Marcia dei folli — La schizofrenia di Israele tra le macerie della Striscia

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questo articolo è stato scritto prima dell’invasione di terra della Striscia e pubblicato da Il Manifesto il 4 gennaio scorso, mi sembra comunque un’ottima analisi politica della situazione.
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di Uri Avnery

Prima di demonizzarlo e bombardarlo a Gaza, Hamas è stato appoggiato da Tel Aviv, per contrastare l’Olp. E con i raid di oggi, lo Stato ebraico, non farà che rafforzare il movimento islamico  

 

Appena dopo la mezzanotte, l’emittente araba di Al Jazeera stava trasmettendo le notizie degli eventi di Gaza. Improvvisamente la telecamera ha inquadrato in alto, verso il cielo scuro. Lo schermo era nero fondo, non si riusciva a distinguere niente. Ma c’era un suono che si poteva sentire: il rumore degli aerei da guerra, uno spaventoso, terrificante boato. Era impossibile non pensare alle decine di migliaia di bambini di Gaza che stavano sentendo, nello stesso momento, quel suono, paralizzati dalla paura, in attesa delle bombe dal cielo. 
«Israele deve difendersi dai razzi che stanno terrorizzando le nostre città del sud», ha spiegato il portavoce israeliano. «I palestinesi devono rispondere alle uccisioni dei loro combattenti nella Striscia di Gaza», ha dichiarato il portavoce di Hamas. Per essere esatti, nessun cessate il fuoco è stato interrotto, perché nessun cessate il fuoco era mai iniziato. Il requisito principale di ogni cessate il fuoco nella Striscia di Gaza deve essere l’apertura dei passaggi. Non ci può essere vita a Gaza senza un flusso costante di rifornimenti. Ma le frontiere non sono state aperte, se non poche ore ogni tanto.

Bloccare un milione e mezzo di esseri umani per via di terra, mare e aria è un atto di guerra, esattamente come il lancio delle bombe o dei razzi. Paralizza la vita nella Striscia di Gaza: elimina gran parte delle fonti che creano occupazione, porta centinaia dimigliaia al limite della morte di fame, blocca il funzionamento della maggior parte degli ospedali, distrugge la distribuzione di elettricità e d’acqua.

Coloro che hanno deciso di chiudere i passaggi — sotto qualsivoglia pretesto — sapevano che non ci sarebbe stato nessun reale cessate il fuoco in queste condizioni. Questo è il fatto principale. Poi ci sono state piccole provocazioni volte deliberatamente a suscitare la reazione di Hamas. Dopo diversi mesi durante i quali i razzi Qassam a malapena si sono visti, un’unità dell’esercito è stata inviata nella Striscia «per distruggere un tunnel che arrivava vicino alla recinzione della frontiera». Da un punto di vista puramente strategico, avrebbe avuto più senso tendere un’imboscata sul nostro lato della frontiera. Ma lo scopo era quello di trovare un pretesto per metter fine al cessate il fuoco, in una maniera che consentisse di addossare la colpa ai palestinesi. E così è stato, dopo diverse piccole azioni del genere, nelle quali alcuni guerriglieri di Hamas sono stati uccisi, Hamas ha risposto con un massiccio lancio di missili, ed ecco, il cessate il fuoco è giunto alla fine. Tutti hanno incolpato Hamas. 

 


Qual è lo scopo? Tzipi Livni lo ha annunciato apertamente: rovesciare il governo di Hamas a Gaza. I Qassam sono serviti solo come pretesto. Rovesciare il governo di Hamas? Suona quasi come un capitolo estratto dalla «Marcia dei folli». Dopo tutto non è un segreto che fu il governo israeliano a supportare Hamas, all’inizio. Una volta interoggai su questo l’allora capo dello Shin-Bet, Yakakov Peri, che rispose enigmaticamente: «Non lo abbiamo creato noi, ma non abbiamo impedito la sua creazione.»
Per anni le autorità d’occupazione promossero il movimento islamico nei territori occupati. Ogni altra iniziativa politica era rigorosamente soppressa, ma lo loro attività nelle moschee era permessa. Il calcolo era semplice, e ingenuo: al tempo l’Olp era considerato il nemico principale, Yasser Arafat il satana. Il movimento islamico predicava contro l’Olp e Arafat ed era perciò visto come un alleato.

Abu Mazen, un «pollo spennato»
Con l’esplodere della prima intifada nel 1987, il movimento islamico si rinominò ufficialmente Hamas (l’acronimo arabo di «movimento islamico di resistenza») e si unì alla lotta. Anche allora lo Shin-bet non mosse un dito contro di loro per quasi un anno, mentre i membri del Fatah erano imprigionati o uccisi in gran numero. Solo dopo un anno lo sceicco Ahmed Yassin e i suoi colleghi furono arrestati. Da allora la ruota ha girato. Hamas è il satana odierno, e l’Olp è considerato da molti in Israele quasi una branca del movimento sionista. La conclusione logica per un governo di Israele interessato alla pace sarebbe stata quella di fare ampie concessioni alla leadership di Fatah: la fine dell’occupazione, la firma di un trattato di pace, la fondazione dello stato di Palestina, il ritiro entro i confini del 1967, una soluzione ragionevole al problema dei rifugiati, il rilascio di tutti i prigionieri palestinesi. Questo avrebbe sicuramente arrestato l’ascesa di Hamas.
Ma la logica ha una scarsa influenza sulla politica. Niente del genere è accaduto. Al contrario, dopo l’uccisione di Arafat, Abu Mazen, che ha preso il suo posto, è stato definito da Ariel Sharon un «pollo spennato». Ad Abu Mazen non è stato concesso il minimo margine di operatività politica. I negoziati, sotto gli auspici americani, sono diventati una barzelletta. Il più autentico leader di Fatah, Marwan Barghouti, è stato mandato in carcere a vita. Al posto di un massiccio rilascio di prigionieri, ci sono stati «segnali» meschini e offensivi.
Abu Mazen è stato umiliato sistematicamente, Fatah ha assunto l’aspetto di una conchiglia vuota, e Hamas ha ottenuto una risonante vittoria alle elezioni palestinesi — le elezioni più democratiche mai tenute nel mondo arabo. Israele ha boicottato il governo eletto. Nella successiva battaglia interna, Hamas ha assunto il controllo della Striscia di Gaza. E ora, dopo tutto ciò, il governo di Israele ha deciso di «rovesciare il governo di Hamas a Gaza».
Il nome ufficiale dell’azione bellica è «piombo fuso», due parole tratte da una canzone infantile su un giocattolo di Hanukkah. Sarebbe stato più appropriato chiamarla «guerra delle elezioni». Anche nel passato le azioni militari sono state intraprese durante campagne elettorali. Menachen Begin bombardò il reattore nucleare iracheno durante la campagna del 1981. Quando Shimon Peres affermò che si trattava di una trovata elettorale, Begin alzò la voce al comizio seguente: «Ebrei, davvero credete che io potrei mandare i nostri figli coraggiosi alla morte, o, peggio ancora, ad esser fatti prigionieri da degli animali, solo per vincere le elezioni?». Begin vinse.
Ma Peres non è Begin. Quando, durante la campagna del 1996, ordinò l’invasione del Libano, tutti erano convinti che si trattasse di una trovata elettorale. La guerra fu un fallimento, Peres perse le elezioni e Netanyahu salì al potere. Barak e Tzipi Livni stanno ora ricorrendo allo stesso vecchio trucco. Secondo i sondaggi, la prevista vittoria di Barak gli ha fatto guadagnare 5 seggi della Knesset. Circa 80 morti palestinesi per ogni seggio. Ma è difficile camminare sui cadaveri. Il successo potrebbe evaporare in un istante, se la guerra cominciasse a essere considerata un fallimento dall’opinione pubblica israeliana. Per esempio, se i missili continuano a colpire Beersheba, o se l’attacco di terra porta a un pesante numero di vittime tra gli israeliani.
Un esperimento scientifico
Il momento è stato scelto con cura anche da un altro punto di vista. L’attacco è cominciato due giorni dopo Natale, quando i leader americani e europei sono in vacanza. Il calcolo: anche se qualcuno volesse provare a fermare la guerra, nessuno rinuncerebbe alle vacanze. Il che ha garantito diversi giorni senza alcuna pressione esterna. Un’altra ragione che rende il momento appropriato: sono gli ultimi giorni della permanenza di Bush alla Casa bianca. Ci si aspettava che questo idiota assetato di sangue appoggiasse entusiasticamente l’attacco, come in effetti ha fatto. Barack Obama non ha ancora iniziato il suo incarico, e ha quindi un pretesto per rimanere in silenzio: «C’è un solo presidente».
Questo silenzio non fa presagire nulla di buono per il mandato di Obama. La linea fondamentale è stata: non bisogna ripetere gli errori della seconda guerra del Libano. Questo è stato ripetuto incessantemente in ogni notiziario e talk show. Ma ciò non toglie che la guerra di Gaza sia una replica pressoché identica della seconda guerra del Libano. Il concetto strategico è lo stesso: terrorizzare la popolazione civile attraverso attacchi aerei costanti, seminando morte e distruzione. I piloti non corrono alcun pericolo, in quanto i palestinesi non hanno una contraerea. Il calcolo: se tutte le infrastrutture che consentono la vita nella Striscia sono letteralmente distrutte, e si arriva quindi alla totale anarchia, la popolazione si solleverà e rovescerà il regime di Hamas. Abu Mazen rientrerà poi a Gaza al seguito dei carri armati israeliani. In Libano questo calcolo non ha funzionato. La popolazione bombardata, cristiani inclusi, si è radunata attorno a Hezbollah, e Nashrallah è diventato l’eroe del mondo arabo. Qualcosa di simile accadrà probabilmente anche questa volta. I generali sono esperti nell’usare le armi e nel muovere le truppe, non nella psicologia di massa.
Qualche tempo fa scrissi che il blocco di Gaza può essere inteso come un esperimento scientifico, mirato a scoprire quanto si può affamare una popolazione prima che scoppi. Questo esperimento è stato portato avanti con il generoso aiuto dell’Europa e degli Stati uniti. Finora non è riuscito. Hamas è diventato più forte e la gettata dei Qassam più lunga. La presente guerra è una continuazione dell’esperimento con altri mezzi. Potrebbe essere che l’esercito «non abbia alternativa» se non riconquistare la Striscia, perché non c’è altro modo per fermare i Qassam, se non quello — contrario alla politica del governo — di arrivare a un accordo con Hamas. Quando partirà la missione di terra, tutto dipenderà dalla motivazione e dalla capacità dei combattenti di Hamas rispetto ai soldati israeliani. Nessuno può prevedere quanto accadrà.
Giorno dopo giorno, notte dopo notte, Al Jazeera trasmette immagini atroci: brandelli di corpi mutilati, parenti in lacrime in cerca dei loro cari tra le dozzine di cadaveri, una donna che solleva la sua bambina da sotto le macerie, dottori senza mezzi che cercano di salvare le vite dei feriti.
In milioni stanno vedendo queste immagini terribili, giorno dopo giorno. Queste immagini saranno impresse nella loro mente per sempre. Un’intera generazione coltiva l’odio. Questo è un prezzo terribile, che saremo costretti a pagare ancora a lungo dopo che gli altri effetti della guerra saranno stati dimenticati in Israele.
Ma c’è un’altra cosa che si sta imprimendo nelle menti di questi milioni: l’immagine dei corrotti e passivi regimi arabi. Visto dagli arabi, un fatto s’impone su tutti gli altri: il muro della vergogna. Per il milione e mezzo di arabi a Gaza, che stanno soffrendo così terribilmente, l’unica apertura al mondo che non sia dominata da Israele è il confine con l’Egitto. Solo da lì può arrivare il cibo che consente la vit
a, da lì arrivano i medicinali che salvano i feriti. Al culmine dell’orrore questo confine resta chiuso. L’esercito egiziano ha bloccato l’unica via d’accesso per cibo e medicinali, mentre i chirurghi operano senza anestetici.
Per il mondo arabo, da un capo all’altro, hanno fatto eco le parole di Hassan Nashrallah: «I leader egiziani sono complici in questo crimine, stanno collaborando con il «nemico sionista» che cerca di rompere il popolo palestinese». Si può assumere che non intendesse solo Mubarak, ma anche tutti gli altri leader, dal re saudita al presidente dell’Anp. Se si guarda alle manifestazioni in tutto il mondo arabo, se si ascoltano gli slogan, se ne deduce l’impressione che i loro leader sono visti da molti come patetici nel migliore dei casi, come meschini collaborazionisti nel peggiore.
Questo avrà conseguenze storiche. Un’intera generazione di leader arabi, una generazione imbevuta dell’ideologia nazionalista secolare araba — i successori di Nasser, di Hafez al-Assad e Yasser Arafat– sarà messa fuori scena. In campo arabo, l’unica alternativa percorribile è l’ideologia del fondamentalismo islamico.
Questa guerra è un presagio infelice: Israele sta perdendo l’occasione storica di fare la pace con il nazionalismo arabo secolare. Domani potrebbe essere davanti a un mondo arabo uniformemente fondamentalista, un Hamas mille volte più grande.

 

 

 

(traduzione di Nicola Vincenzoni)

 

 

 

 


Gaza: Genocidio

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Gaza: Guernica è uscita dalla tela e si è trafigurata in realtà in questo inferno

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Non so che succede fuori da questo inferno, ma mi auguro fortemente che le masse si mobilitino, così come ad Atene hanno fatto per la morte di un ragazzino ucciso da un fascista travestito da poliziotto.
Qui siamo quasi a 300 morti, molte le donne e i bambini.
E’ il momento una volta per tutte di mettere Israele in un angolo, e condannarlo per i suoi atroci crimini contro l’umanità Alzate la vostra voce di indignazione, come noi urliamo di dolore e disperazione.
Guernica è uscita dalla tela e si è trafigurata in realtà in questo inferno.
Vik in Gaza

Vittorio Arrigoni
blog: 
http://guerrillaradio.iobloggo.com/


Non accetteremo di diventare una forza di repressione e di terrore. Lettera dei militari greci

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(19 Dicembre 2008)

I soldati di 42 campi dell’esercito greco dichiarano:
“CI RIFIUTIAMO DI DIVENTARE UNA FORZA DI TERRORE E DI REPRESSIONE CONTRO LE MOBILITAZIONI; APPOGGIAMO LA LOTTA DEGLI STUDENTI DI SCUOLA/UNIVERSITA’ E DEI LAVORATORI”

“Siamo dei soldati da ogni parte della Grecia Soldati ai quali, a Hania, è stato ordinato di opporsi a studenti universitari, lavoratori e combattenti del movimento movimento antimilitarista portando le nostre armi e poco tempo fa. Soldati che portano il peso delle riforme e della “preparazione” dell’esercito greco. Soldati che vivono tutti i giorni attraverso l’oppressione ideologica del militarismo, del nazionalismo dello sfruttamento non retribuito e della sottomissione ai “nostri superiori”. Nei campi dell’esercito nei quali serviamo, sentiamo di un altro “incidente isolato”: la morte, provocata dall’arma di un poliziotto, di un quindicenne di nome Alexis.”

“Sentiamo di lui negli slogan portati sopra le mura esterne del campo come un tuono lontano. Non sono stati chiamati incidenti anche la morte di tre nostri colleghi in agosto? Non è stata pure chiamata un incidente isolato la morte di ciascuno dei 42 soldati che sono morti negli ultimi tre anni e mezzo? Sentiamo che Atene, Thessalonica ed un sempre crescente numero di città in Grecia sono diventate campi di agitazione sociale, campi dove viene recitato fino in fondo il risentimento di migliaia di giovani, di lavoratori e di disoccupati. Vestiti con uniformi dell’esercito ed “abbigliamento da lavoro”, facendo la guardia al campo o correndo per commissioni, facendo i servitori dei “superiori”, ci troviamo ancora lì in quegli stessi campi.”

” Abbiamo vissuto, come studenti universitari, come lavoratori e come disperatamente disoccupati, le loro “pentole d’argilla”, i “ritorni di fiamma accidentali”, i “proiettili deviati”, la disperazione della precarietà, dello sfruttamento, dei licenziamenti e dei procedimenti giudiziari. Ascoltiamo i mormorii e le insinuazioni degli ufficiali dell’esercito, ascoltiamo le minacce del governo, rese pubbliche, sull’imposizione dello “stato d’allarme”. Sappiamo molto bene cosa ciò significhi. Viviamo attraverso l’intensificazione del lavoro, aumentate mansioni dell’esercito, condizioni estreme con un dito sul grilletto.”

“Ci è stato ordinato di stare attenti e di “tenere gli occhi aperti”.
Ci chiediamo: A CHI CI AVETE ORDINATO DI STARE ATTENTI?
Oggi ci è stato ordinato di stare pronti ed in allarme.
Ci chiediamo? VERSO CHI DOVREMMO STARE IN ALLARME?

Ci avete ordinato di stare pronti a far osservare lo stato di ALLARME:
• Distribuzione di armi cariche in certe unità dell’Attica [dove si trova Atene] accompagnata anche dall’ordine di usarle contro i civili se minacciate. (per esempio, una unità dell’esercito a Menidi, vicino agli attacchi contro la stazione di polizia di Zephiri)
• Distribuzione di baionette ai soldati ad Evros [lungo la frontiera turca]
• Infondere la paura nei dimostranti spostando i plotoni nell’area periferica dei campi dell’esercito • Spostare per protezione i veicoli della polizia nei campi dell’esercito a Nayplio-Tripoli-Korinthos
• Il “confronto” da parte del maggiore I. Konstantaros nel campo di addestramento per reclute di Thiva riguardo l’identificazione di soldati con negozianti la cui proprietà è stata danneggiata
• Distribuzione di proiettili di plastica nel campo di addestramento per reclute di Corinto e l’ordine di sparare contro i nostri concittadini se si muovessero “minacciosamente” (nei riguardi di chi???)
• Disporre una unità speciale alla statua del “Milite ignoto” giusto di fronte ai dimostranti sabato 13 dicembre come pure mettere in posizione i soldati del campo di addestramento per reclute di Nayplio contro la manifestazione dei lavoratori
• Minacciare i cittadini con Unità Operazioni Speciali dalla Germania e dall’Italia — nel ruolo di un esercito di occupazione — rivelando così il vero volto anti-lavoratori/autoritari

o della U.E. La polizia che spara prendendo a bersaglio le rivolte sociali presenti e future.

“E’ per questo che preparano un esercito che assuma i compiti di una forza di polizia e la società ad accettare il ritorno all’esercito del totalitarismo riformato. Ci stanno preparando ad opporci ai nostri amici, ai nostri conoscenti ed ai nostri fratelli e sorelle. Ci stanno preparando ad opporci ai nostri precedenti e futuri colleghi al lavoro ed a scuola. Questa sequenza di misure dimostra che la leadership dell’esercito, della polizia e l’approvazione di Hinofotis (ex membro dell’esercito professionale, attualmente vice ministro degli interni, responsabile per “agitazioni” interne), del QG dell’esercito, dell’intero governo, delle direttive della U.E., dei negozianti-come-cittadini-infuriati e dei gruppi di estrema destra mirano ad utilizzare le forze armate come un esercito di occupazione — non ci chiamate “corpo di pace” quando ci mandate all’estero a fare esattamente le stesse cose? — nelle città dove siamo cresciuti, nei quartieri e nelle strade dove abbiamo camminato.”

” La leadership politica e militare dimentica che siamo parte della stessa gioventù. Dimenticano che siamo carne della carne di una gioventù che sta di fronte al deserto del reale all’interno ed all’esterno dei campi dell’esercito. Di una gioventù che è furibonda, non sottomessa e, ancora più importante, SENZA PAURA.”

SIAMO CIVILI IN UNIFORME.
Non accetteremo di diventare strumenti gratuiti della paura che alcuni cercano di instillare nella società come uno spaventapasseri. Non accetteremo di diventare una forza di repressione e di terrore. Non ci opporremo al popolo con il quale dividiamo quegli stessi timori, bisogni e desideri/lo stesso futuro comune, gli stessi pericoli e le stesse speranze.”

CI RIFIUTIAMO DI SCENDERE IN STRADA PER CONTO DI QUALSIASI STATO D’ALLARME CONTRO I NOSTRI FRATELLI E SORELLE.

“Come gioventù in uniforme, esprimiamo la nostra solidarietà al popolo che lotta e urliamo che non diventeremo delle pedine dello stato di polizia e della repressione di stato. Non ci opporremo mai al nostro popolo. Non permetteremo nei corpi dell’esercito l’imposizione di una situazione che ricordi i “giorni del 1967″

(1) — Testo originale in lingua greca:
http://indy.gr/newswire/epistol-apo-ta-stratopeda-poy-arneitai-ton-katastaltiko-rolo-toy-stratoy
(2) — Traduione in inglese:
http://www.tapesgoneloose.blogspot.com/


Grecia: disordini

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Fonte:  gli amici di QuiNews.it

 


Affari e misteri sulla rotta Italia — Libia

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Affari e Misteri sulla rotta Italia – Libia
di Antonio Mazzeo 
 
Sono ancora tante le zone d’ombra nella storia delle relazioni politiche e militari tra Italia e Libia. Il 31 ottobre scorso, il ministro degli Esteri libico Abdurrahman Shalgam, ha ulteriormente complicato il lavoro di storici ed analisti, rivisitando gli eventi di guerra della primavera 1986, quando l’allora presidente degli Stati Uniti Ronald Reagan, diede l’ordine di bombardare Tripoli e Bengasi. La notte del 14 aprile decine di cacciabombardieri F-111 schierati in due basi britanniche e gli aerei della VI Flotta di stanza nel Mediterraneo distrussero caserme militari e abitazioni civili, causando la morte di 37 persone. Obiettivo del blitz Usa l’assassinio del colonnello Muammar Gheddafi, accusato – senza prove — di finanziare il terrorismo internazionale.
 
 
“Avvisate il colonnello!”
 
“Gheddafi si salvò – ha dichiarato Abdurrahman Shalgam – perché due giorni prima dell’aggressione Craxi mi mandò un amico comune italiano per dirmi: ‘Attenti, il 14 o il 15 aprile ci sarà un raid americano contro di voi’. In quell’occasione gli Stati Uniti utilizzarono la base di Lampedusa, ma contro la volontà del governo italiano, perché Roma era contraria all’uso dei cieli e dei mari nazionali per l’aggressione”.
Per il ministro libico, l’Italia faceva il doppio gioco. Nel nome dei comuni interessi (principalmente le forniture petrolifere all’Eni), l’allora presidente del consiglio Bettino Craxi avrebbe chiesto al proprio consigliere diplomatico, l’ambasciatore Antonio Badini, di preavvertire il governo libico delle intenzioni di guerra del partner Nato. Allo stesso tempo Palazzo Chigi sosteneva l’intervento “anti-terrorismo” di Washington. Un equilibrismo sul filo del rasoio. Se è pur vero, infatti, che in occasione dell’attacco Usa del 14 aprile 1986 l’Italia non autorizzò i bombardieri Usa a sorvolare lo spazio aereo nazionale, gli aerei cisterna per rifornire in volo gli F-111 partirono da una base Usa in Italia (probabilmente Sigonella), mentre tutti i porti civili e militari siciliani ospitarono le soste tecniche delle unità navali della VI flotta, alla vigilia e dopo i bombardamenti su Tripoli e Bengasi.   
“Quell’attacco americano fu un’iniziativa impropria, un errore di carattere internazionale”, ha commentato Giulio Andreotti, al tempo ministro degli Esteri del governo Craxi. “E credo proprio che dall’Italia partì un avvertimento per la Libia ”, ha aggiunto il senatore a vita, confermando le “rivelazioni” libiche. Ancora più esplicita la vecchia guardia del partito socialista italiano. “Gheddafi salvato da Craxi?”, ha dichiarato Gianni De Michelis, più volte alla guida della Farnesina e ministro del lavoro nei giorni del conflitto Usa-Libia. “Si sapeva da tempo che i rapporti tra Roma e Tripoli erano più che buoni. Se c’è un filo conduttore tra la Prima e la Seconda Repubblica è senza dubbio il rapporto tra Roma e Tripoli. Da Andreotti a Craxi fino a Berlusconi, Prodi e D’Alema, si è sempre mantenuto saldo il rapporto. La Libia è quasi parte d’Italia e noi non abbiamo fatto mai mistero delle nostre idee e dei nostri contatti coi libici (…) Craxi fece avvertire il governo libico e anche gli americani subito dopo cercarono agganci, tant’è che alla fine hanno trovato una composizione anche per la strage di Lockerbee”. Anche l’allora responsabile esteri del Psi, Margherita Boniver, ha confermato l’“aiuto” di Bettino Craxi: “L’operazione militare non era condivisa e per questo il governo italiano mise in guardia Gheddafi. Ed usò tutti i mezzi a sua disposizione…”.
La rivisitazione storica di quegli eventi era già iniziata, sempre in casa dell’(ex) garofano, durante la campagna di beatificazione del defunto leader socialista. “Fu Craxi a informare Gheddafi dell’imminente blitz americano, permettendo al leader libico di salvarsi”, rivelò nel 2003 Cesare Marini, senatore Sdi. Non è stato dunque uno scoop quello di Abdurrahman Shalgam. Del doppio canale diplomatico si sapeva da tempo.
 
 
Giochi di guerra nel Mediterraneo
 
Ecco perché le dichiarazioni dell’alto rappresentante dell’esecutivo libico hanno prodotto forti perplessità e qualche risentimento tra alcuni dei protagonisti politici che nel biennio 1985–86 si opposero alla campagna di guerra nel Mediterraneo, denunciando altresì l’asfissiante processo di militarizzazione della Sicilia che ne derivò. Gli esponenti dell’allora forte movimento pacifista siciliano ricordano che l’Italia era in prima linea contro la Libia a fianco di Washington e che proprio Bettino Craxi e l’intero partito socialista erano tra i più accesi denigratori dei pacifisti, accusati tutti di essere manovrati e finanziati da Gheddafi. L’on. Agostino Spataro, ex componente Pci delle Commissioni Affari esteri e Difesa della Camera dei Deputati, ricorda su Aprile che nonostante l’“avviso”, sotto le bombe statunitensi morì la figlioletta adottiva di tre anni del colonnello libico. “In realtà – spiega l’ex parlamentare — quella notte è accaduto quello che da tempo si temeva, e si sapeva, ovvero che l’amministrazione Reagan aveva già pianificato l’attacco alla Libia”.
Spataro aggiunge che a seguito dell’attacco, il 15 aprile 1986, la Libia rispose con il lancio di due missili Scud contro la stazione Loran dell’Us Guard Coast ospitata nell’isola di Lampedusa. “Gheddafi, infuriato per la vile, indiscriminata aggressione, non indirizzò la rappresaglia verso uno dei tanti possibili obiettivi Usa, ma scagliò i suoi missili contro l’Italia ovvero contro il paese-amico il cui capo del governo l’aveva avvisato dell’imminente pericolo. Ma quei due missili partirono dal suolo libico e soprattutto raggiunsero effettivamente Lampedusa? Già allora affiorarono seri dubbi, sia per la scarsa potenzialità ed efficienza della tecnologia militare libica e sia per fatto, non secondario, che i lampedusani non si accorsero dell’arrivo dei due potenti ordigni. Ancora oggi si sconosce il punto esatto dell’impatto. Nessuno è in grado di dimostrare che i due missili siano arrivati a Lampedusa e o nelle sue immediate vicinanze”.
Per il socialista Cesare Marini si trattò di mera “finzione”: il lancio dei missili su Lampedusa fu solo un espediente depistante, “utilizzato per coprire l’amico italiano” d’avanti agli Stati Uniti. “Di certo io non mi sono spaventato”, ha dichiarato l’immancabile Giulio Andreotti. “La mia sensazione è che i missili furono lanciati ma volutamente fuori bersaglio: non c’era nessuna volontà di causarci dei danni”. Una vera e propria fiction di guerra, dunque.
Il pomeriggio del 15 aprile 1986, gli abitanti di Lampedusa avvertirono due boati a largo dell’isola. Il primo dispaccio di agenzia parlò di “cannonate sparate da una motovedetta libica”. Qualche minuto dopo si parlò del “Bang” dovuto al passaggio a bassa quota di aerei supersonici. Intorno alle 18 le autorità americane informarono il ministro della Difesa italiano, Giovanni Spadolini, del lancio di due missili contro l’isola. Gli ordigni però erano caduti a un paio di chilometri dalla costa. Il giorno successivo l’ambasciatore libico a Roma confermò l’attacco: “I missili sono venuti dalla Libia. Ma non abbiamo cercato di colpire l’Italia ma una base Usa”.
 
 
Due missili che si sono persi nel nulla
 
Ma che accadde realmente quel giorno? A rendere più torbidi i contorni della vicenda ci ha pensato l’ex generale, Basilio Cottone, siciliano originario del comune di Raccuia (Messina), capo di stato maggiore dell’Aeronautica militare dal 1983 al 1986. In un’intervista al quotidiano Pagine di Difesa del 20 settembre 2005, Cottone, si è detto scettico del lancio dei missili libici. “Sono stato responsabile dell’approntamento della reazione italiana al lancio dei missili su Lampedusa”, ha esordito l’ex militare. “Personalmente non ho mai creduto che siano stati lanciati missili da parte libica contro il territorio italiano. Ma, poiché allora tutti lo credevano, ho ritenuto di operare di conserva. La notizia del lancio dei missili per me era falsa e le azioni messe in atto volevano accreditarla. Molte organizzazioni extranazionali erano allora interessate al fatto che il governo italiano adottasse una politica di più forte chiusura nei confronti della Libia. È da tener presente che negli anni ‘70 e gli inizi degli ’80, gli attentati terroristici contro obiettivi occidentali erano numerosi. Tra questi: dirottamenti di aerei passeggeri, abbattimenti di velivoli commerciali, strage alla Olimpiade di Monaco del ‘72 e attentato di Fiumicino della fine del ‘73. In questo quadro si inserisce la missione in Libia di Argo-16 con la quale sono stati fatti rientrare i terroristi palestinesi arrestati a Fiumicino mentre preparavano un attentato a un velivolo di linea israeliano. Questi, e altri eventi successivi, portarono a un irrigidimento politico da parte degli occidentali verso la Libia di Gheddafi”. Basilio Cottone sostiene che “qualcuno” tentò di creare le condizioni per incrinare irrimediabilmente le relazioni Roma-Tripoli. “Da qui alle notizie dei missili su Lampedusa la strada fu breve. Penso, sia stata un’azione di ‘servizi’ che hanno montato la cosa, però il fatto ha assunto credibilità internazionale ed è rimasto nell’immaginario collettivo il lancio concreto”.
Alle parole dell’ex capo di stato maggiore, hanno fatto seguito quelle del generale Mario Arpino, successore di Cottone alla guida dell’Aeronautica. In un’intervista a L’Espresso (25 novembre 2005), Arpino ha ammesso che le forze armate non raccolsero mai nessuna prova evidente dell’attacco missilistico. “I nostri radar non erano in grado di scoprire missili di quel genere”, ha aggiunto il generale. “Avevamo chiesto alla Nato di fornirci degli Awacs, radar volanti molto potenti, ma ci furono concessi mesi dopo. Io ero responsabile della sala di crisi e gli americani non mi comunicarono nulla. Se informavano qualcuno, lo facevano a livello politico. So con certezza che non venimmo nemmeno avvisati del raid contro Tripoli. Ricordo la sorpresa quella notte quando i nostri radar scoprirono gli aerei diretti in Libia”.
Prima della nomina ai massimi vertici dell’AMI, Basilio Cottone era stato comandante della 5° Ataf di Vicenza, la forza aerotattica della Nato, e successivamente rappresentante militare italiano presso il Comitato dell’Alleanza Atlantica di Bruxelles. Dimessosi dalle Forze Armate, l’alto ufficiale fu nominato, il 14 aprile 1993, presidente del consiglio d’amministrazione dell’Agusta Spa, società leader nella produzione di elicotteri da guerra. Ai vertici dell’industria di elicotteri, Cottone ci resterà ininterrottamente per sette anni, per poi divenirne consigliere. L’ingresso del generale in Agusta avvenne quattordici giorni prima della caduta del primo governo di Giuliano Amato (Psi), ministro della difesa il siciliano Salvo Andò (Psi) e sottosegretari due potenti politici della provincia di Messina, Salvatore D’Alia (Dc) e Dino Madaudo (Psdi). La nomina del generale Cottone fu adottata dall’allora commissario liquidatore dell’Efim, Alberto Predieri, dopo l’arresto del manager Roberto D’Alessandro, ex presidente Agusta — poi prosciolto — nell’ambito dell’inchiesta sul pagamento di tangenti a favore del Partito socialista per la fornitura di 12 elicotteri alla Protezione civile (ministro, allora, Nicola Capria, Psi e anch’egli messinese).
L’1 settembre 1993, un’altra inchiesta, “Arzente Isola”, avrebbe coinvolto l’Agusta relativamente ad una transazione di armi gestita da alcuni faccendieri messinesi sulle rotte Italia-Antille Olandesi-Perù-Siria. Nello specifico, nella primavera del 1992 fu avviata la trattativa per il trasferimento di dodici elicotteri CH47 “Agusta” alla Guardia nazionale dell’Arabia Saudita. Tra gli intermediari dell’affaire, il noto trafficante d’armi arabo Adnan Kashoggi ed imprenditori vicini all’entourage dell’odierno presidente del consiglio italiano. Alla fine, però, l’inchiesta giudiziaria si arenò nelle sabbie mobili della Procura di Messina.
 
 
Armi e cemento per i partner nordafricani
 
L’Agusta, oggi AgustaWestland, è con l’Eni una delle prime società italiane tornate ad operare in Libia dopo il riavvicinamento Roma-Tripoli. Nel gennaio del 2006 sono stati forniti alle forze armate libiche, 10 elicotteri A109 Power, valore 80 milioni di euro, destinati al “controllo delle frontiere”. La società italiana ha pure sottoscritto un accordo con la Libyan Company for Aviation Industry per costituire una joint venture ( la Libyan Italian Advanced Tecnology Company — Liatec), per lo sviluppo di attività nel settore aeronautico e dei sistemi di sicurezza. L’anno successivo è stata la volta di Finmeccanica, la holding che detiene il controllo di AgustaWestland, a firmare un accordo con il governo libico per la creazione di una joint venture nel campo dell’elettronica e dei sistemi di telecomunicazione per la difesa, con target il mercato libico e parte del continente africano. Nel gennaio 2008, Alenia Aeronautica, altra società del gruppo Finmeccanica, ha siglato con il ministero dell’Interno libico un contratto del valore di oltre 31 milioni di euro per la fornitura del velivolo da pattugliamento marittimo ATR-42MP “Surveyor”.
L’industria bellica italiana attende trepidante la ratifica del Trattato di cooperazione italo-libico sottoscritto da Silvio Berlusconi e dal colonnello Gheddafi. All’articolo 20 del Trattato si prevede infatti “un forte ed ampio partenariato industriale nel settore della Difesa e delle industrie militari”, nonché lo sviluppo della “collaborazione nel settore della Difesa tra le rispettive Forze Armate”, mediante lo scambio di missioni di esperti e l’espletamento di manovre congiunte (anche se è dal 2001 che le marine militari di Italia e Libia effettuano annualmente l’esercitazione “Nauras” nel Canale di Sicilia). I due paesi s’impegnano altresì a definire “iniziative, sia bilaterali, sia in ambito regionale, per prevenire il fenomeno dell’immigrazione clandestina nei Paesi di origine dei flussi migratori”.
Non è stata certo una coincidenza che le dichiarazioni del ministro Shalgam sul pre-avvertimento del bombardamento Usa nel 1986 siano coincise con il convegno organizzato a Roma dalla fondazione guidata dall’ex ministro Beppe Pisanu, presenti Giulio Andreotti, il ministro degli Esteri Franco Frattini, il figlio primogenito del leader libico, Saif El-Islam, e il gotha dell’imprenditoria italiana (Eni, Enel, Telecom, Unicredit, Trenitalia, Bnl, Fondiaria-Sai, Impregilo, ecc.). In cantiere ci sono opere “compensatorie” dei crimini coloniali italiani per 5 miliardi di dollari da realizzare in Libia nei prossimi 20 anni. Il Trattato di cooperazione Italo-libico prevede espressamente che saranno le aziende italiane a realizzare i progetti infrastrutturali.
Intanto il capitale libico fa incetta di pacchetti azionari delle maggiori società italiane. Acquisito il 4,9% di Unicredit, la Central Bank of Libya starebbe per rilevare una quota tra l’1 e il 2% di Terna, la società che gestisce la rete elettrica nazionale. I libici starebbero pure per fare ingresso in Impregilo, il colosso delle costruzioni italiane, general contractor per la realizzazione del Ponte sullo Stretto di Messina, del Mose di Venezia e di importanti tratte della TAV ferroviaria. I libici punterebbero ad acquistare circa il 5% del capitale, ottenendo pure un posto nel consiglio d’amministrazione d’Impregilo. In Libia, del resto, il gruppo italiano ha costituito qualche mese fa una joint venture per realizzare tre università nelle città di Misuratah, Tarhunah e Zliten (valore del contratto, 400 milioni di euro).
Al convegno di Roma del 31 ottobre, l’amministratore delegato d’Impregilo, Massimo Ponzellini, è comparso accanto a Saif El-Islam. Cresciuto all’ombra dell’ex presidente del consiglio Romano Prodi, dopo aver ricoperto l’incarico di direttore generale del centro studi Nomisma e dirigente superiore dell’IRI, Massimo Ponzellini passò a sedere nel consiglio d’amministrazione di Finmeccanica. Amministratore delegato della holding di controllo del complesso militare industriale italiano è stato pure Alberto Lina, amministratore delegato d’Impregilo sino al 2007.
Armi e cemento segnano la strategia di penetrazione in nord Africa del capitale finanziario nostrano. “Italiani? Brava gente…”. 
 

11 Settembre e lotta al terrorismo, non tutte le vittime sono invitate

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All’ONU, alla vigilia di  quella che sta diventando sempre più  la giornata internazionale contro il terrorismo, oggi hanno  parlato le vittime.
Quelle sopravvissute agli attacchi delle Twin Towers, come quelle scampate  agli  attentati kamikaze a Gerusalemme, i familiari dei morti della strage  di Beslan, come quelli rimasti uccisi negli attentati di Bali, quelli di Londra, come quelli di Madrid. C’erano anche i familiari degli attentati delle Brigate Rosse e ovviamente non poteva mancare Ingrid Betancourt, relatrice principale della giornata.
L’evento, il primo Forum Internazionale  di Supporto alle Vittime del Terrorismo è stato organizzato a New York dal segretario generale dell’ONU,  Ban Ki Moon .
E’ interessante però  ricordare qui quale fu il manifesto di guerra pronunciato da   George Bush davanti al Congresso degli Stati Uniti il 20 settembre del 2001, 9 giorni dopo l’attacco alle Torri Gemelle:“La nostra guerra contro il terrore comincia con Al Qaeda ma non termina lì. Non terminerà fino a quando  ogni gruppo terrorista a livello mondiale non  sia stato trovato, fermato e sopraffatto”.
L’11 settembre ha ufficializzato  un prima e un dopo. Il terrorismo prima e il terrorismo dopo. La lotta contro il terrorismo  prima e la lotta contro il terrorismo dopo. Da quel momento sono cambiati metodi e strategie.  In questo senso l’11 settembre  è stata una data epocale. Ha segnato un mutamento in quella che è la percezione collettiva della paura e nell’ identificazione  dei nemici. Lo Stato che ha scatenato più guerre e conflitti nel mondo, che ha finanziato e sostenuto alcuni dei regimi dittatoriali più sanguinari e violenti, che legittima la tortura e la pena di morte, che viola impunemente i diritti umani, che fa e disfa assetti geopolitici mondiali a suo esclusivo uso e interesse,  si è assunto  l’onere di stabilire ufficialmente dall’11 settembre in poi chi è terrorista e chi non lo è. A questo è servito l’11 settembre   e non solo a creare nuovi impianti petroliferi in Iraq come molti credono. La grande opportunità è stata questa. Da allora tutto è permesso nel nome della sicurezza mondiale.
“Terrorismo” è un concetto vago e difficile da applicare alle diverse situazioni e persone.  Implica valutazioni sociali ed economiche complesse, analisi storiche e politiche. Niente di tutto questo interessa più dopo l’11 settembre. I criteri di giudizio si sono semplificati, la prospettiva notevolmente ridotta. Nemmeno il ricordare clamorosi errori di valutazione del passato basta  più. Si ha come la sensazione che  i giudizi futuri saranno senza possibilità di appello.  Anche Nelson Mandela era considerato un “terrorista” e Gandhi prima di lui.
Lo stesso Osama Bin Laden era considerato un eroico combattente  da Ronald  Reagan , nel 1985. Adesso è il diavolo in persona. Il primo terrorista della storia   probabilmente  fu Gesù, e fu necessario allora  torturarlo e metterlo su una croce per farlo stare zitto.
I Mapuche sono terroristi e lo Stato che li perseguita e li ammazza no.  I paramilitari colombiani nessuno li ha mai chiamati  terroristi  anche se girano armati di motoseghe e squartano bambini.
Ci sono vittime di serie A e vittime di serie B. Non sono vittime del terrorismo oggi  i 90 morti di Azizabad in Afghanistan  quasi tutti donne e bambini, uccisi da un raid statunitense qualche settimana fa, non sono vittime del terrorismo i palestinesi o, andando indietro con la memoria i morti di Hiroshima e Nagasaki, o i 350 mila uomini e donne assassinati dalle dittature latinoamericane finanziate e appoggiate dagli Stati Uniti, non sono vittime del terrorismo i corpi che si continuano a trovare in Colombia fatti a pezzi e gettati nelle fosse comuni. Solo per citare alcuni dei grandi esclusi dalla festa globale contro  il terrorismo patrocinata dallo Stato terrorista per eccellenza.

Unione del Mediterraneo: no da Gheddafi

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(ANSA) — TRIPOLI, 9 LUG — Gheddafi critica l’Unione per il Mediterraneo, progetto che a suo dire nasce ‘troppo squilibrata’ in direzione del versante europeo. Il progetto che verra’ lanciato domenica nel vertice Euro-Mediterraneo di Parigi sotto l’egida di Sarkozy. ‘Su 34 Paesi aderenti, meno di un quarto sono quelli del Nord Africa, dall’Egitto alla Mauritania’, ha sottolineato Gheddafi, che vedrebbe meglio un progetto associativo del tipo 5+5 o 6+6.

La foto è tratta dal blog di Pino Scaccia inviato a Tripoli per il TG1


Il loro cortile: chi l’ha detto che se ne erano dimenticati?

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La USS BOXER, non è un po' troppo per una missione umanitaria?

La portaerei USS BOXER

Ha scelto un sinistro personaggio già tristemente noto in America centrale,  l’amministrazione Bush,  per promuovere l’allargamento  in alcuni stati di quella regione   del Plan Mérida, il programma messo a punto dagli Stati Uniti per combattere il traffico di stupefacenti e la criminalità organizzata ad esso legata che transita attraverso la frontiera con il Messico, ma che coinvolge anche altri paesi di quella sottile striscia di terra che unisce l’America del Nord all’America del Sud. John Negroponte, sotto segretario di Stato americano ha appena concluso infatti un viaggio che alla fine di maggio lo ha visto nel Salvador, Guatemala e Honduras, con il fine di mettere in pratica ciò che aveva preannunciato in una sua recente visita in Messico: “dividere gli sforzi e ampliare la nostra strategia di combattimento al crimine organizzato anche ai paesi amici del Centroamerica”.
Il suo passaggio però in America centrale è stato segnato da una forte protesta popolare.
In Honduras,  dove tra il 1981 e il 1985 fu ambasciatore nella seconda sede diplomatica  più grande dell’America latina (e  una  delle basi CIA più attive del mondo in quegli anni), è stato accolto al grido di “asesino . Negroponte  infatti, che in Honduras era  chiamato “il proconsole”, in realtà coordinava e gestiva le attività  in Nicaragua dei Contras, terroristi addestrati e finanziati (con i proventi del traffico illegale di armi all’Iran) dagli Stati Uniti per rovesciare il governo sandinista allora democraticamente eletto, nell’ambito del piano più ampio che mirava a contrastare l’avanzata  del comunismo nella regione. Negroponte è  accusato anche da varie associazioni di difesa dei diritti umani e di familiari delle persone scomparse,  di aver coperto gli abusi e le torture commessi contro i civili ad opera dell’ esercito.  Ed è proprio questo che la popolazione hondureña non può dimenticare.   E’ del 2001 la scoperta  di 185 cadaveri ritrovati  nei pressi dell’aeroporto dove aveva sede la base aerea di El Aguacate, voluta proprio dal  “proconsole”  come centrale operativa per i Contras e per gli effettivi statunitensi e che funzionò anche da centro di reclutamento clandestino e di tortura. A Tegucigalpa, Negroponte si è incontrato con il presidente Manuel Zelaya con il quale ha firmato tre accordi di cooperazione per la lotta al narcotraffico  e per  programmi di addestramento delle forze di polizia, gli stessi che ha proposto al Guatemala e al Salvador.
Il Plan Mérida, messo a punto nell’ottobre del 2007, vendendosi come un piano di aiuti ai paesi del Centroamerica allo scopo di combattere il narcotraffico, in realtà sembra sempre di più uno strumento di controllo militare su tali  regioni e quindi sul resto dell’America latina.
Il 22 maggio scorso il Senato degli Stati Uniti ha approvato la prima tranche di  finanziamenti (in  4 anni) di 450 milioni di dollari, di cui 350 destinati al Messico e 100 all’America centrale,  predestinati a quella che viene anche chiamata Iniziativa Mérida, per distinguerla dal Plan México o dal Plan Colombia.
E’ noto infatti il fallimento proprio dell’analogo programma per la lotta al narcotraffico messo a punto in Colombia, concordato nel 1999 tra i presidenti Clinton   e Pastrana  che mentre ha incrementato  con l’invio di uomini, tecnologie e dollari  la militarizzazione della  regione,  non ha ottenuto quelle  che almeno su carta erano le sue buone intenzioni e cioè la lotta al narcotraffico e alla criminalità organizzata ad esso correlata.
Viene pertanto il sospetto che dietro la Iniziativa Mérida, così come accade  per il Plan Colombia,   si nascondano ben altre intenzioni e cioè  militarizzare ancora di più quello che potrebbe essere un ottimo avamposto statunitense per il controllo in America latina.
Spesso si ripete, infatti, ormai erroneamente,   che gli Stati Uniti impantanati come mai nella guerra in Iraq si siano dimenticati del loro patio trasero. In realtà è vero soltanto in parte. Molti segnali fanno pensare ultimamente che la diplomazia statunitense e non solo quella ufficiale, si stia muovendo e anche piuttosto convulsamente per riconquistare il dominio sulla regione, soprattutto perchè ormai sono molti gli Stati in America latina che hanno scelto governi di sinistra o di centro sinistra, ultimo fra i quali il Paraguay dove le recenti  elezioni sono state vinte dall’ex vescovo Fernando Lugo.
La posizione degli Stati Uniti nelle  recenti  crisi tra  il Venezuela e la Colombia e tra questa e l’Ecuador,  gli ultimi  viaggi del segretario di Stato americano Condoleezza Rice a Bogotà, la crescente militarizzazione del Centro America, e quella già in atto del Messico, ormai noto alleato strategico degli Stati Uniti, sono queste tutte circostanze che lasciano intravedere  un rinnovato interesse da parte del governo statunitense per l’America latina. La situazione di stallo che si è creata nella guerra in Iraq e il momento di transizione che la politica degli Stati Uniti  sta attraversando in vista delle prossime presidenziali, potrebbero altresì dettare nuovi impegni per una futura agenda geopolitica.
Desta preoccupazione al riguardo e conferma questa tesi,  l’annuncio che la IV Flotta degli Stati Uniti sarà riattivata dal primo luglio prossimo, avrà come base Mayport in Florida e come campo d’azione le acque del Mar dei Caraibi e quelle delle “rotte marittime nel sud dell’Emisfero Occidentale”.
Nata nel 1493 per combattere i sommergibili tedeschi  e per garantire agli alleati la sicurezza nelle acque durante  la seconda guerra mondiale, la IV Flotta  fu definitivamente soppressa nel 1950.
E’ inquietante che la sua riattivazione viene annunciata proprio quest’anno, in aprile, appena un mese dopo l’incursione colombiana in territorio ecuadoriano del 1 marzo, effettuata con la partecipazione di mezzi statunitensi,  in cui ha perso la  vita il n. 2 delle FARC Raúl Reyes e che ha provocato  una crisi diplomatica tra Colombia ed Ecuador (appoggiato dal Venezuela) non ancora rientrata del tutto.
Anche per questo ha destato preoccupazione e allarme in alcuni ambienti, l’arrivo, precedente alla visita di Negroponte,  sia in Guatemala che in Salvador, della portaerei statunitense USS BOXER, con a bordo un equipaggio di 1200 uomini,  con lo scopo ufficiale di promuovere “campagne per la salute e per opere di ingegneria in centri scolastici al Sud di San Salvador” come ha dichiarato il portavoce dell’ambasciata nordamericana a San Salvador, Douglas Tobar.
La portaerei una volta lasciate le acque dell’America centrale, si è diretta il 31 maggio verso Lima, dove dovrebbe proseguire la sua “missione umanitaria”.
Che si tratti invece di prove tecniche di navigazione per la IV Flotta?
P.S. In questi giorni ne ho lette di cose sulla riattivazione della IV Flotta ma devo dire che l’unico, in maniera originale e del tutto personalissima,  che ha avuto il coraggio di tirare in ballo il terrorismo islamico, associandolo liberamente alla firma di comunissimi accordi commerciali tra Bolivia e Iran e tra Iran e Venezuela  è stato Paolo Manzo di Panorama.
Sarebbe pertanto lecito aspettarci le portaerei americane a pattugliare i nostri mari, dal momento che anche l’Italia è uno dei principali partner economici dell’Iran.
 
 


Desaparecidos de la guerra contra el terror

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Jim Lobe
IPS
EEUU afronta una demanda judicial por el paradero de 39 detenidos-desaparec idos

El gobierno de Estados Unidos afronta ante la justicia una demanda para que revele el paradero de al menos 39 detenidos-desaparec idos en el marco de su “guerra contra el terrorismo”.

Las tres organizaciones de derechos humanos a cargo de la querella estiman que la Agencia Central de Inteligencia (CIA) mantiene desde hace cinco años a los desaparecidos en cárceles secretas.

El capítulo estadounidense de Amnistía Internacional, el Centro de Derechos Constitucionales y la Clínica Internacional de Derechos Humanos de la Facultad de Derecho, de la Universidad de Nueva York, entablaron la demanda en el marco de la ley de Libertad de Información.

Las tres organizaciones con sede en Nueva York sostienen que el gobierno retiene documentos que pueden contribuir a conocer el destino de 39 detenidos– desaparecidos y proporcionar datos sobre su paradero.

“Queremos saber dónde están esas 39 personas ahora y qué les pasó desde el momento de su desaparición” , señaló Joanne Mariner, a cargo de investigaciones sobre terrorismo y antiterrorismo de la organización Human Rights Watch (HRW).

A pesar de no ser demandante, HRW contribuyó con un informe sobre el que se basa el proceso, publicado el jueves, el mismo día en que se presentó la querella.

“Ya es un grave abuso mantenerlas en prisiones secretas de la CIA. Y ahora tememos que las puedan haber transferido a países donde pueden seguir en cárceles secretas y más abusos”, añadió.

El informe de 21 páginas, para que el que realizaron aportes también las organizaciones Cageprisioners y Reprieve, ambas con sede en Londres, menciona la identidad y otros datos de 39 personas desaparecidas tras su detención.

En su mayoría fueron apresados en Pakistán entre 2001 y 2005.

El documento “Off the Record” (“fuera de registro”, en inglés) también registra la detención de esposas o hijos, e incluso el caso de un bebé de seis meses, de las personas que fueron apresadas.

Las seis organizaciones indicaron que se trata del listado más completo de personas detenidas-desaparec idas que se haya compilado desde que Estados Unidos declaró su guerra contra el terror en 2001.

“Nosotros no cuestionamos el deber del gobierno de proteger a las personas de atentados terroristas” , declaró desde Londres el director de investigaciones de Amnistía, Claudio Cordone.

“Pero sí se cuestiona el secuestro de hombres, mujeres y hasta niños y el hecho de mantenerlos en prisiones secretas privándolos de los derechos más básicos de cualquier detenido. El gobierno de Estados Unidos debe terminar de una vez por todas con esa práctica ilegal y moralmente repugnante”, enfatizó.

Por su parte, la CIA se negó a confirmar o desmentir la veracidad de la información de la investigación de las organizaciones de derechos humanos.

“Cuando se trata de la CIA y de la lucha antiterrorista, no faltan acusaciones de inexactitudes” , alegó el portavoz de la agencia, Paul Gimigliano.

“La verdad lisa y llana es que actuamos de acuerdo con la legislación estadounidense y que nuestras iniciativas antiterroristas, sometidas a un cuidadoso análisis y supervisión, han sido muy eficaces para desbaratar conspiraciones y salvar vidas”, añadió.

La publicación del informe coincide con una renovada polémica por varios aspectos de las prácticas de detención del gobierno de George W. Bush.

Este viernes comenzó en la septentrional ciudad italiana de Milán el tan esperado proceso en ausencia de 25 agentes de la CIA y del ex jefe de Inteligencia de Italia por el supuesto secuestro de un imán en las calles de esa ciudad en febrero de 2003.

El hecho se habría enmarcado en el programa de Washington de “entregas extraordinarias” , que consiste en la detención de un sospechoso en un país y su entrega a las autoridades de otro donde la tortura y los tratos inhumanos son habituales.

El imán Hassan Mustafa Osama Nasr fue trasladado a Egipto donde, según sus relatos, fue torturado durante un interrogatorio antes de ser liberado bajo arresto domiciliario.

En el ámbito local, la CIA también es cuestionada.

El mes pasado, la gubernamental Junta de Ciencia de la Interrogación publicó un duro informe que cuestiona las técnicas violentas utilizadas por la agencia porque no son efectivas y son contraproducentes.

Las organizaciones de derechos humanos las calificaron de tortura y el ex asesor de la secretaria de Estado (canciller) Condoleezza Rice, Philip Zelikow, las había considerado “inmorales”.

Mientras, el Comité de Inteligencia del Senado publicó la semana pasada un informe que cuestiona el valor del programa de interrogatorios y detenciones secretas de la CIA.

Además, sugiere que la información de inteligencia obtenida por estos medios no compensan la publicidad negativa ni evitan la recaudación de datos falsa.

Por último, la Unión Estadounidense de Libertades Civiles demandó la semana pasada a una subsidiaria de la aerolínea Boeing, involucrada en el programa de entregas extraordinarias de la CIA, en representació n de un egipcio, un etiope y un italiano trasladados a cárceles secretas donde habrían sido torturados.

Al igual que la tortura, las desapariciones forzosas violan varios tratados de derechos humanos ratificados por Estados Unidos.

Esa práctica se inició con el conocido decreto “Nacht und Nebel” (“noche y niebla”), del régimen nazi alemán durante la Segunda Guerra Mundial (1939–1945), y fue muy utilizado por las dictaduras militares de América Latina en los años 70 para eliminar opositores.

El propio Bush reconoció por primera vez en septiembre de 2006 que la CIA tenía prisiones secretas en varias partes del mundo.

Bush anunció entonces la transferencia de 14 presos destacados, incluido el supuesto estratega de los atentados del 11 de septiembre de 2001 contra Nueva York y Washington, Khalid Sheikh Mohammed, de una cárcel de la CIA al centro de detención en la base naval estadounidense de Guantánamo, Cuba.

Cientos de supuestos terroristas habrían sido detenidos y trasladados en el marco del programa de entregas extraordinarias, aunque la mayoría de ellos enviados luego a Guantánamo, liberados o habrían corrido otra suerte, según las explicaciones oficiales.

El informe reagrupa en tres categorías a las 39 aún desaparecido. Tres de ellos pertenecen al grupo de los que Estados Unidos en algún momento reconoció, a nivel oficial, haber detenido, de otros 18 hay pruebas sólidas, incluidos testimonios de testigos, de que permanecieron en prisiones secretas.

Del resto existe alguna prueba de que están en algún centro de detención secreto.

La mayoría de esas personas habrían sido originalmente detenidas en Pakistán. Figuran ciudadanos de Egipto, Kenia, Libia, Marruecos y España. También se habrían realizado secuestros en Irán, Iraq, Somalia y Sudán.

Respecto de los casos en que familiares de presuntos terroristas habrían sido detenidos, el informe señala que algunos fueron liberados y otros no aparecen.

Los hijos de siete y nueve años de Khalid Sheikh Mohammed habrían sido apresados por las fuerzas de seguridad pakistan&
iacute;es en septiembre de 2002. Y una vez que él fue secuestrado, según el informe, los niños fueron utilizados por la CIA para “obligar al padre a cooperar con Estados Unidos”.


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