale a guida USA opera la flotta navale dell’Unione Europea EU NAVFOR. Nei giorni scorsi il comandante greco Antonios Papaioannou è stato a bordo della nave ammiraglia statunitense per un summit con l’ammiraglio Terry McKnight. “L’Unione Europea ha ufficiali di collegamento con il mio staff e ci stiamo coordinando a tutti i livelli”, ha dichiarato il comandante della CTF-151. “Stiamo inoltre cooperando con le marine di Gran Bretagna, Pakistan ed Australia. L’Arabia Saudita partecipa con noi nell’organizzazione di questo impegno anti-pirateria. Stiamo equipaggiando ed addestrando gli Emirati Arabi Uniti perché inviino navi ad operare con o dentro la CTF-151. Ci sono poi paesi che si sono attivati autonomamente come Cina e Russia. Gli Stati Uniti stanno comunicando con la Cina attraverso e-mail in codice e con le unità russe grazie ad un ponte radio diretto”.
Il Dipartimento di Stato sigilla la sua egemonia nella pianificazione delle strategie d’intervento politico-militare assumendo la presidenza del Gruppo di Contatto sulla Pirateria (GCP), costituito a New York la scorsa settimana da 24 nazioni (tra cui l’Italia) e 5 organizzazioni internazionali (Segretariato dell’ONU, International Maritime Organization, NATO, Unione Africana e Unione Europea). Anche in questo caso gli obiettivi del Gruppo di Contatto sono prevalentemente di tipo militare, ma non mancano le aspirazioni a sviluppare nuovi meccanismi giuridici per contrastare i tentativi di assalti nelle acque somale.
Il GCP ha formalizzato la costituzione di quattro gruppi di lavoro. il primo è destinato al coordinamento militare, allo scambio d’informazioni e all’istituzione di un centro regionale di comando, e sarà convocato da Gran Bretagna e dall’International Maritime Organization. Il secondo gruppo, coordinato dalla Danimarca, sarà indirizzato all’approfondimento degli aspetti giuridici della pirateria e sarà supportato da UNODC, l’Ufficio delle Nazioni Unite contro le Droghe ed il Crimine diretto dall’italiano Antonio Maria Costa. Agli Stati Uniti toccherà la guida del terzo gruppo, quello per il “rafforzamento auto-difensivo delle compagnie di navigazione”. Il quarto gruppo di lavoro, coordinato dall’Egitto, s’interesserà invece agli “aspetti diplomatici e di pubblica informazione su tutti gli aspetti della pirateria”.
Al Gruppo di Contatto, oltre ai paesi sopracitati, partecipano l’esautorato Governo di Transizione Nazionale della Somalia, Arabia Saudita, Australia, Cina, Corea del Sud, Emirati Arabi Uniti, Francia, Germania, Giappone, Gibuti, Grecia, India, Kenya, Olanda, Oman, Russia, Spagna, Turchia e Yemen. Il Dipartimento di Stato ha inoltre invitato a farne parte Belgio, Norvegia, Portogallo, Svezia e Lega Araba.
Boicottaggio Israele
Stampa e diffondi più che puoi questo volantino, davanti ai supermercati, ai centri commerciali, per strada, davanti alle scuole…
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BOICOTTA ISRAELE
Quali prodotti bisogna boicottare?
Non è sempre facile per i consumatori riconoscere i prodotti israeliani. Per i prodotti freschi, la frutta, i legumi e le spezie è possibile. Per contro, tutto si complica per i prodotti trasformati che non portano necessariamente traccia della loro origine. Il codice a barre su un prodotto può essere un indizio. I prodotti che sono imballati ed etichettati in Israele hanno un codice a barre israeliano che inizia con 729. Ma alcuni prodotti israeliani sono imballati in Belgio o in Francia (o in altri Paesi, n.d.t.) dalle grandi catene di distribuzione con un codice a barre nazionale.
Carmel
Legumi, frutta (avocados, pompelmi… ), vini, cognac, liquori, succhi di frutta, fiori.
La compagnia di esportazione di prodotti agricoli AGREXCO, oggi uno dei più grossi gruppi di esportazione di prodotti agricoli nel mondo. AGREXCO una società gestita dal Ministero dell’Agricoltura israeliano e dalle aziende agricole in ragione del 50% ciascuno.
Nestlè
Ditta svizzera che possiede il 50.1% del capitale della fabbrica alimentare israeliana Osem. Nel dicembre 2000 ha annunciato ulteriori investimenti in Israele per milioni di dollari.
Prodotti ed aziende affiliate: Nescafè, Nesquik, Terrier, Maggi, Buitoni, Milkbar, KitKat.
L’Oreal
Ha stabilito Israele come suo centro commerciale nel Medio Oriente ed ha aumentato gli investimenti e leattività produttive, che vanno da una nuova linea di produzione a Migdal Haemek, ai progetti di ricerca e sviluppo congiunti con gli Israeliani, operando anche nel campo dell’educazione e delle campagne di servizio pubbliche.
Prodotti ed aziende affiliate: Lacome, Giorgio Armani, Vichy Cacharel, La Roche-Posay, Garnier, Biotherm, Melena Rubinstein, Ralph Lauren Perfumes.
Coca-Cola
Nel 1997 il Governo di Israele ha reso omaggio alla Coca-Cola per il suo sostegno continuo ad Israele negli ultimi 30 anni e per il suo rifiuto di aderire al boicottaggio della Lega Araba contro Israele (diversamente dalla Pepsi Cola, che si era conformata al boicottaggio e che solo nel 1992 ha iniziato a commerciare in Israele).
una conferenza della nota sionista Linda Gradstein, corrispondente all’Università di Minnesota.
E’ stato annunciato recentemente che la Coca-Cola, grazie agli incentivi del governo israeliano, costruirà un nuovo impianto sulla terra palestinese rubata a Kiryat Gat.
Prodotti ed aziende affiliate: Fanta, Sprite, Schweppes.
Tutti gli altri marchi coinvolti:
Estèe Lauder (cosmetici), Timberland, Delta Galin, Marks&Spencer, Victoria’s Secret, GAP, Banana Republic, Structure, J-Crew, J.C.Penny, Pryca, Lindex, DIM, Donna Karan/DKNY, Playtex, Calvin Klein, Hugo Boss (abbigliamento),
McDonald’s (catene alimentari), Nokia (telefonia), Sara Lee, Playtex, Dim, Ambi Pur, Bali, Kiwi, Lovable, Wonderbra, Sanex (intimo), Bassetti (tessile), Jaffa (prodotti agricoli) Qualità Sreet, Smarties, After Eight, Lion, Aero, Polo, Danone (alimenti), Caterpillar/CAT (mezzi agricoli e abbigliamento).
Aziende italiane che investono in Israele:
Generali (assicurazioni e finanza), Telecom, Tim, Tiscali, Luxottica, Unicredito, Alenia, Fiat, ENI.
Catene di distribuzione commerciale:
Auchan, Carrefour, LaRinascente, Panorama
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Craxi e L’OLP. La legittimità della lotta armata
Guido Piccoli: le verità di Gaza
Fotografia di Annalisa Melandri
Le verità di Gaza.
Abraham Yehoushua, io la disprezzo.
Una cosa è chiara.
Israele, i suoi governanti e la gran parte del suo popolo non vogliono la pace. Per la preponderanza bellica, per gli appoggi internazionali, perché le guerre come l’attuale (accettando che possa chiamarsi così il massacro di questi giorni) gli comportano un centesimo delle vittime rispetto al nemico. Israele, i suoi governanti e la gran parte del suo popolo non vogliono la pace per il fanatismo cresciuto con il compiacimento o la tolleranza della gran parte dell’intellettualità locale e internazionale.
Ma c’è una ragione in più.
Israele, i suoi governanti e la gran parte del suo popolo non vogliono la pace. Per la preponderanza bellica, per gli appoggi internazionali, perché le guerre come l’attuale (accettando che possa chiamarsi così il massacro di questi giorni) gli comportano un centesimo delle vittime rispetto al nemico. Israele, i suoi governanti e la gran parte del suo popolo non vogliono la pace per il fanatismo cresciuto con il compiacimento o la tolleranza della gran parte dell’intellettualità locale e internazionale.
Ma c’è una ragione in più.
Come una parte dei palestinesi e degli arabi coltivano l’utopia di riprendersi la Palestina, buttando a mare gli israeliani, la gran parte degli israeliani coltiva il progetto (qualcosa più di un’utopia) di formare la grande Israele, Eretz Israel, cacciando ancora più palestinesi dalla loro terra e mantenendone la parte utile nel ruolo dei servi. La proclamazione del sogno dei primi suscita condanna e biasimo internazionali, l’attuazione del progetto dei secondi è accompagnato da accondiscendenza e comprensione internazionali.
Da qui la formulazione, volutamente inaccettabile, di “due popoli, due stati” che, secondo i progressisti israeliani (gli altri non ne vogliono nemmeno sentir parlare) sarebbe uno stato fortissimo, capace di vincere qualunque guerra, e dall’altro una serie di bantustan, stile sud Africa, oltre al campo di concentramento di Gaza, senza continuità territoriale, espropriato dell’acqua, senza esercito, senza controllo dei confini… Insomma, una pagliacciata che tutti fanno più o meno a gara a non vedere. Altrochè “confini del 1967”, Gerusalemme capitale condivisa, ritorno dei profughi, come sostengono le leggi internazionali, come vorrebbe un minimo di giustizia.
No, Israele non si accontenta.
No, Israele non si accontenta.
Da qui la necessità di alimentare la rabbia e disperazione della popolazione palestinese e di rafforzare comunque e sempre la sua componente più radicale. Hamas è figlia di questa strategia. Vent’anni fa, ai tempi della prima Intifada, occorreva creare un contrappeso all’Olp di Arafat, che dopo essere stato costretto all’arma del terrorismo si era guadagnato una considerazione internazionale. Israele aveva bisogno di un nemico fondamentalista fatto a sua immagine e somiglianza, un nemico da spingere, sfidare e poi, naturalmente, vincere sul terreno preferito, la guerra. I soldi dell’Europa e in misura minore degli Usa hanno fatto il resto, trasformando l’entourage di Arafat –soprattutto dopo la sua morte – in una banda di corrotti. “Divide et impera” attuato vedendo bene di togliere di mezzo quei pochi elementi, insieme laici e radicali, e soprattutto onesti, capaci di negoziare e combattere, come Marwan Barghouti, incarcerato e condannato a cinque ergastoli.
E Israele continua ad alimentare Hamas. Anche adesso, mentre pare che lo voglia distruggere.
E Israele continua ad alimentare Hamas. Anche adesso, mentre pare che lo voglia distruggere.
Con le ossa rotte, con molti martiri, con i già poveri arsenali bellici distrutti, Hamas ne uscirà rafforzato, come sono usciti rafforzati gli Hezbollah dalla guerra in Libano (quella si che pur asimmetrica sembrava più una guerra che un massacro). Mentre chi ne esce distrutto è Al Fatah che ha scelto Israele al suo popolo massacrato, decidendo di caricare brutalmente, come Israele e il peggiore dei regimi arabi, chi manifestava a Nablus, a Hebron o Ramallah contro il massacro, decidendo di mantenere in carcere i militanti di Hamas e associandosi alla condanna internazionale di Hamas come terrorista.
I palestinesi massacrati e divisi: perfetto. Israele gioisce perché può o potrà ancora di più dire al mondo che con Hamas non può negoziare perché terrorista e con l’Anp e Al Fatah nemmeno perché non rappresentativi.
E avanti così, dritto verso il progetto della Eretz Israel, tra bagni di sangue e ettolitri di ipocrisia sul pericolo dell’antisemitismo, creato ad arte in un terreno reso fertile dalla barbarie israeliana.
E avanti così, dritto verso il progetto della Eretz Israel, tra bagni di sangue e ettolitri di ipocrisia sul pericolo dell’antisemitismo, creato ad arte in un terreno reso fertile dalla barbarie israeliana.
Hamas e Anp… e noi? A manifestare e a dividerci, tra chi… e chi… tra quelli di Assisi che ripetono parole d’ordine alle quali penso che non credano più nemmeno loro e quelli di Roma, dove sarei andato sapendo che non basta. Che occorre fare di più. Soprattutto denunciare, come se fossimo là, il sionismo fascista, i suoi progetti, i suoi amici e protettori, i suoi interessi, la sua strategia intelligente, ma anche evidente, quasi banale, a chi abbia memoria e onestà nel guardare. L’Intifada va portata nel mondo, con le modalità corrispondenti ad ogni situazione fino a costringere Israele ad accettare di essere uno stato normale, senza il diritto di commettere qualunque barbarie e ovunque. Fino a dare forza a quella minoranza coraggiosa di pacifisti, di militari che si rifiutano di partecipare al massacro, che sono bollati come traditori dai più. Con le “buone” non lo capiscono. Lo devono capire con “le cattive”. Se il debolissimo apparato militare di Hamas avesse causato non una decina di morti, ma centinaia di morti tra i fusti della Tsahal, in Israele non ci sarebbe il 78% di fan del massacro (la rivolta di Berkeley non è nata per compassione dei piccoli viet…).
Le “cattive” per noi sono il boicottaggio economico (come anche proposto da Naomi Klein) e l’isolamento intellettuale e culturale (come anche proposto da Ken Loach): Abraham Yehoushua avrebbe scritto, secondo quanto riportato da Vittorio Arrigoni sul Manifesto, che “uccidiamo i loro bambini oggi per salvarne tanti domani”. In realtà il pensiero non è così brutale, ma, più o meno, “Combattere Hamas non è possibile senza colpire i civili, bambini compresi. Un prezzo inevitabile per garantirci il futuro e salvare altri bambini domani”. Cinico, ma soprattutto disonesto Abraham Yehoushua, che non può non sapere che Hamas, e con Hamas l’odio, la violenza, il sogno di buttare a mare gli israeliani, non farà altro che crescere. Giustamente e logicamente: forse noi ameremmo di più il nostro carnefice, super armato e super protetto e super giustificato dal mondo che conta? O ci sottometteremo di più a lui per salvare cosa?: la vita di merda e disperata, che facciamo nei campi profughi, patendo la fame e le umiliazioni quotidiane?
Yehoushua non è uno stupido. Yehoushua lo sa. Per questo merita il mio disprezzo. Si penserebbe di difendere ancora il suo invito come ospite d’onore alla Fiera del Libro di Torino?
Yehoushua non è uno stupido. Yehoushua lo sa. Per questo merita il mio disprezzo. Si penserebbe di difendere ancora il suo invito come ospite d’onore alla Fiera del Libro di Torino?
Chi brucia chi… (o cosa)
Vi fa indignare questa?
Avete mai sentito l’odore della carne umana bruciata?
Nemmeno io, ma ho letto da qualche parte che è un odore terribile, che non te lo dimentichi più.
Da Gaza i medici raccontano che la maggior parte delle ferite delle persone che riescono a giungere ancora vive in ospedale sono provocate da forti ustioni e dalle esplosioni delle bombe. Le ustioni sono rese ancor più terribili dall’utilizzo di munizioni al fosforo bianco.
Sicuramente diverso è l’odore di una bandiera bruciata.
Quindici giorni fa, sia a destra che a sinistra si è levato un coro unanime di condanne per una pezzo di stoffa bruciato a Milano durante la manifestazione e ha fatto gridare allo scandalo la grande preghiera collettiva in piazza Duomo. Certo alla borghesia impellicciata pronta alla grande saga dei saldi di fine stagione, deve aver dato parecchio fastidio la vista di un’umanità in preda al dolore. Il dolore, il loro dolore meglio guardarlo in televisione.
e questa?
Intanto sono passate due settimane e Israele ha continuato sistematicamente a violare ogni diritto umano possibile e immaginabile. Il suo esercito ha commesso e continua a commettere in queste ore crimini di guerra nella più completa impunità.
Non si leva tuttavia nessuna condanna a voce alta da parte della nostra classe politica, ma soprattutto da parte di tanti uomini di cultura e intellettuali che ancora hanno il coraggio di definirsi di sinistra. La politica quando smette di giudicare la realtà e giudica soltanto i simboli, ha già fallito.
Sabato prossimo sarò in piazza con “gli islamici” come li ha definiti il Corriere della Sera.
Sarò con tutte le persone che non riescono a restare indifferenti al genocidio che Israele sta compiendo nella Striscia di Gaza.
Sarò con tutti coloro che si sentono impotenti come me e anche con quelli che esprimeranno, invece di reprimerla, la rabbia contro lo stato criminale d’Israele. Spesso reprimere la rabbia può diventare potenzialmente più pericoloso di una bandiera bruciata.
…
Leggi anche: “Bruciare una bandiera israeliana è molto, ma molto più grave che bruciare col fosforo un bambino palestinese” dal blog di Guido Piccoli.
Lettera del prof. André NOUSCHI, storico ebreo, all’ambasciatore di Israele in Francia
Scritta il 3 gennaio e pubblicata il 12.01.2009 sul giornale algerino le Matin
Il professor André Nouschi, 86 anni, ebreo nato a Constantine, storico di fama mondiale, Professore onorario all’Università di Nizza, ha inviato questa lettera all’ambasciatore di Israele a Parigi.
Signor Ambasciatore,
Per lei oggi è shabbat, dovrebbe essere un giorno di pace ma è un giorno di guerra. Per me, da molti anni, la colonizzazione e il furto israeliano delle terre palestinesi mi esaspera. Le scrivo dunque a diversi titoli: come Francese, come Ebreo per nascita e come artigiano degli accordi tra l’Università di Nizza e quella di Haiffa.
Non si può più tacere davanti alla politica di assassinii e di espansione imperialista di Israele. Vi comportate esattamente come Hitler si è comportato in Europa con l’Austria, la Cecoslovacchia. Disprezzate le risoluzioni dell’ONU come quelle della Società delle Nazioni ed assassinate impunemente donne, bambini; non invocate gli attentati, l’Intifada. Tutto questo è conseguenza della colonizzazione ILLEGITTIMA e ILLEGALE. CHE É UN FURTO.
Vi comportate come ladroni di terre e voltate la schiena alla morale ebrea. Vergogna a voi! Vergogna a Israele! Scavate la vostra tomba senza rendervene conto.
Perché siete condannati a vivere con i Palestinesi e con gli stati arabi. Se vi manca questa intelligenza politica, allora non siete degni di far politica e i vostri dirigenti dovrebbero andare in pensione. Un paese che assassina Rabin, che glorifica il suo assassino, è un paese senza morale e senza onore. Che il cielo e il vostro Dio condanni a morte Sharon, l’assassino.
Avete subito una disfatta in Libano nel 2006.
Ne subirete altre, spero, e manderete a morire giovani Israeliani perché non avete il coraggio di fare la pace.
Come gli Ebrei che hanno sofferto tanto possono imitare i loro boia hitleriani ? Per me, dal 1975, la colonizzazione mi trae a mente vecchi ricordi, quelli dell’hitlerismo.
Non vedo nessuna differenza tra i vostri dirigenti e quelli della Germania nazista.
Personalmente, vi combatterò con tutte le mie forze come l’ho fatto tra 1938 e 1945, fino a quando la giustizia degli uomini distrugga l’hitlerismo che sta nel cuore del vostro paese. Vergogna, Israele. Spero che il vostro Dio scaglierà contro i suoi dirigenti la vendetta che si meritano. Come Ebreo, come ex-combattente della Seconda Guerra mondiale, sento vergogna per voi. Che Dio vi maledica fino alla fine dei secoli! Spero che sarete puniti.”
André Nouschi, professore onorario all’Università.
Fonte: il quotidiano algerino ” Le Matin DZ ” http://www.lematindz.net/news/2332-le-professeur-andre-nouschi-ecrit-a-lambassadeur-disrael-a-paris.html
Traduzione A.DOLCI
Vista su: Emigrazione Notizie
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Fuck you Tsahal!
Non ho scritto nulla sulle minacce di morte che Vittorio Arrigoni e gli altri cooperanti dell’ISF che si trovano a Gaza, stanno ricevendo da un esaltato sionista di estrema destra di nome Lee Kaplan, che dal Canada gestisce questi due siti: stoptheism.com e dafka.org.
Non ne ho scritto perchè è da ieri pomeriggio che faccio telefonate e mando mail per cercare di rendermi utile. Ho avuto una lunga conversazione telefonica con un funzionario della polizia postale di Roma e stamattina con la responsabile dell’ufficio stampa dell’ambasciata canadese in Italia, ho mandato varie mail ai server che ospitano il sito in oggetto chiedendo che venga oscurato quanto prima.
Purtroppo gli esaltati sono anche in Italia e quindi su un sito di Libero è apparso un articolo delirante di Kaplan tradotto in Italiano. Ma non fa riferimento a Vittorio Arrigoni, anche perchè è del 2006. Si sono guardati bene dal fare il suo nome, i vigliacchi, in Italia.
Ringrazio comunque Gennaro Carotenuto, l’ottimo sito Emigrazione Notizie, Megachip e Maurizio Matteuzzi che stamattina ne ha scritto in prima pagina sul Manifesto, per aver trattato prontamente la notizia.
O.T.
L’esercito israeliano nella terza fase dell’attacco a Gaza ha lanciato alcuni volantini sulle macerie di quella che era Gaza City dove c’era scritto:
Ai cittadini di Gaza. Prendetevi la responsabilità del vostro destino! A Gaza i terroristi e coloro che lanciano i razzi contro Israele rappresentano una minaccia per le vostre vite e per quelle delle vostre famiglie. Se desiderate aiutare la vostra famiglia e i vostri fratelli che si trovano a Gaza, tutto quello che dovete fare è chiamare il numero indicato di seguito e darci informazioni riguardo alle posizioni in cui si trovano i responsabili dei lanci dei razzi e le milizie terroriste che fanno di voi le prime vittime delle loro azioni. Evitare che vengano commesse atrocità è ora vostra responsabilità! Non esitate!.. E’ garantita la più totale discrezione. Potete contattarci al seguente numero: 02–5839749.Oppure scriverci a questo indirizzo di posta elettronica per comunicarci qualunque informazione abbiate riguardo a qualsiasi attività terroristica: href=“helpgaza2008gmailcom%20PS”>helpgaza2008gmailcom ”.
Beh, mi è venuto spontaneo togliermi una piccola soddisfazione… ho scritto una mail all’indirizzo citato indicando in oggetto: A SPECIAL KIND OF ROCKET…
e nel corpo… FUCK YOUUUUUUUU!!!!!!!!
L’impotenza fa fare le cose più stupide a volte…
Joseph Halevi: un piano che riconosce i limiti di riformabilità degli Usa
di Joseph Halevi
fonte: Il Manifesto
Dal discorso del presidente eletto Barack Obama all’università George Mason, in Virginia, appare esplicitamente come egli sia molto più consapevole — rispetto agli altri politici — della dimensione della crisi economica e della sua natura epocale. Implicitamente emerge anche come Obama abbia sentore dell’enorme difficoltà di riformare gli Stati Uniti.
Si possono accettare senza esitazione tutte le proposte da lui elencate. Esse non sono tuttavia sufficienti, ma non soltanto per le ragioni puramente quantitative articolate da Paul Krugman sul New York Times dell’8 gennaio. Date le stime del Congressional Budget Office — che prevede, nel prosssimo biennio, una caduta del Pil per 2,8 miliardi di dollari — Krugman osserva che i 775 miliardi di stimolo fiscale menzionati da Obama produrranno, keynesianamente, un effetto «moltiplicatore» pari a poco meno di 1200 miliardi. Una somma molto lontana, nei suoi effetti occupazionali, rispetto alla perdita stimata. Viene anche fatto osservare che solo il 60% del programma di Obama è costituito da spese pubbliche aggiuntive; il restante 40% proviene dalla riduzione delle tasse. Gli effetti espansivi di quest’ultima misura sono molto dubbi, soprattutto se gli sgravi fiscali saranno indirizzati alle imprese: i nuovi investimenti dipendono infatti più dalla domanda, che da sconti sulle tasse.
Tutte cose giuste, insomma, sia dal lato di Obama che da quello — critico — di Krugman. A mio avviso entrambe sono alquanto irrilevanti, se non collocate in un quadro di riforma cruciale del capitalismo Usa. Di questo Obama sembre essere consapevole, focalizzando la sua critica sulle banche, oggi viste come il male fondamentale. Così facendo, però, egli isola il «male» dalla sua dimensione sistemica, malgrado dica che la crisi non è il «normale» risultato del ciclo economico. Il comportamente del settore finanziario non è nato dal nulla. E’ stato prodotto da meccanismi economici e istituzionali volti a tenere in piedi la dinamica economica malgrado la stagnazione latente. Negli ultimi trent’anni tale stagnazione si è manifestata attraverso il calo dei salari reali e nell’incapacità del complesso militare-industriale di colmare il vuoto di domanda effettiva. Un vuoto che è stato riempito dall’indebitamento, a sua volta reso possibile dalle politiche di «denaro facile» adottate dalla Federal Reserve e del credito da parte delle banche private.
Cambiare un’economia che fino a ieri si è fondata sul sistema militare-industriale da un lato e finanziario indebitorio dell’altro — con tutti gli squilibri nei conti mondiali che ne sono scaturiti — è un lavoro di Sisifo, che implica una riforma radicale del ruolo dello stato federale, dei singoli stati dell’Unione, e del sistema legislativo. Staremo a vedere. Tuttavia vale la pena ricordare il naufragio della pur moderata proposta riformatrice del sistema sanitario avanzato da Hilary Clinton. Cozzò contro ideologie e interessi costituiti di ospedali privati, corporazioni mediche, società di assicurazione, società produttrici di macchinari medici, ecc. Tutti soggetti che beneficiano dell’alto costo delle cure mediche negli Usa.
E questa era solo una riforma parziale, incentrata sul ruolo della «famiglia».
Visti da lontano, gli Usa — per non essere un fattore di crisi sull’economia mondiale — abbisognano di una serie di riforme come l’indebolimento del complesso militare-industriale (assai improbabile), la riforma del sistema bancario, di quello sanitario e dell’istruzione pubblica.
La deposizione al Congresso effettuata nel 2007 da Elizabeth Warren, docente presso la facoltà di legge dell’Università di Harvard, mostra lucidamente la connessione tra la spesa sanitaria e per l’istruzione e la crisi finanziaria delle famiglie, sempre più obbligate a ricorrere all’indebitamento per farvi fronte. Questo è però un problema istituzionale che pesa direttamente sui rapporti sociali, di classe, e non è risolvibile attraverso un normale «moltiplicatore» keynesiano. La Warren ha infatti provato come tutte le spese concernenti i beni correnti siano fortemente calate negli ultimi tre decenni.
Tutto il peso delle spese aggiuntive ricade su servizi sanitari, istruzione e assicurazioni. Il meccanismo è infernale e internazionale.
Le spese per beni correnti sono calate in proporzione al reddito per unità familiare grazie ai prezzi più bassi — frutto della deindustrializzazione e delle importazioni (prevalentemente dal’Asia e dall’America Latina). Questo stesso processo sta alla base della caduta dei salari e quindi del ricorso all’indebitamento. Esso è anche causa degli squilibri mondiali. Good luck Obama.
Perchè boicottare Israele
Il codice a barre israeliano inizia con 729
Qui un volantino da copiare, stampare e diffondere il più possibile…
Israele : boicottaggio, ritiro degli investimenti e sanzioni — 10/01/09
di Naomi Klein
Fonte: Megachip
È ora. Un momento che giunge dopo tanto tempo. La strategia migliore per porre fine alla sanguinosa occupazione è quella di far diventare Israele il bersaglio del tipo di movimento globale che pose fine all’apartheid in Sud Africa.
Nel luglio 2005 una grande coalizione di gruppi palestinesi delineò un piano proprio per far ciò. Si appellarono alla «gente di coscienza in tutto il mondo per imporre ampi boicottaggi e attuare iniziative di pressioni economiche contro Israele simili a quelle applicate al Sudafrica all’epoca dell’apartheid». Nasce così la campagna “Boicottaggio, ritiro degli investimenti e sanzioni” (Boycott, Divestment and Sanctions), BDS per brevità.
Ogni giorno che Israele martella Gaza spinge più persone a convertirsi alla causa BDS, e il discorso del cessate il fuoco non ce la fa a rallentarne lo slancio. Il sostegno sta emergendo persino tra gli ebrei israeliani. Proprio mentre è in corso l’assalto, circa 500 israeliani, decine dei quali artisti e studiosi rinomati, hanno inviato una lettera agli ambasciatori stranieri di stanza in Israele. La lettera chiede «l’adozione immediata di misure restrittive e sanzioni» e richiama un chiaro parallelismo con la lotta antiapartheid. «Il boicottaggio del Sud Africa fu efficace, Israele invece viene trattato con guanti di velluto.… Questo sostegno internazionale deve cessare.»
Tuttavia, molti ancora non ci riescono. Le ragioni sono complesse, emotive e comprensibili. E semplicemente non sono abbastanza buone. Le sanzioni economiche sono gli strumenti più efficaci dell’arsenale nonviolento. Arrendersi rasenta la complicità attiva. Qui di seguito le maggiori quattro obiezioni alla strategia BDS, seguita da contro-argomentazioni.
1. Le misure punitive alieneranno anziché convincere gli israeliani. Il mondo ha sperimentato quello che si chiamava “impegno costruttivo”. Ebbene, ha fallito in pieno. Dal 2006 Israele accresce costantemente la propria criminalità: l’espansione degli insediamenti, l’avvio di una scandalosa guerra contro il Libano e l’imposizione di punizioni collettive su Gaza attraverso un blocco brutale. Nonostante questa escalation, Israele non ha dovuto far fronte a misure punitive, ma anzi, al contrario: armi e 3 miliardi di dollari annui in aiuti che gli Stati Uniti inviano a Israele, tanto per cominciare. Durante questo periodo chiave, Israele ha goduto di un notevole miglioramento nelle sue relazioni diplomatiche, culturali e commerciali con moteplici altri alleati. Ad esempio, nel 2007, Israele è diventato il primo paese non latino-americano a firmare un accordo di libero scambio con il Mercosur. Nei primi nove mesi del 2008, le esportazioni israeliane verso il Canada sono aumentate del 45%. Un nuovo accordo di scambi commerciali con l’Unione europea è destinato a raddoppiare le esportazioni di Israele di preparati alimentari. E l’8 dicembre i ministri europei hanno “rafforzato” l’Accordo di Associazione UE-Israele, una ricompensa a lungo cercata da Gerusalemme.
È in questo contesto che i leader israeliani hanno iniziato la loro ultima guerra: fiduciosi di non dover affrontare costi significativi. È da rimarcare il fatto che in sette giorni di commercio durante la guerra, l’indice della Borsa di Tel Aviv è salito effettivamente del 10,7 per cento. Quando le carote non funzionano, i bastoni sono necessari.
2. Israele non è il Sud Africa. Naturalmente non lo è. La rilevanza del modello sudafricano è che dimostra che tattiche BDS possono essere efficaci quando le misure più deboli (le proteste, le petizioni, pressioni di corridoio) hanno fallito. Ed infatti permangono reminiscenze dell’apartheid profondamente desolanti: documenti di odentità con codici colorati e permessi di viaggio, case rase al suolo dai bulldozer e sfollamenti forzati, strade per soli coloni. Ronnie Kasrils, eminente uomo politico sudafricano, ha detto che l’architettura della segregazione da lui vista in Cisgiordania e a Gaza nel 2007 è “infinitamente peggiore dell’apartheid”.
3. Perché mettere all’indice solo Israele, quando Stati Uniti, Gran Bretagna e altri paesi occidentali fanno le stesse cose in Iraq e in Afghanistan? Il boicottaggio non è un dogma, è una tattica. La ragione per cui la strategia BDS dovrebbe essere tentata contro Israele è pratica: in un paese così piccolo e così dipendente dal commercio potrebbe effettivamente funzionare.
4. Il boicottaggio allontana la comunicazione, c’è bisogno di più dialogo, non di meno. A questa obiezione risponderò con una mia storia personale. Per otto anni i miei libri sono stati pubblicati in Israele da una casa editrice commerciale chiamata Babel. Ma quando ho pubblicato “Shock Economy” ho voluto rispettare il boicottaggio. Su consiglio degli attivisti BDS, ho contattato un piccolo editore chiamato Andalus. Andalus è una casa editrice attivista, profondamente coinvolta nel movimento anti-occupazione ed è l’unico editore israeliano dedicato esclusivamente alla traduzione in ebraico di testi scritti in arabo. Abbiamo redatto un contratto che garantisce che tutti i proventi vadano al lavoro di Andalus, e nessuno per me. In altre parole, io sto boicottando l’economia di Israele, ma non gli israeliani.
Mettere in piedi questo programma ha comportato decine di telefonate, e-mail e messaggi istantanei, da Tel Aviv a Ramallah, a Parigi, a Toronto, a Gaza City. A mio avviso non appena si dà vita ad una strategia di boicottaggio il dialogo aumenta tremendamente. D’altronde, perché non dovrebbe? Costruire un movimento richiede infinite comunicazioni, come molti nella lotta antiapartheid ricordano bene. L’argomento secondo il quale sostenendo i boicottaggi ci taglieremo fuori l’un l’altro è particolarmente specioso data la gamma di tecnologie a basso costo alla portata delle nostre dita. Siamo sommersi dalla gamma di modi di comunicare l’uno con l’altro oltre i confini nazionali. Nessun boicottaggio ci può fermare.
Proprio riguardo ad ora, parecchi orgogliosi sionisti si stanno preparando per un punto a loro favore: forse io non so che parecchi di quei giocattoli molto high-tech provengono da parchi di ricerca israeliani, leader mondiali nell’Infotech? Abbastanza vero, ma mica tutti. Alcuni giorni dopo l’assalto di Israele a Gaza, Richard Ramsey, direttore di una società britannica di telecomunicazioni, ha inviato una e-mail alla ditta israeliana di tecnologia MobileMax. «A causa dell’azione del governo israeliano degli ultimi giorni non saremo più in grado di prendere in considerazione fare affari con voi né con qualsiasi altra società israeliana.»
Quando è stato interpellato da The Nation, Ramsey ha affermato che la sua decisione non è stata politica. «Non possiamo permetterci di perdere neppure uno dei nostri clienti: è stata pura logica difensiva commerciale.»
È stato questo tipo di freddo calcolo che ha portato molte aziende a tirarsi fuori dal Sud Africa due decenni fa. Ed è proprio questo tipo di calcolo la nostra più realistica speranza di portare giustizia, così a lungo negata, alla Palestina.
Traduzione di Manlio Caciopo per Megachip
Articolo orginale: http://www.thenation.com/doc/20090126/klein?rel=hp_currently