Olga Salanueva e Adriana Pérez: chiediamo a tutto il mondo di intensificare la campagna per la liberazione dei 5 cubani.
Si può vivere dodici anni per la libertà della persona amata detenuta ingiustamente? Si può vivere dodici anni lottando con la stessa forza fin dal primo giorno? Adriana Pérez e Olga Salanueva, mogli rispettivamente di Gerardo Hernández e di René Gonzáles, due dei cinque cubani detenuti negli Stati Uniti dal 1998, ci raccontano in questa intervista (realizzata durante un loro viaggio in Italia nella primavera scorsa) le loro vite, le difficoltà, i desideri, le lotte. Una chiacchierata tra donne più che un’intervista, esplorando delicati sentimenti di affetto e amore ma sempre accompagnati da una forza e una determinazione ammirevoli. Non ci sono dubbi che i cinque cubani , Gerardo Hernández, René González, Ramón Labañino, Fernando González y Antonio Guerrero, i quali, ricordiamo, furono arrestati a Miami (dove stavano svolgendo indagini sui gruppi anticastristi che progettavano attentati terroristi a Cuba) e i loro familiari, siano veri uomini e donne di pace, per star sacrificando le loro vite e la loro libertà per la sicurezza del popolo cubano.
Adriana e Olga non vedono i propri mariti da dodici anni. Le autorità statunitensi hanno negato loro il visto e quindi la possibilità di visitarli, circa una decina di volte con argomenti diversi, come il fatto che si tratti di possibili immigranti o che rappresentano una “minaccia per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti”. Olga ha potuto visitare René in carcere soltanto i primi due anni di detenzione, poi è stata deportata dagli Stati Uniti come forma di ricatto perché lui non voleva ammettere l’infame accusa secondo la quale stava spiando il governo statunitense.
Olga e Adriana sono due donne tenere e innamorate, ma soprattutto determinate, che da dodici anni percorrono il mondo denunciando la prigionia ingiusta dei loro mariti da parte di un governo arrogante e prepotente. Un governo che lascia passeggiare tranquillamente per le strade di Miami il terrorista cubano Luis Posada Carriles reo confesso di vari attentati contro Cuba (tra i quali quello che costò la vita al nostro Fabio Di Celmo). Lo stesso Posada Carriles sul quale stavano indagando a Miami i 5 cubani e che per questo furono arrestati.
A.M.: Olga e Adriana, che condanne stanno scontando Rene e Gerardo?
OLGA: René è stato condannato a 15 anni di carcere e Gerardo, che ha la condanna più dura, deve scontare due ergastoli più 15 anni. Sono detenuti entrambi dal 12 settembre 1998.
AM. : Che tipo di contatti avete con loro?
OLGA : Abbiamo dei contatti tramite le telefonate che possono essere fatte esclusivamente dal carcere verso l’esterno. Hanno a disposizione una certa quantità di minuti che devono utilizzare per parlare con gli avvocati, con i funzionari del governo cubano che sono quelli che trasmettono tramite il consolato le notizie dei familiari e con le proprie famiglie. Alla fine rimane veramente poco tempo per parlare con noi.
L’altro modo è tramite la posta ma questa forma di comunicazione è compromessa dalla censura del carcere così come accade anche per le telefonate. Queste sono registrate tutto il tempo e anche la posta è controllata. Tuttavia non è importante, la cosa importante è il tempo che impiega una lettera ad uscire o a entrare in carcere, specialmente nel caso di Gerardo che sconta la pena più dura e al quale ostacolano anche maggiormente la corrispondenza: una lettera indirizzata a lui può impiegare anche più di due mesi per arrivare; nel suo caso inoltre è anche violata la legge sulla corrispondenza. Questo molte volte ha interferito in alcuni momenti importanti del processo rispetto ai dibattimenti. Non ha potuto avere e controllare tutta la documentazione che si doveva presentare alla Corte Suprema, nonostante fosse il più coinvolto nel caso. Quindi la comunicazione con loro è minima, cerchiamo di approfittare al massimo; il maggior tesoro che abbiamo sono quei due o tre minuti di telefonate, a volte perfino 15, ma a volte quei pochi minuti devono essere condivisi.
Per noi sono molto più importanti le telefonate perché attraverso la posta, sebbene puoi esprimere tutti i tuoi sentimenti, questa impiega troppo tempo per arrivare. Inoltre ultimamente nelle carceri federali è stata approvata la posta elettronica, ma in due casi, quello di Fernando e di Gerardo loro hanno la proibizione assoluta di usare la posta elettronica e anche per gli altri tre ai quali è stata autorizzata, può essere che una mail gli arrivi dopo due, tre giorni, o quattro giorni.
AM.: Avete figli?
ADRIANA: No, Gerardo ed io non ne abbiamo.
OLGA: René ed io abbiamo due bambine che non sono più tanto bambine, la maggiore compie 26 anni e la più piccola 12. Noi siamo sposati da 27 anni, siamo i più grandi del gruppo.
A.M.: Avevate nutrito in qualche momento delle speranze con l’elezione di Obama alla presidenza degli Stati Uniti?
ADRIANA: Sappiamo che ogni amministrazione ha una posizione ben definita rispetto a Cuba, ma l’ingiustizia verso i 5 è evidente, loro hanno trascorso già troppi anni in prigione. Quello che è certo è che abbiamo fiducia nella pressione che da ogni parte del mondo si può esercitare verso l’amministrazione di Obama, tenendo presente che si tratta di una amministrazione un po’ più ricettiva ai reclami internazionali delle precedenti. Ciò nonostante è passato già un anno e mezzo dalla sua elezione e non abbiamo avuto nemmeno il gesto di buona volontà della concessione del visto. Ovviamente abbiamo molta più fiducia nelle iniziative che la gente può intraprendere per spingere Obama e la sua amministrazione a prendere una decisione. In questo modo si potrebbe dimostrare che la decisione che lui prende non è solo una sua decisione personale ma è frutto di una richiesta internazionale, che si sappia cioè che a livello internazionale c’è attenzione rispetto a questo governo e alla giustizia. E’ proprio per questo che facciamo una richiesta a tutto il mondo, e cioè che si intensifichi la campagna di liberazione per i 5. E’ il momento di dimostrare agli Stati Uniti che il loro operato è osservato da tutto il mondo. Sappiamo anche che Obama non agirà mai volontariamente e spontaneamente, per questo bisogna fare pressioni e non con azioni isolate, ma cercando di fare in modo che ogni giorno gli arrivino i messaggi, che arrivino le informazioni, che arrivino le richieste, per ottenere che si metta fine a questa ingiustizia e che non si ottenga per vie legali ma tramite pressione internazionale.
A.M.: Avete provato ad ottenere un incontro con Obama?
OLGA: Magari potessimo avere l’opportunità di incontrarci personalmente con lui! Abbiamo cercato di arrivare a lui in modi diversi, attraverso personalità, attraverso persone solidali in Parlamento… Non possiamo vedere Obama perché lui non va a Cuba e noi non possiamo andare negli Stati Uniti. I familiari, ai quali sono consentite le visite, ottengono i visti con condizioni molto specifiche. Rispetto al luogo di accesso, cioè per dove devono entrare, rispetto alla città dove devono stare, che deve essere quella dove si trovano i detenuti, inoltre hanno proibizione assoluta di accesso a qualsiasi incontro, a qualsiasi intervista, non possono avvicinare nessuna personalità nel momento in cui hanno il visto in territorio statunitense. Questo gli viene concesso solo ed esclusivamente per recarsi in carcere ed effettuare la visita di quel mese e fare ritorno, quindi se non possono vedere un giornalista, molto meno nessuno di noi potrà avere accesso alla Presidenza.
Come diceva Adriana la cosa più importante adesso è il lavoro delle persone solidali che ci permettono in forma indiretta di arrivare all’amministrazione Obama. Evidentemente le voci dei 5 non sono ascoltate, non sono ascoltate le voci dei familiari e nemmeno del popolo di Cuba e del governo cubano che si è espresso apertamente a favore della liberazione dei 5.
A.M. : Uno sguardo femminile e rivoluzionario alle vostre vite…
OLGA: Noi, le mogli e le madri, la parte femminile della famiglia, viviamo la maggior parte del tempo in attesa. Rimangono solamente tre madri, le altre sono morte, quella di Gerardo recentemente. Quelle che sono ancora in vita vivono con gli altri figli, soffrendo giorno dopo giorno in attesa della liberazione di quelli in prigione. Rispetto alle mogli, due coppie non hanno figli, Adriana e Gerardo e Rosa Aurora e Fernando. Loro vivono sole nelle loro case aspettando i loro mariti.
Economicamente siamo tutte indipendenti, siamo professioniste, in diversi settori. L’aspetto economico non è quello più importate, godiamo come tutti i cubani della sicurezza sociale, della tranquillità cittadina, ma ci manca la cosa fondamentale. Io e Gerardo e Ramón e sua moglie abbiamo figli. Ramón ha una figlia maggiore da un altro matrimonio che vive con la madre e con Elizabeth ha due figlie, una bambina di 13 anni e una ragazza di 17 ed io ho le due di cui ti ho parlato.
E’ molto difficile… non ti nego che è molto difficile, giorno dopo giorno, perché non si tratta né di due mesi e nemmeno di due anni, sono 12 anni trascorsi con la tristezza di non avere nostro marito in casa. I nostri matrimoni sono stati matrimoni d’amore e ogni coppia quando si forma fa dei progetti per vivere insieme, per trascorrere la vita insieme, per avere figli, per fare piani futuri. Tutto questo un giorno si è paralizzato, ma dobbiamo andare avanti, dobbiamo passare sopra a tutto questo perché dobbiamo vivere per avere la forza di continuare a lottare, affinché loro possano tornare a casa prima di quando il governo degli Stati Uniti abbia programmato, che nel caso di Gerardo è mai più.
Quindi è molto difficile stare sole, tornare a casa la sera e chiudersi la porta alle spalle. Nel caso per esempio di quelle che non hanno figli lo è ancora di più, senza nemmeno la confusione dei figli in casa, perché quella confusione ti aiuta a riprendere le forze non solo per te stessa, ma anche per loro e il tempo passa più velocemente. Nel caso di quelle che sono sole è difficile restarlo un giorno in più e poi un altro e poi un altro ancora, le speranze a volte si affievoliscono, come quando vediamo che da un punto di vista giuridico non ci sono sviluppi. Per questo la famiglia è così importante, le persone invecchiamo, perdi i tuoi affetti, questo aspetto è veramente difficile.
Noi pensiamo sempre prima a loro, se noi siamo sole, se tutto questo è molto difficile da un punto di vista affettivo, che cosa staranno passando loro chiusi in celle d’isolamento per tanti mesi? Cosa staranno passando con tanto tempo senza comunicare, mentre cercano di impedirgli anche di ricevere una lettera, vedendo che non ci sono speranze di uscire presto. Questo ci dà la forza perché noi dobbiamo essere le loro voci, la loro possibilità di muoversi, di avere amici, di cercare voci… questo siamo noi, perché loro non possono.
Quindi la lotta per la loro libertà diventa il cardine dei nostri giorni, tutti i giorni lottiamo per questo, ma quando torniamo nelle nostre case dopo il lavoro, quando cuciniamo, puliamo la casa, andiamo dormire, in quel momento la nostra mente ritorna lì, non riposa, non riposiamo mai. Ricordiamo anche che loro si trovano in quel luogo per difendere la vita e che questo ha colpito il popolo cubano da vicino: sono molte le famiglie che vanno a dormire la sera pensando alle persone care che hanno perso negli attentati terroristi. Allora ci diciamo che loro si trovano lì per avvertire il nostro popolo del pericolo e dobbiamo fare di tutto perché escano per continuare a difendere la vita.
di Annalisa Melandri
Olga Salanueva y Adriana Pérez: ellos están allí por querer advertir a nuestro pueblo de la muerte
Se puede vivir doce años luchando por la liberación de la persona amada detenida injustamente en una cárcel? Se puede vivir doce años luchando con la misma fuerza desde el primer día? Adriana Pérez y Olga Salanueva, esposas respectivamente de Gerardo Hernández y de René Gonzáles, dos de los cinco cubanos presos en Estados Unidos desde el año 1998, nos cuentan en esta entrevista (realizada durante un viaje de ellas a Italia en la primavera pasada), sus vidas, sus dificultades, sus deseos, sus luchas. Una charla entre mujeres más que una entrevista, explorando delicados sentimientos de amor y cariño pero siempre acompañados por una fuerza y una terquedad admirables. No hay dudas en que los 5 cubanos, Gerardo Hernández, René González, Ramón Labañino, Fernando González y Antonio Guerrero, que recordamos fueron arrestados en Miami donde estaban haciendo investigaciones sobre los grupos anticastristas que proyectaban atentados terroristas en Cuba y ellas, además de las otras esposas y familiares sean verdaderos hombres y mujeres de paz al estar sacrificando sus vidas y su libertad por la seguridad de su pueblo.
Adriana y Olga no ven a sus esposos desde doce años. Les han negado la visa para visitarlos alrededor de diez veces con argumentos diferentes, como que son posibles inmigrantes o que representan una amenaza por la “seguridad nacional de Estados Unidos”. Olga pudo visitar los primeros dos años a René en la cárcel, luego fue deportada de Estados Unidos como forma de chantaje y de venganza porque René no quiso admitir la infamante acusación según la cual estaba espiando el gobierno americano.
Olga y Adriana son dos mujeres tiernas y enamoradas, pero sobre todo determinadas, que desde doce años recurren el mundo denunciando la injusta detención de sus esposos de parte de un gobierno arrogante y prepotente. Un gobierno que ahora deja pasear líberamente por las calles de Miami el terrorista cubano Luis Posada Carriles reo confieso de diferentes atentados en Cuba(entre ellos el que costó la vida al nuestro Fabio Di Celmo). El mismo Posada Carriles sobre quien los 5 cubanos estaban investigando en Miami y que por esto fueron detenidos.
por Annalisa Melandri — www.annalisamelandri.it
A.M. :¿Olga y Adriana, qué condenas tienen René Y Gerardo?
OLGA: René está condenado a 15 años de cárcel y Gerardo, que tiene la condena más pesada, a doble cadena perpetua más 15 años de prisión. Están presos todos los 5 desde el 12 de septiembre de 1998.
A.M. : ¿Ustedes no tienen ningún tipo de contacto con ellos?
OLGA: Bueno, nosotros tenemos contactos a través de llamadas telefónicas que se hacen únicamente de las cárceles hacia afuera. Ellos tienen una determinada cantidad de minutos a disposición que tienen que emplear para hablar con sus abogados, hablar con funcionarios cubanos que son los que le transmiten a través de los accesos consulares fundamentalmente las noticias de las familias y con los familiares. Efectivamente tienen muy poco tiempo a disposición para para comunicarse.
La otra vía es la correspondencia, pero esa se ve afectada por la censura que lleva la cárcel igual que como ocurre con las llamadas telefónicas. Estas son grabadas todo el tiempo y la correspondencia también es revisada. Sin embargo eso no es lo importante, lo importante es la demora en la llegada y la salida de la correspondencia hacia el exterior que se va muy afectada , fundamentalmente en el caso de Gerardo que es precisamente el que tiene los mayores cargos, la mayor sentencia, dos cadenas perpetuas y además le ponen más obstáculos en la correspondencia. Escribirle a Gerardo puede ser que le demore a llegarle una carta varios meses y en su caso también es violada la ley de la correspondencia legal que debería ser entregada cerrada o abierta delante de él, le llega muy tardíamente y abierta sin su presencia. Esto ha interferido en muchas ocasiones importantes de los procesos en las diferentes apelaciones; de hecho él no pudo tener en su mano toda la documentación que se iba a presentar ante la Corte Suprema, él no la pudo revisar no obstante fuera el más implicado en el caso. Entonces la comunicación con ellos es mínima, la tratamos de aprovechar al tiempo, el mayor tesoro que tenemos nosotras son dos tres minutos de llamada, cuatro, hasta 15 minutos en una llamada, pero a veces se tienen que compartir los minutos .
Para nosotras son mucho más importantes las llamadas porque la carta si bien puede expresar todo tu sentimiento, demora mucho. Además últimamente en las cárceles federales se ha aprobado el correo electrónico, pero en dos de los casos, el de Fernando y de Gerardo tienen la prohibición absoluta de acceso al correo electrónico, aunque en el caso de los otros tres que lo tienen aprobado, tu escribes un correo y puede que demore dos o tres días, o cuatro.
A.M. ¿Ustedes tienen hijos?
ADRIANA: No. Gerardo y yo no tenemos.
OLGA: René tiene dos niñas que ya no son tan niñas, la mayor va a cumplir 26 años y la más chiquita tiene 12. Nosotros llevamos 27 de matrimonio y somos los mayores del grupo.
A.M. : ¿Habían esperado que con la elección de Obama a la presidencia de Estados Unidos hubiera podido cambiar algo en la situación de los 5?
ADRIANA: Nosotros sabemos que cualquier administración tiene una posición muy bien definida hacia Cuba, pero la injusticia hacia los 5 es muy evidente, ellos ya han pasado muchos años en prisión. Lo que es cierto es que tenemos confianza en la presión que se puede ejercer desde el mundo hacia la administración de Obama, teniendo en cuenta que esta es una administración un poco más receptiva a los reclamos internacionales. Sin embargo ya ha transcurrido prácticamente un año y medio donde no hemos logrado ni siquiera un gesto de buena voluntad de otorgarnos la visa. Por supuesto confiamos más en las acciones que las personas puedan hacer para obligar a que Obama tome una decisión, Obama junto con todo su staff administrativo, porque realmente podría demostrarse de esta manera que la decisión que él tome no sea una decisión solamente por una intención personal , sino dada por una solicitud, por un reclamo internacional de que está observando cual es la política y la posición de ese gobierno ante la justicia. Precisamente por eso nosotros hacemos un pedido y un reclamo a todo el mundo, o sea de intensificar la campaña. Es el momento de demostrarle a Estados Unidos que su actuar se está observando por el resto de la humanidad. También sabemos que Obama de una forma voluntaria y espontanea no lo va a hacer, por eso hay que tratar de presionar y no con accionares aisladas, sino tratando que cada día le lleguen los mensajes, que le lleguen las informaciones, que le lleguen las solicitudes, para lograr que se ponga fin a esta injusticia, que no va a hacer porque la ley nos permita ese beneficio sino por la presión internacional.
A.M. ¿Han buscado la forma de pedir un encuentro con Obama?
OLGA: ¡Ojalá nosotros pudiéramos tener la oportunidad de entrevistarnos personalmente con él! Hemos tratado de llegar a Obama por diferentes vías, por personalidades, por gente solidaria en el Parlamento que le lleven la información… No podemos ver a Obama porque él no va ir a Cuba y nosotros no vamos a Estados Unidos. Los familiares que han podido ir a visitarlos a ellos, que le dan visa, es una visa muy restringida. Restringida en el lugar de acceso, es decir por donde deben entrar , restringida en la ciudad por donde deben estar, que coincide con la ciudad donde están los presos, le tienen prohibición total de acceso a cualquier tipo de meeting, de dar cualquier tipo de entrevista, de llegar a alguna personalidad en el momento en que tienen la visa en territorio norteamericano. Es decir que se la dan única y exclusivamente para trasladarse hacia la cárcel y cumplir con la visita de ese mes y regresar, entonces si no nos dejan ver a un periodista, mucho menos ninguno de nosotros va poder tener acceso a la Presidencia. Por lo tanto, como decía Adriana, lo más importante son ahora las personas solidarias que nos permitan de forma indirecta llegar a la administración Obama porque evidentemente no son escuchadas las voces de ellos, ante la Corte, no son escuchadas las voces de ellos en los reclamos, no son escuchadas las voces de los familiares, ni siquiera del pueblo de Cuba y el gobierno de Cuba que abiertamente se ha manifestado a favor de la liberación de los 5.
A.M. : Una mirada femenina y revolucionaria a la vida de ustedes…
OLGA: Nosotras, las madres, la parte femenina de la familia, vivimos la mayoría del tiempo esperando. Solamente quedan tres madres , las otras fallecieron y la de Gerardo recientemente. Las que viven están con otros hijos que tienen, sufriendo día a día en espera de sus hijos que sean liberados. Respecto a las esposas, dos parejas no tienen hijos, Adriana y Gerardo y Rosa Aurora y Fernando. Ellas viven solas en sus hogares esperando por ellos.
Económicamente somos todas independientes, somos profesionales, de distintas profesiones. La parte económica no es lo importante, gozamos como todos los cubanos de la seguridad social, de la tranquilidad ciudadana, pero nos falta lo fundamental. Las otras dos parejas tenemos hijas, Ramón tiene una hija mayor de otro matrimonio que vive con su mamá y con Elizabeth su esposa, tiene dos, una jovencita y otra más adolescente , 17 y 13 años, y yo tengo las dos niñas que te dije.
Es muy difícil, no te voy a negar que es muy difícil, el día a día, porque no son dos meses ni dos años, son 12 años con la tristeza de no tener nuestro a esposo en la casa. Somos matrimonios que los ha unido el amor y toda pareja cuando se une hace planes para vivir juntos , para vivir la vida juntos, para tener hijos, para hacer planes futuros. Todo esto se quedó paralizado un día, pero tenemos que seguir , tenemos que sobreponernos a todo esto porque hay que seguir viviendo para tener fuerzas para luchar, para que ellos regresen antes de lo que tiene pronosticado el gobierno de Estados Unidos, que en el caso de Gerardo es que nunca regrese.
Entonces se hace bien difícil estar solos, regresar a la casa y cerrar la puerta. Esto en el caso por ejemplo de las que no tienen ni siquiera la tormenta que son los hijos en casa, pero esa tormenta te ayuda a tomar fuerzas ya no por ti sino por ellos mismos y el tiempo un poco se te llena más. En el caso de las que no tienen hijos bueno es difícil estar sola un día más, otro día, otro día, las esperanzas se van acortando a veces cuando vemos unos regresos de un punto de vista jurídico y por eso es tan importante la familia… las personas se van poniendo mayores, vas perdiendo tus afectos también, esa parte es muy difícil.
Nosotros siempre en primero pensamos en ellos , si nosotros estamos solos, si nosotros estamos pasando mucho trabajo desde el punto de vista afectivo, que no pasarán ellos que han estado in celdas en solitario tantos meses, por tantas veces sin comunicación, tratando de impedir que reciban ni siquiera cartas, viendo que el proceso se complica y se termina, y que no hay una esperanza pronta de salir… Eso nos da fuerza porque tenemos que nosotros ser las voces de ellos, la forma de moverse, de buscar solidarios, de buscar voces, somos nosotros , porque ellos no pueden.
Es decir que la lucha por la liberación de ellos se devuelve el eje de nuestros días, todos los días hacemos algo por eso, pero cuando vamos a la casa después que trabajamos, que cocinamos, que limpiamos la casa, que nos vamos a acostar… en este momento nuestra mente se vuelve a ocupar del mismo tema, es decir que no se descansa, no se descansa nunca. También nos acordamos de que ellos están ahí por defender la vida y que al pueblo cubano le ha tocado muy de cerca, o sea que son muchas las familias que también se acuestan pero en este caso pensando en los seres queridos que ellos perdieron por acciones terroristas. Entonces decimos bueno, ellos están allí por querer advertir a nuestro pueblo de la muerte y nosotros tenemos que hacer de que salgan para seguir protegiendo la vida.
Intervista a Walter Wendelin, internazionalista basco espulso dal Venezuela.
Intervista di Annalisa Melandri a Walter Wendelin, internazionalista basco espulso dal Venezuela
Viene riproposta questa intervista pubblicata sul numero 3 della rivista ALBA informazione
Il 28 marzo dello scorso anno, l’internazionalista basco di origine tedesca Walter Wendelin, al suo arrivo a Caracas, fu fermato dalle autorità venezuelane, espulso dal paese e mandato in Spagna senza che avesse nessun mandato di cattura, richiesta di estradizione o carico pendente con la giustizia spagnola. Walter,militante del movimento internazionalista Askapena, la Sinistra Abertzale (nazionalista), era diretto in Venezuela per illustrare ai politici e ad altri internazionalisti il processo democratico che la Sinistra Indipendentista basca sta portando avanti da alcuni mesi chiamato Zutik Euskal Herria (Euskal Herria in piedi).
«È stata una questione prevalentemente politica e scorretta dietro la quale si nasconde la mano occulta dell’esecutivo spagnolo» ci spiega Walter in questa intervista, nella quale ci fornisce come strumento di analisi la sua visione rivoluzionaria e militante rispetto a quanto accaduto, invitando a non “sbagliarsi mai nell’individuare il vero nemico”, essendo note le difficoltà che deve affrontare il processo rivoluzionario in Venezuela e come questo sia oggetto di molteplici attacchi sia sul fronte interno che esterno.
A.M.: Walter, ci puoi raccontare come si sono svolti i fatti nell’aeroporto di Caracas?
W.W.: Semplicemente si sono presentati agenti del Servizio Bolivariano di Intelligence, la antica DISIP, chiedendomi di seguirli per rispondere ad alcune domande. Mi hanno anche detto che poi mi avrebbero accompagnato dove ero diretto. Ho avvisato quindi le persone che mi stavano aspettando all’uscita dell’aeroporto informandoli che mi trovavo all’Helicoidal, l’edificio del SEBIN. Lì ho parlato con gli agenti e con il personale del servizio di Immigrazione. Purtroppo alla fine mi hanno invitato ad abbandonare il paese senza spiegazioni ufficiali; sono stato portato in un hotel per passare la notte ed il giorno seguente accompagnato all’aeroporto.
Loro stessi hanno provveduto a cambiare il biglietto. Hanno cercato di farmi firmare una dichiarazione di espulsione, cosa che non ho fatto perché quanto riportato non corrispondeva al vero. Il fatto di non averla firmata d’altra parte non ha comportato nessun tipo di problema. Siccome viaggiavo con i miei documenti era chiaro però che non si trattava di una espulsione regolare come hanno constatato anche le autorità francesi all’arrivo all’aeroporto di Parigi dove sono stato interrogato per circa un’ora su quanto accaduto. Poi ho proseguito il mio viaggio verso Gasteiz.
A.M.: Hai qualche carico pendente o un mandato di arresto da parte della giustizia spagnola?
W.W.: Se avessi avuto qualcosa in sospeso con la giustizia venezuelana, spagnola o francese, o qualche mandato di cattura da parte dell’Europol o dell’Interpol non potrei rispondere a queste domande tranquillamente da casa come sto facendo adesso. Quindi si tratta di una questione meramente politica e scorretta dietro la quale si cela la mano occulta dell’esecutivo spagnolo. Per impedire che in Venezuela e nel resto del mondo si conoscano i fatti e le analisi di quanto accade in Euskal Herria, i Paesi Baschi, da un punto di vista non gradito al governo spagnolo, vengono utilizzate queste modalità poco serie e poco degne che dimostrano la sua debolezza ma che non per questo fanno meno danno e causano meno sofferenza. Alcuni media infatti hanno raccolto dichiarazioni dell’ambasciata e del ministero degli esteri spagnolo che affermavano che quello era esattamente il tipo di collaborazione che si aspettavano dal governo Chávez.
A.M.: Qual è la tua opinione sui reali motivi della tua espulsione dal Venezuela?
W.W.: Immagino che da parte del Venezuela o della sua intelligence si sia voluto compiere un gesto di buona volontà e di collaborazione con il Regno di Spagna dopo aver firmato una serie di contratti con importanti multinazionali spagnole. Non bisogna dimenticare le pressioni della opposizione “escualida” che attacca il governo accusandolo di complicità con il “terrorismo internazionale” – FARC, ETA-Batasuna, Iran… – e con tutto l’asse del male e che si presenterà alle elezioni legislative in settembre o in ottobre. La situazione del governo Chávez è complicata sia rispetto a questa opposizione che all’ amministrazione USA ma anche internamente rispetto allo stesso chavismo e dalla sua vittoria dipende non soltanto il futuro dei venezuelani e delle venezuelane ma anche il successo di tutto il processo bolivariano in America.
Anche da parte del Regno spagnolo ci sono due ragioni che sono abbastanza evidenti. La prima è che la Spagna ha dovuto dimostrare al suo padrone, l’impero statunitense e principalmente alla sua amministrazione e alle sue multinazionali finanziarie, che nonostante abbia firmato con il Venezuela contratti vantaggiosi per il capitale spagnolo ma anche per la rivoluzione bolivariana, non vuole contribuire a favorire il processo rivoluzionario bolivariano nemico degli Stati Uniti.
La seconda è che esiste una campagna iniziata alcuni mesi fa da parte del Ministero dell’Interno spagnolo per criminalizzare, danneggiare e impedire il processo democratico – ZUTIK EUSKAL HERRIA – che sta portando avanti la Sinistra Indipendentista Basca. Si tratta di una iniziativa unilaterale senza ricorso alla violenza e secondo principi democratici (come sempre ha fatto la Sinistra Abertzale) che riporta il confronto in un terreno prevalentemente politico dove lo Stato spagnolo è ogni giorno più debole; proprio per questo lo Stato spagnolo preme per collocare il conflitto politico facendolo rientrare nello schema della lotta “antiterrorista” anche sul piano internazionale.
A.M.: Walter, tu sei sempre stato molto solidale con la rivoluzione bolivariana. Nell’intervista rilasciata a Miguel Suarez di Radio Café Stereo fai un appello a non cadere nella “trappola mediatica” che può offrire quanto è accaduto a Caracas. Cosa significa?
W.W.: Ho voluto dire principalmente che non dobbiamo mai sbagliarci nell’individuare il vero nemico a maggior ragione per un incidente di questo tipo. Quindi non voglio dare importanza all’accaduto poiché, come ho detto prima, è la dimostrazione delle reali difficoltà pratiche che soffre il processo rivoluzionario in Venezuela a causa del criminale e immorale attacco dell’imperialismo yankee,del sub-imperialismo spagnolo e con la complicità della borghesia “escualida” venezuelana con il suo progetto capitalista neoliberale.
Detto in altre parole: si deve cogliere la differenza tra gli errori e le debolezze delle compagne e dei compagni di lotta e gli attacchi del nemico, bisogna inoltre saper individuare molto bene le quinte colonne nei processi rivoluzionari. Facendo tali distinzioni è molto importante non aggrapparsi ai propri principi individuali considerandoli come valori assoluti, i principi rivoluzionari devono sempre essere collettivi. Dall’altra parte troviamo la manipolazione mediatica. Ne è esempio il titolo di un giornale venezuelano che parlava di “detenzione illegale di un etarra”. Senza entrare nel merito della valutazione dei principi deontologici dei giornalisti, né della loro etica professionale,che lascia molto a desiderare, dobbiamo stare molto attenti all’influenza che hanno le loro menzogne e le loro mezze verità, che vengono ripetute mille volte, come disse Goebbels, per trasformarle in verità, e per suggestionare le nostre valutazioni, analisi ed opinioni. Coloro che strumentalizzano i mezzi di comunicazione per i loro propri interessi personali in quanto élite capitalista, perseguono una strategia tesa a colpire la lettura critica della realtà di coloro che pensano di avere una visione progressista.
A.M.: Walter, tu quasi giustifichi quanto accaduto a causa della situazione molto difficile che si vive in Venezuela dove il governo è stretto tra il Regno spagnolo da un lato e le pressioni molto forti dell’ opposizione interna dall’altro. Ovviamente, a molti di noi, militanti, attivisti e solidali con le lotte di liberazione dei popoli, la tua espulsione ci ha spaventato da una parte e ci ha fatto riflettere dall’altra… la Spagna, inoltre, continua ad essere un partner economico molto importante per tutti i paesi dell’America latina. Come pensi si possano coniugare la stabilità di un paese nell’ambito delle relazioni internazionali e gli scambi commerciali con la solidarietà rivoluzionaria?
W.W.: Soprattutto va tenuto presente che non può esserci alcuna stabilità in un mondo nel quale il Capitale ed il suo sistema sono egemoni poiché questi attori o fanno la guerra contro qualsiasi alternativa oppure se la fanno tra loro per l’egemonia. Il capitalismo è proprio questo per definizione. Non esiste nessuna formula o strumento etico che lo possa evitare.
Tuttavia a volte la tensione diminuisce oppure durante brevi periodi si crea una apparente stabilità. Il blocco socialista e l’Unione Sovietica hanno obbligato il capitalismo a sviluppare questi aspetti di stabilità (attraverso l’equilibrio nucleare, il modello keynesiano, la carta dei diritti umani e fondamentali dell’ONU, tra gli altri) ma da quando il modello socialista è stato fatto implodere, la strada è stata spianata verso la competitività totale. Ciò significa un aumento di instabilità globale, che si manifesta in focolai di guerre che sono aumentati considerevolmente ed aumenteranno ancora di più nei tempi a venire. Altra espressione è la cosiddetta lotta “antiterrorista” contro “l’asse del male” internazionale.
Pertanto si deve considerare la stabilità come un obiettivo tattico imprescindibile in alcuni momenti di un processo di resistenza di un paese di fronte all’imperialismo, ma mai come un fattore positivo o strategico in un mondo capitalista. Questo crea valutazioni contraddittorie rispetto a quando sia necessario o imprescindibile e benefico al processo rivoluzionario e quando invece favorisca il grande capitale. Tenendo presente questo possiamo confrontarci purché avvenga sulla base del rispetto nei confronti dell’autorità che ognuno ha sul suo proprio processo rivoluzionario. Vale a dire rispettare il principio di non ingerenza nelle questioni della sovranità nazionale. Questa è la base, il fondamento principale della solidarietà internazionalista.
Per questo dobbiamo rivalutare i principi di internazionalismo e solidarietà che attualmente sono concetti confusi dallo stesso sistema che fino a pochi anni fa li criminalizzava. Quando si sono resi conto che non potevano distruggere la solidarietà internazionalista come principio della sinistra, l’hanno assimilata per stravolgerne il contenuto e trasformarla in un valore che include nel suo discorso e nella sua ideologia persino l’estrema destra neoliberale. La concezione sbagliata del concetto di “solidarietà” è stata promossa dal sistema attraverso le ONG, che l’hanno introdotta nella sinistra, disarmandola. Oggi la solidarietà si è trasformata in un arma. Ciò è molto pericoloso per la sinistra. Quando cerchiamo di recuperare la solidarietà internazionalista come principio rivoluzionario, persino molta parte della sinistra critica combatte questo concetto con l’ erronea giustificazione che non si deve porre in pericolo la “stabilità” e non bisogna dare occasioni al sistema per reprimere l’avanzata della “nuova sinistra”. Il sistema non ha bisogno di scuse. Le usa se le ha e se non le ha, le inventa, sempre. In sintesi: non si deve, né si può mai coniugare la stabilità di un paese con la solidarietà rivoluzionaria. Quello che dobbiamo fare – soprattutto come sinistra europea – è imparare a rispettare i processi rivoluzionari di ogni popolo, soprattutto se non comprendiamo o ignoriamo le loro ragioni.
A.M.: Secondo quanto si legge in «Rebelión», “l’Ambasciata di Spagna in Venezuela ha riconosciuto di aver avuto qualche tipo di influenza nella detenzione e nell’espulsione. Hanno rivelato di aver collaborato con le autorità politiche venezuelane ed hanno affermato che la detenzione è una dimostrazione del tipo di cooperazione che Madrid si aspetta dal Venezuela”. Se non avevi alcun carico pendente in Spagna, non ti sembra che questo sia un ambiguo ricatto che il governo venezuelano non avrebbe dovuto accettare per non creare pericolosi precedenti e soprattutto per non mettersi allo stesso livello degli Stati Uniti che, come sappiamo, hanno approntato “liste nere” di persone che per le loro idee e per le loro posizioni coerenti non possono mettere piede nel loro territorio?
W.W.: È un ricatto ma per nulla ambiguo, il quale dimostra che non ha nulla a che vedere con questioni di giustizia o di legalità ma con interessi politici. Se il governo venezuelano avesse dovuto o non avesse dovuto accettare di sottomettersi a questo ricatto è qualcosa di cui si può discutere ma in ultima istanza sono i venezuelani e le venezuelane quelli che devono decidere e gli altri devono rispettare tale decisione. È pericoloso non tanto come precedente – giacché di cose di questo genere ne sono accadute numerose e più importanti, soprattutto tra i rivoluzionari colombiani, ma anche con i rifugiati baschi ed altri – ma il pericolo principale è la demotivazione, i conflitti, le frustrazioni nella stessa popolazione rivoluzionaria venezuelana. Il pericolo risiede nel fatto che molti rivoluzionari si rassegnino e si ritirino dalla lotta o che confondano il nemico, i principi e gli obiettivi prioritari della rivoluzione bolivariana.
Come internazionalista devo evitare che si utilizzi questo incidente per promuovere precisamente questo. Altra questione è che attraverso questo incidente e molti altri sui quali dobbiamo riflettere, possiamo creare un fronte internazionalista contro la legalizzazione delle liste nere, la lotta antiterrorista, la soppressione del diritto di asilo e tutte le altre espressioni controrivoluzionarie che si introducono come principi di uno stato di diritto quando con esso non hanno nulla a che vedere ma sono solo formule per imporre interessi del grande Capitale contro qualsiasi processo progressista, umano, socialista e rivoluzionario.
A.M.: Qual era il motivo del tuo viaggio a Caracas?
W.W.:Il motivo del viaggio era poter incontrare diversi politici e attori sociali che avevano mostrato interesse verso le opinioni e le analisi diverse da quelle trasmesse dai mezzi di comunicazione ufficiali e dagli agenti spagnoli sulla realtà del popolo basco. C’era anche l’intenzione di organizzare brigate internazionaliste con giovani disposti a formarsi come internazionalisti. Uno dei motivi del viaggio era inoltre la diffusione del processo democratico (Zutik Euskal Herria) iniziato alcuni mesi or sono dalla Sinistra Indipendentista Basca, caratterizzato dalla sua forma di dare soluzione ai problemi organizzativi, antirepressivi, politici ed economici e fare un bilancio di questa iniziativa di azioni unilaterali verso la risoluzione del conflitto. Conflitto che il governo spagnolo non vuole che si conosca, non vuole negoziare e rispetto al quale non propone alternative ma considera solo una soluzione finale in cui il popolo basco accetti di subire la sconfitta per mezzo della repressione militare, politica, giudiziaria, amministrativa e poliziesca.
Diverse entità spagnole dicono che stiamo ingannando la gente raccontando menzogne sulla esistenza del conflitto e del popolo basco. Questo è di fatto una mancanza di rispetto paragonabile solo con il reale “porqué no te callas?” diretto ai venezuelani e alle venezuelane: in questo caso poiché presuppone che i deputati, i parlamentari, i ministri, i politici, i dirigenti sociali e la gente in generale non siano in grado di rendersi conto quando qualcuno gli racconta falsità, che non siano capaci di riconoscere una verità da una menzogna e che non abbiano le loro fonti per replicare … in conclusione presuppone che siano idioti. Qualsiasi politico o politica venezuelana ha un livello professionale perfettamente paragonabile a quello di qualsiasi imprenditore, politico o diplomatico spagnolo. Qualsiasi cittadino o cittadina formatosi nel processo bolivariano ha più competenze dei cittadini spagnoli formatisi dalla Televisione Spagnola pubblica o privata, o da giornali come «El País», «El Mundo», «Hola» o «Interviu». In ogni caso questi imprenditori, politici o diplomatici spagnoli sono superiori solo nella loro boria reale, dimostrata dalla nobiltà della quale sono sudditi volontari. So che la mia opinione sul governo spagnolo e la società in generale non è molto lusinghiera per loro e che li può oltremodo infastidire, ma non posso cambiare tale opinione per un imperativo legale o per esigenze inquisitorie. Inoltre, se non fosse perché tentano di imporre la loro volontà e le loro decisioni attraverso la minaccia ed il ricatto, la violenza e la repressione (anche se legalizzata e istituzionalizzata) dove non gli compete – nel Paese Basco e sul popolo basco – non avrei motivo di parlare molto di queste cose.
A.M.: “Zutik Euskal Herria” (Euskal Herria in piedi) è una proposta della Izquierda Abertzale (Sinistra Nazionalista Basca) che propone un ambito democratico verso il superamento del conflitto. Cosa ci puoi dire sull’argomento?
W.W.: In verità parlare di Zutik Euskal Herria richiederebbe un’altra intervista e sarebbe molto importante e interessante poter approfondire e chiarire cosa è e cosa non è. Riassumendo, si tratta di una decisione di cambiamento strategico unilaterale della Izquierda Abertzale per riprendere l’iniziativa politica nel paese. È basata sull’analisi e sulla presa di decisione collettiva di tutti coloro che appartengono al così detto “ambiente terrorista”, che supera i settemila militanti e che si è realizzata durante molti mesi. Il processo è iniziato con la presa di coscienza del fatto che il governo spagnolo, che aveva lasciato il tavolo dei negoziati sulla risoluzione del conflitto alla fine del maggio 2007, non solo non era disposto a riprendere i dialoghi ma che era deciso ad applicare una “soluzione finale” repressiva e vendicativa. Aveva chiuso tutte le strade per l’ennesima volta. La situazione era bloccata. Non si poteva lavorare per una soluzione sensata, giusta e duratura.
D’altra parte alcune persone avevano analizzato il fatto che il governo spagnolo si era debilitato enormemente nello spazio politico, non aveva capacità per confrontarsi politicamente e democraticamente con la risoluzione del conflitto ed era questo che lo manteneva nella strategia criminale negando qualsiasi offerta che non significasse la sconfitta a causa della repressione politico-giudiziaria ed amministrativa dell’esecutivo. Quando abbiamo cominciato a discutere ed analizzare questo ci siamo resi conto che anche molte altre condizioni oggettive e soggettive erano cambiate o erano riuscite a cambiare notevolmente di forma. Era chiaro che per procedere verso un Ambito Democratico necessario a risolvere il conflitto politico era fondamentale agire politicamente in maniera unilaterale per il bene del popolo (vale a dire di noi tutti e di noi tutte) e nella certezza che ci fossero le condizioni per poter cominciare a raccogliere le forze dello spettro indipendentista e per la sovranità del nostro paese in assenza di violenza procedendo alla costruzione di un nuovo soggetto politico per i futuri negoziati e per la costruzione nazionale e sociale. Si è dibattuto fra tutti e tutte e si è arrivati alla decisione di procedere in questa direzione senza aspettare accordi o azioni del governo spagnolo né di altri.
Il governo spagnolo ha agito invece poi rapidamente con la detenzione dei coordinatori e dei portavoce del dibattito, dei giovani, dei dirigenti, degli avvocati e dei familiari dei prigionieri e delle prigioniere politiche… sono aumentate le denunce di pene accessorie ai familiari, le percosse nelle carceri, le torture, la guerra sporca, il terrorismo di Stato. Tutto questo per paralizzare il dibattito, dividere, rompere e ristabilire lo scenario violento precedente. Ma ancora una volta non sono riusciti a fermare l’avanzata della Sinistra Abertzale. Ed è di questa avanzata, che continua da più di 50 anni verso l’autodeterminazione e la democrazia, che lo Stato ha vero terrore. Per questo manipolano, mentono, dicono che la iniziativa è una “trappola”, che si tratta sempre della stessa cosa, che è “per debolezza”, o “per tentare di evitare la sconfitta”, “per recuperare l’ opportunità di accedere ad un posto di consigliere o sindaco nelle prossime elezioni”… tutto questo è una menzogna e lo sanno.
L’obiettivo della Sinistra Abertzale è un altro: la risoluzione democratica del conflitto e la definizione di regole di confronto democratiche e con garanzie con le quali tutti i progetti politici possono difendersi e realizzarsi con l’unica condizione che prevede la libera volontà delle persone che vivono in Euskal Herria. Ciò non può non includere anche il progetto politico della Sinistra Indipendentista Basca che è Indipendenza e Socialismo.
Intervista all’Ambasciatore della Repubblica Bolivariana del Venezuela in Italia Luis José Berroterrán Acosta
di Annalisa Melandri
A.M. — Potrebbe spiegare in cosa consiste l’Alleanza Bolivariana per le Americhe, quali sono i Paesi che ne fanno parte e gli obiettivi comuni?
J.L.B.A. — L’ Alternativa Bolivariana per le Americhe nasce come progetto alternativo volto a contrastare le politiche asimmetriche dell’Area di Libero Commercio delle Americhe (ALCA), creata dagli Stati Uniti d’America e dai Trattati di Libero Commercio, negoziati bilateralmente da questi ultimi con i Governi del continente. Tali accordi rappresentarono un’evoluzione del concetto di globalizzazione nato a seguito della caduta del muro di Berlino, dove lo sviluppo informatico della produzione avrebbe permesso di inondare il mercato mondiale attraverso un gruppo limitato di produttori, condannando l’America Latina a divenirne il fornitore di materie prime permanente.
A partire dalla data della sua fondazione, il 14 dicembre 2004, su iniziativa del Governo del Venezuela e di quello di Cuba, e una volta che tale progetto di integrazione si consolidò, il nome venne modificato in Alleanza Bolivariana per i Popoli della Nostra America, in modo da arricchirlo ulteriormente attraverso l’introduzione del Trattato di Commercio con i Popoli, ALBA-TCP.
L’ ALBA promuove la trasformazione delle società latinoamericane, al fine di renderle più giuste, più colte, più partecipative e solidali, e dunque è concepita come un processo integrato destinato a garantire l’eliminazione delle disuguaglianze sociali, a migliorare la qualità della vita ed incoraggiare una partecipazione effettiva dei popoli nella costruzione del loro stesso destino.
Attualmente è composta da otto Paesi Membri: Cuba, Bolivia, Mancomunidad de Dominica, Ecuador, Nicaragua, Antigua e Barbuda, Venezuela, Saint Vincent e Grenadine, nazioni che compongono uno spazio di cooperazione che possiede 73 milioni di abitanti e 2,6 milioni di Km².
Altre nazioni latinoamericane attualmente fanno parte dell’ALBA in qualità di osservatori all’interno di differenti progetti, come per esempio PETROCARIBE, e stanno valutando la possibilità di entrarne a far parte completamente: Republica Dominicana, Guatemala, Paraguay, Haiti, El Salvador.
Le aree comuni promosse dai Paesi ALBA-TCP sono le seguenti:
Agricoltura, terra e alimentazione
Ambiente e cambiamenti climatici
Scienza e tecnologia
Cultura ed educazione
Democrazia, politica e partecipazione
Economia, produzione e finanza
Enrgia e petrolio(Petrocaribe)
Sovranità, geopolitica, forze armate, sicurezza, difesa
Integrazione regionale
Telecomunicazioni e mezzi di comunicazione
Memoria storica
Forze politiche e movimenti sociali
Diritti umani, giustizia sociale e pari opportunità
Multipolarità endogena
Potere locale ed organizzazione comunitaria
Popoli originari
Salute pubblica e servizi ospedalieri
Solidarietà
Integrazione Sud-Sud
Trasporti e Infrastrutture
Turismo sociale, sport e ricreazione
A.M. — Quali sono le principali mete raggiunte dall’Alleanza Bolivariana delle Americhe a partire dal momento della sua creazione?
J.L.B.A. — Guardando ai Paesi non come semplici cifre di mercato ma come popoli, sorse tra i governi avanguardisti della regione l’idea di trasformare le loro società per renderle più giuste, più colte, più partecipative e solidali tra loro.
Per raggiungere tali obiettivi, l’ALBA si fonda su una serie di principi e basi essenziali:
1.- Il commercio e gli investimenti non devono essere fini a se stessi, ma devono rappresentare strumenti utili al raggiungimento di uno sviluppo equo e sostenibile, dal momento che una vera integrazione latinoamericana e caraibica non può essere figlia cieca del mercato, e nemmeno può rappresentare una semplice strategia per ampliare i mercati esteri o stimolare il commercio. Affinchè questo principio possa sussistere, è necessaria un’effettiva funzione dello Stato come regolatore e coordinatore dell’attività economica.
2.- Deve esistere un trattamento speciale e differenziato, che tenga in considerazione il livello di sviluppo dei diversi Paesi e la dimensione delle loro economie e che garantisca l’accesso degli stessi ai benefici derivanti dal processo d’integrazione.
3.- Tra i Paesi membri e produttori deve esistere complementarità economica e cooperazione, non competizione, in modo che venga promossa una specializzazione produttiva, efficiente e competitiva che risulti compatibile con lo sviluppo economico equilibrato di ogni Paese, attraverso strategie di lotta alla povertà e con la conservazione dell’identità culturale dei popoli.
4.- La cooperazione e la solidarietà devono esprimersi attraverso piani speciali rivolti ai Paesi meno sviluppati della regione: essi includono il Piano Continentale contro l’Analfabetismo, che usa tecnologie moderne già utilizzate in Venezuela, un piano latinoamericano di trattamento gratuito della salute, rivolto ai cittadini che non hanno accesso a tali servizi, ed un piano di borse di studio a livello regionale nelle aree di maggiore interesse per lo sviluppo economico e sociale.
5.- Creazione del Fondo di Emergenza Sociale, proposto dal Presidente Hugo Chávez durante il Summit dei Paesi sudamericani, svoltosi recentemente ad Ayacucho.
6.- Sviluppo integrato delle comunicazioni e dei trasporti tra i Paesi del latinoamerica e del caribe, che includa piani di costruzione di strade, ferrovie, linee marittime e aeree, telecomunicazioni, etc.
7.- Promozione di azioni che favoriscano la sostenibilità dello sviluppo attraverso norme che proteggano l’ambiente, stimolino un uso razionale delle risorse ed impediscano la proliferazione di proprietari scialacquatori di consumo, lontani dalla realtà che vivono i nostri popoli.
8.- Promozione di un’ integrazione energetica tra i Paesi della regione, che assicuri una fornitura stabile di prodotti energetici a beneficio delle società latinoamericane e caraibiche, così come avviene nella Repubblica Bolivariana del Venezuela attraverso Petroamérica.
9.- Incoraggiamento agli investimenti di capitali latinoamericani in America Latina e nel Caribe, con l’obiettivo di ridurre la dipendenza dei Paesi della regione dagli investitori stranieri. A tal fine si creerebbero alcuni appositi strumenti, come un Fondo Latinoamericano per gli Investimenti, una Banca per lo Sviluppo del Sud e la Società di Garanzie Reciproche Latinoamericane.
10.- Difesa della cultura latinoamericana e caraibica e dell’identità dei popoli della regione, con particolare riguardo ed incoraggiamento nei confronti delle culture autoctone ed indigene. Creazione della Televisione del Sud (TELESUR) come strumento alternativo al servizio della diffusione delle nostre realtà.
11.- Promozione di misure che facciano sì che le norme sulla proprietà intellettuale, proteggendo il patrimonio dei Paesi latinoamericani e caraibici dalla voracità delle imprese transnazionali, non diventino un freno alla necessaria cooperazione tra tutte le terre dei nostri Paesi.
12.- Concertazione di posizioni nella sfera multilaterale e nei processi di negoziazione di ogni genere, con Paesi e blocchi di altre regioni, includendo la lotta per la democratizzazione e la trasparenza negli organismi internazionali, con particolare riferimento alle Nazioni Unite ed agli organi ad esse connessi.
A.M. — Tra gli obiettivi principali, come ci ha spiegato, vi è la riduzione delle differenze esistenti tra il livello di sviluppo dei vari Paesi che compongono il Latinoamerica. Questo rappresenta un passo fondamentale per raggiungere l’integrazione latinoamericana. Fino a che punto è stato realizzato tale obiettivo? Quali strumenti sono stati creati per permettere ai Paesi economicamente più deboli di avvicinarsi al livello di sviluppo di quelli più sviluppati?
J.L.B.A. - Con la nascita dell’ALBA l’integrazione regionale ha smesso di essere un meccanismo commerciale di depredazione dei popoli e del loro ambiente per trasformarsi in un processo di alleanza solidale, inclusivo e pieno di speranze.
Nell’ALBA-TCP il commercio e gli investimenti non vengono visti come fini a se stessi ma come strumenti per permettere uno sviluppo equo e sostenibile. Viene offerto un trattamento speciale ai Paesi più piccoli al fine di ottenere uno sviluppo complementare e promuovere la cooperazione tra tutti i Paesi. L’ALBA possiede un forte orientamento alla giustizia sociale, e si propone di affrontare e risolvere le asimmetrie esistenti in maniera diretta, attraverso convegni, progetti e piani d’aiuto, come le Missioni Sociali o le transazioni compensatorie esplicite. In tal senso, l’ ALBA-TCP rappresenta una totale rottura con la visione classica ed economicistica dell’integrazione e della cooperazione allo sviluppo. Al contrario, cerca di sviluppare un’alleanza politica strategica, storica, che possa unire le capacità ed i punti di forza dei suoi Membri per poter, in tal modo, liberare i suoi popoli e costruire la Patria Grande sognata da Miranda, Bolívar, Martí e Sandino. In tal senso, integrazione e cooperazione allo sviluppo nell’ALBA-TCP sono sinonimi. La visione sistemica dell’insieme dei Paesi Membri, integrati in modo solidale, e’ quella che permette di inquadrare e promuovere azioni nazionali e di renderle effettive.
A.M. — L’attuale crisi economica sta avendo effetti disastrosi sull’economia Europea e ciò si ripercuote tragicamente nel mondo del lavoro, con l’aumento del tasso di disoccupazione e di povertà. In che misura la crisi sta avendo ripercussioni sull’America Latina e quali risposte sta offrendo o sta cercando di offrire l’ALBA?
J.L.B.A. — I Paesi dell’ALBA-TCP hanno deciso che l’uscita dalla crisi non può trovarsi all’interno di risposte oligarchiche ed erronee che non considerino i popoli, né nella pretesa di rifondare un sistema finanziario internazionale che ha bisogno di essere sostituito con un altro in cui prevalga la solidarietà.
In tal senso i Presidenti di Ecuador e Venezuela rappresentano i più acerrimi difensori del recupero delle banche centrali, al fine di mettere queste ultime sotto il controllo pubblico. Per esempio, nel nostro Paese si cerca di esercitare un controllo pubblico sugli investimenti stranieri ed il cambio, in modo da poter evitare la fuga tempestiva di capitali e disarmare le strategie di destabilizzazione dell’oligarchia venezuelana.
A livello regionale l’America Latina ha proposto la creazione della Banca del Sud, associata all’ UNASUR. Il suo obiettivo e’ quello di utilizzare le risorse fiscali dei suoi Paesi Membri come meccanismi di credito regionale volti al finanziamento di opere di integrazione e sviluppo regionale. In questo modo e’ nata l’idea di creare il Fondo del Sud, che utilizza una parte delle riserve monetarie per offrire un’assistenza rapida ed incondizionata in determinati casi, come per esempio nelle crisi monetarie per contagio, e diventa un meccanismo di autodifesa delle monete nazionali. Questo Fondo permetterà di compiere passi avanti nell’integrazione monetaria e nella creazione di una moneta comune, con l’obiettivo di sostituire il dollaro come moneta di scambio regionale.
L’ ALBA-TCP, a sua volta, ha creato un Sistema Unico di Compensazione Regionale (SUCRE), avviato per realizzare transazioni elettroniche che faciliteranno i flussi commerciali interregionali ed un progressivo abbandono del dollaro nelle relazioni commerciali interregionali e finanziarie tra i Paesi Membri, come presupposto per un Sistema Monetario e Finanziario Regionale. È stato creato un Consiglio di Compensazione Economica, attraverso l’integrazione delle aree dell’economia, della finanza, dell’industria, del commercio, della pianificazione e dello sviluppo: esso pianificherà gli investimenti necessari al soddisfacimento dei bisogni dei popoli di ogni nazione. Sono stati poi costituiti un Consiglio Monetario, una Camera di Compensazione, una Unita’ di Conto Comune ed un Fondo di Riserva e Convergenza Commerciale.
A.M. — Tra le cause del Colpo di Stato in Honduras, vi era la decisione del Presidente Manuel Zelaya di unirsi all’ALBA, formalizzata nell’agosto del 2008. Considerando che l’ALBA costituisce un accordo di tipo economico-commerciale, gli Stati Membri come possono, uniti, far fronte a situazioni di questo tipo? Come possono reagire, a loro volta, rispetto al crescente interesse degli Stati Uniti d’America verso la regione, dimostrato recentemente dall’istallazione di 7 basi militari nel territorio colombiano e dalla riattivazione della IV flotta?
Due fatti molto recenti confermano l’offensiva egemonica messa in atto dal Governo degli USA attraverso il Pentagono: essi costituiscono atti di aggressione contro tutta l’America Latina ed il Caribe. Risulta evidente, da parte degli USA, l’intenzione di concretizzare una dottrina politico-militare volta all’occupazione ed alla dominazione, a qualunque costo, di un territorio che da sempre e’ stato considerato come il loro cortile di casa, come è stato dimostrato dalla storia del “monroismo nordamericano”.
Il primo fatto riguarda il Colpo di Stato perpetrato in Honduras dalle classi borghesi protette dalla Missione Diplomatica nordamericana, avente alla radice l’intenzione di collocare un’urna addizionale non vincolante relativa al Referendum Costituzionale e di includere l’Honduras nell’ ALBA-TCP. Tale situazione, probabilmente, era stata condannata dal Presidente Obama, dalla sua Segreteria di Stato e da altre nazioni ed organizzazioni internazionali, ma senza dubbio è stata appoggiata dal Pentagono, che mantiene nella zona una base militare da dove, storicamente, vengono soffocati gli intenti liberatori nella regione e dove vengono addestrati i militari honduregni. Inoltre, e’ stata appoggiata dalla United States Agency for International Development (USAID) e da altre ONG internazionali che inviano milioni di dollari per mantenere lo stato di fatto. Fortunatamente, il nuovo governo di El Salvador è stato già avvisato, e tutta l’America Latina conosce la situazione. I tempi dei Colpi di Stato sono tornati e le nazioni latinoamericane non accetteranno l’imposizione di governi non eletti sovranamente dai propri popoli.
Questo Colpo di Stato ha cercato poi di legittimarsi attraverso delle elezioni totalmente illegittime, dal momento che sono state realizzate sotto un regime dittatoriale, senza nessun tipo di garanzia per i cittadini né di diritti umani per i difensori del Presidente legittimo degli Honduregni.
Il secondo fatto riguarda la riattivazione della IV Flotta del Comando Sud degli USA (disattivato nel 1948, più di sessant’anni fa) e l’accordo tra USA e Colombia a seguito del mancato rinnovo della concessione della base militare di Manta in Ecuador. Dietro questo scenario è sorta una nuova strategia di controllo: l’occupazione e l’istallazione di sette basi militari in territorio colombiano utilizzando la scusa che si tratti di un piano per combattere il narcotraffico ed il terrorismo, quando invece l’investimento multimilionario durante l’implementazione del Plan Colombia ha portato risultati molto tristi.
Inoltre, gli Stati Uniti si arrogano la prerogativa di definire chi è terrorista e chi non lo è nel mondo. Allo stesso modo, si muovono sulla base del principio di guerra preventiva, dove un sospetto basta a giustificare un’azione bellica. L’America Latina e’ messa alla prova ed ogni Paese ed ogni gruppo di integrazione continuerà a difendersi come ha fatto il “Bravo Pueblo” dell’Honduras per difendere la sua democrazia.
Non a caso le artiglierie che puntano ai Paesi dell’ ALBA, al Venezuela, alla Rivoluzione Bolivariana e ai progetti di integrazione sono circondate da nientemeno che tredici basi statunitensi, situate in Colombia, Panama, Aruba e Curaçao, cosi come dalle portaerei e le navi da guerra della IV Flotta e dal Piano Merida.
Tutto ciò indica che gli sforzi volti a destabilizzare i Paesi impegnati nella lotta all’emancipazione ed il blocco contro Cuba sarannno mantenuti, e che vi saranno altre aggressioni. L’esperienza golpista in Honduras dimostra che si è passati solamente ad un “neo-golpismo”, che possiede una maschera democratica non sprovvista dell’appoggio del Pentagono, anche se l’amministrazione di Obama tende a negarlo.
Questo dispiegamento di forze paramilitari non ha ricevuto sanzioni né a livello internazionale, né in seno alle Nazioni Unite e nemmeno da parte dell’Unione Europea, ed il fatto più triste è che Paesi fratelli hanno perso la propria sovranità nazionale permettendo alle truppe americane di rimanere nel loro territorio.
Sono certo che i popoli della nostra America Latina che sostengono i cambiamenti progressisti non permetteranno che si commetta un nuovo crimine contro la democrazia.
A.M. — In Italia ed in Europa l’informazione che arriva dall’America Larina e, in particolare, dai Paesi con Governi progressisti di sinistra o centro-sinistra viene manipolata e filtrata dai mezzi di comunicazione, offrendo una visione distorta e molte volte falsa. Che supporto può offrire, secondo lei, una rivista come “ALBA” all’informazione, in relazione ai temi latinoamericani?
J.L.B.A. — La Rivista «ALBA» costituisce uno strumento di cui la comunità italiana aveva bisogno e serve a contrastare la manipolazione mediatica e l’opinione venduta sul Venezuela.
La linea editoriale dei mezzi privati risponde agli interessi delle grandi imprese transnazionali, quindi una rivista che presenti un’informazione chiara sulla politica bolivariana e, inoltre, sotto l’egida dell’integrazione latinoamericana, credo costituisca, senza alcun dubbio, un elemento positivo.
L’obiettivo fondamentale è quello di far conoscere ciò che si sta facendo, attraverso la veridicità dei fatti e delle fonti, in modo da poter rafforzare la politica di comunicazione e d’informazione. Citando una poesia di Mario Benedetti, vedo che ciò che sta succedendo nel nostro Paese e nel nostro Continente è necessario e «cosa accadrebbe se un giorno ci svegliassimo e ci rendessimo conto di essere la maggioranza? Cosa succederebbe se anziché continuare ad essere divisi ci moltiplicassimo, ci sommassimo e fermassimo il nemico che interrompe il nostro passo?».
La consegna di un’informazione di prima mano, realizzata da giornalisti progressisti, latinoamericani ma anche italiani che hanno conosciuto la realtà dei nostri Paesi, è un qualcosa di nuovo per questa società. Infatti, se non venisse compreso sin dalle sue basi il processo di trasformazione che sta vivendo l’America Latina, non potremmo comprendere l’importanza della costruzione di questo processo stesso; quindi, senza questa Rivista sarebbe molto facile cadere nella disinformazione che viene venduta tutti i giorni attraverso la radio, la stampa e la televisione contro il Venezuela, l’ALBA-TCP ed i Paesi seguaci di un processo di cambiamenti sociali di sinistra, il cui obiettivo centrale è il raggiungimento di una democrazia partecipativa che coinvolga il cittadino nell’assunzione delle decisioni.
In Venezuela, ultimamente, è stato inaugurato un movimento chiamato “le guerriglie comunicazionali”, che propone il coinvolgimento dei cittadini nelle questioni comunicative, al fine di moltiplicare le loro forme di espressione: esso nasce dalla pratica di un popolo che si erge a soggetto degli eventi. Così, nonostante il bombardamento mediatico non colpisca le menti dei venezuelani, la Rivista cerca di creare protagonisti che esprimano veramente i fatti che vive il nostro Continente.
Spero che questo mezzo di comunicazione abbia risonanza anche in altre città italiane, al fine di motivare i sostenitori dell’integrazione solidale latinoamericana a creare altri mezzi informativi e comunicazionali convenzionali e non convenzionali.
Entrevista de Annalisa Melandri a Narciso Isa Conde a propósito del golpe brutal que le propinó la Policía dominicana
Desde tiempo los movimientos sociales y amplios sectores de la sociedad civil de la República Dominicana están movilizándose pidiendo la renuncia del jefe de la Policía, general Rafael Guillermo Guzmán Fermín. Asociaciones de defensa de los Derechos Humanos del país revelan que en los casi tres años de su jefatura, miembros de la Policía Nacional han asesinado a mil 750 personas en supuestos “intercambio de disparos”. En Santo Domingo, el pasado 23 de julio, una marcha realizada por el Comité Contra el Abuso Policial, conformado por la mayoría de estudiantes, ha sido prohibida y duramente reprimida a macanazos y empujones por la Policía . Unos jóvenes han resultado heridos y el político y dirigente del Movimiento Caamañista Narciso Isa Conde, de 67 años de edad, que solidarizaba con ellos, ha recibido una patada en la espalda por un teniente que le ha fracturado 4 costillas. Hablamos con él sobre lo ocurrido.
A.M. — Narciso, tú has recibido una patada en la espalda que te ha fracturado cuatro costillas además de provocarte una neuritis intercostal mientras participabas junto a unos jóvenes a una manifestación pacífica organizada el 23 de julio en Santo Domingo contra los abusos cometidos por la Policía Nacional en la República Dominicana. ¿Puedes contarnos como te sientes, cuales consecuencias has padecido y como se desarrollaron los hechos?
N.I.C.–Bueno, son tres, no cuatro. Pero casi igual, el hecho y el daño.
Un hecho realmente bestial por el método y alevoso por lo selectivo del golpe.
La consecuencia es un dolor agudo, a veces insoportable y prolongado, insuperable por lo menos en 40 días.
Los hechos consistieron en el cerco policial a los manifestantes para impedir una caminata de unos 200 metros (desde la Plaza de la Cultura hasta el Palacio de la Policía Nacional, en el centro de nuestra Capital).
Luego la decisión de impedir una especie de plantón frente al Teatro Nacional, ubicado dentro de la Plaza de la Cultura, a macanazos sucios; incluida la patada del agente karateca que me fracturó las costillas cuando nos sentamos en la escalinata para no dejarnos desalojar.
La orden partió del coronel jefe de tropa, muy conocido por sus constantes fechorías, Eusebio Castillo.
El balance: 7 personas golpeadas fuertemente y algunas decenas con golpes y estrujones débiles.
A.M. — ¿Piensas que la agresión esté relacionada a tu constante actividad de denuncia que presentas cotidianamente en tu programa Tiro al Blanco respecto a la corrupción generalizada del país y a las conexiones entre los altos mandos de las autoridades dominicanas con el narcotráfico y el crimen organizado?
N.I.C. - Claro que sí y muy especial a mis ataques directos al asesino y corrupto que dirige la Policía Nacional, general Guillermo Guzmán Fermín, a las estructuras de mando de ese cuerpo, convertido en la principal organización criminal del país y al propio presidente Leonel Fernández, articulador, protector y beneficiario del proceso de degradación de las instituciones y de la conversión del Estado dominicano en un Estado narco-delincuente.
A.M. — ¿Hay responsabilidades directas del Presidente de la República en esa situación?
N.I.C. - Sin dudas. Él es el protector de este personaje convertido en uno de “sus” generales, presto a apoyar su reelección y presto también a desplegar la represión y el estado policial frente a la crisis integral que afecta nuestra sociedad.
Concluidas las elecciones congresuales y municipales, el Presidente Fernández lanzó (por vía indirecta) su campaña reeleccionista pese al obstáculo constitucional. Ese propósito no se impone sin recurrir a muchas trampas, sobornos y grados más altos de autoritarismo y represión, por momentos sangrienta.
A.M. — La protesta organizada por el Comité contra los Abusos Policiales se desarrolló pacíficamente. Parece absurdo que al mismo tiempo que pide más respeto por los derechos humanos por parte de las autoridades, la sociedad civil sea agredida por la misma Policía a macanazos y patadas. ¿Qué está pasando en el país con esta institución?
N.I.C. — Algo ya te dije de esa institución, que en esta ocasión hizo un acto de reafirmación de su despotismo, de sus esencias represivas, de su “colombianización” en el contexto del despliegue de la doctrina de “seguridad democrática” asesorada por oficiales colombianos, del FBI y del tenebroso MOSSAD.
Este señor es hijo de unos de los generales más represivos del terrorismo de Estado de la época de Balaguer y hace gala de la lealtad a la trayectoria de su padre. Fue entrenado en la escuela de los Carabineros de Pinochet, es uno de los subcontratistas de obras del Estado, encabezó el grupo de los llamados “cirujanos” encargados de asesinar y lisiar jóvenes participantes en las luchas barriales en el Nordeste del País. Recientemente se han evidenciado además sus fuertes conexiones con el capo español Arturo del Tiempo Márquez, traficante de grandes cargamento de cocaína y “lavador” en tierra dominicana de enormes sumas de euros; personero de la narco-corrupción recientemente capturado en Barcelona.
A.M. — ¿Presentarás demanda por lo ocurrido ante las autoridades?
NIC.- La estamos preparando contra la institución, su jefe y los subalternos involucrados en ese acto abusivo y violento.
A.M. — ¿El comité contra los abusos policiales ha anunciado otras actividades para el futuro respecto a este tema?
N.I.C. - Están programando nuevas iniciativas, que serán precisadas próximamente.
A.M. — Finalmente hablamos de la denuncia que hizo el embajador colombiano ante la OEA en la que te acusa de ser “parte de una red de coordinación de guerrillas”. Te acusaron de haber visitado campamentos de las FARC en Venezuela en febrero de este año y presentaron como pruebas de eso una fotografía en la que apareces junto a los comandantes Iván Márquez y Jesús Santrich.
NIC.- Esa foto es del 2006 y fue originalmente publicada por mi y ampliamente difundida a lo largo de los últimos años. Nunca oculté el hecho. Yo explique entonces los móviles políticos de esa visita y las entrevistas radiales que le concedí al sistema de comunicación de las FARC sobre temas continentales, las cuales fueron publicadas en revistas y libros en el 2006 y 2007.
Uribe y su gente hicieron un montaje electrónico con esa foto que persigue “justificar” una agresión militar a Venezuela”, actuando el régimen colombiano como instrumento de EEUU y de las mafias políticas. De paso procuran actualizar su plan de criminalización contra mí y reactivar el plan de asesinato ya denunciado en el 2009. Entonces también utilizaron esa y otras fotos parecidas.
EEUU está en plan de “ultimátum” y provocación dirigida a desestabilizar la revolución bolivariana y a invadir esa zona. Están pensando en recuperar el petróleo Venezolano y a sentarse militarmente sobre las riquezas amazónicas.
Ese es el sentido de sus 7 bases en Colombia, de la creciente infiltración paramilitar en Venezuela, de la reactivación de la IV Flota, de las bases de Curacao y Aruba y de los recientes y masivos despliegues militares en Haití y Costa Rica.
Las patrañas necesitan leyendas proyectables a nivel mediático. Precisan de trucos. En este caso recurren a inventarse lo de los campamentos en Venezuela (absolutamente innecesarios para las FARC y el ELN, que tienen campamentos hasta ahora inexpugnables en todo el territorio colombiano) y en ese contexto me ubicaron propagandísticamente en Venezuela en febrero pasado mediante una foto que fue tomada en Colombia en el 2006 y publicada inmediatamente después.
Son además de asesinos, mentirosos consumados, como sus padrinos yanquis.
A mi me preocupa en grande la determinación imperialista de atacar militarmente a Venezuela a través de Colombia con fuerzas propias y ajenas, y respaldo, en consecuencia, la decisión del Comandante de romper relaciones con Uribe, emplazar al “nuevo” gobierno de Santos (aunque sin la menor esperanza de mi parte de que en perspectiva pueda ser diferente) y movilizar fuerzas en la frontera. Creo además que las FARC, el ELN y todas las fuerzas combativas de Colombia están llamadas a jugar un rol estelar en la resistencia irregular a la invasión gringa como parte de la guerra de todo el pueblo o “guerra asimétrica”.
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Annalisa Melandri
Santo Domingo, 2 de agosto 2010
Intervista di Annalisa Melandri a Narciso Isa Conde rispetto alla brutale aggressione subita dalla Polizia dominicana.
Da tempo i movimenti sociali ed ampi settori della società civile della Repubblica Dominicana si stanno mobilitando chiedendo le dimissioni del capo della Polizia, generale Rafael Guillermo Guzmán Fermín. Associazioni per la difesa dei Diritti Umani del paese rendono noto che nei tre anni trascorsi dall′ inizio del suo incarico, membri della Polizia Nazionale hanno ucciso già 1750 persone in presunti “scontri a fuoco”. A Santo Domingo, lo scorso 23 luglio, è stato impedito lo svolgersi di una manifestazione pacifica organizzata dal Comitato contro gli Abusi della Polizia, formato per la maggior parte da studenti, e la mobilitazione è stata repressa duramente a manganellate e pestaggi da parte della Polizia. Alcuni giovani sono stati feriti e il politico e dirigente del Movimento Caamañista Narciso Isa Conde, di 67 anni, che stava solidarizzando con loro, ha ricevuto da un tenente un calcio alle spalle che gli ha fratturato 4 costole. Ci racconta quanto accaduto.
Victor Polay Campos: una vita spesa nella guerra all’ingiustizia
L’Mrta nel nome si ispira a Túpac Amaru II, leader in Perú della grande rivolta indigena contro la colonizzazione spagnola del 1780. Il Mrta ha lottato e combattuto contro due dei governi più controversi della storia del paese. Il primo del presidente Alan García (nuovamente in carica dal 2006), tra il 1985 e il 1990, accusato di gravi violazioni dei diritti umani per i massacri avvenuti nelle carceri di San Juan di Lurigancho e di El Frontón. Il secondo quello di Alberto Fujimori, condannato recentemente a 25 anni di carcere come mandante dei massacri di Barrios Altos e di La Cantuta, considerati «crimini contro l’umanità secondo il diritto penale internazionale» come riportato nella sentenza.
Intervista a Francisco Soberón direttore dell’Asociación Pro Derechos Humanos (APRODEH)
Ismael León Arías: la repressione degli indigeni nel sangue. Alan García ha dei precedenti
Annalisa Melandri — Quali sono le cause della rivolta indigena? E la lotta da quanto tempo va avanti e in che forme?
Ismael León Arías — La causa della rivolta è da ricercare nel tentativo del presidente Alan García di ingannare le comunità indigene negando di aver l’intenzione di autorizzare la vendita o la concessione delle loro terre. In realtà ha nascosto alcuni di questi provvedimenti, che erano destinati a spianare la strada al Trattato di Libero Commercio con gli Stati Uniti all’interno di un pacchetto di cento decreti legge di minore importanza. Per di più nella sua campagna elettorale, il candidato García aveva promesso che il suo partito avrebbe rivisto tutti gli aspetti negativi di questo trattato, ma una volta eletto lo confermò senza nessun cambiamento, accelerando la sua applicazione. Prima grande sorpresa. Immediatamente nell’Amazzonia cominciarono ad apparire numerose medie e grandi imprese petrolifere, impegnate in attività esplorative, senza lo Studio di Impatto Ambientale che è obbligatorio e senza aver consultato le comunità indigene, come impongono vecchie convenzioni internazionali. Seconda grande sorpresa. Cominciarono le mobilitazioni e quindi la promessa di un dialogo. Parliamo del febbraio di quest’anno. Il governo propose un tavolo di negoziazione, poi lo dimenticò e spostò la questione al Congresso, i cui membri hanno sempre una formula pronta per evitare il dibattito. Intervenne la Defensoría del Pueblo (il Difensore Civico) e la sua commissione principale stabilì che i decreti in oggetto erano incostituzionali. Un altro pretesto per consentire al governo di evitare la discussione.Aggiunse che contro questa decisione bisognava ricorrere in appello, ma poi accettò di riaprire il dialogo. Già eravamo in aprile. I dirigenti indigeni trovarono 100mila firme chiedendo che il Tribunale delle Garanzie Costituzionali si pronunciasse per lo meno sull’illegalità di un solo decreto. Il processo avanzò e il governo boicottò il suo stesso tavolo di negoziazione, non presentandosi. Così passò tutto maggio. Intanto i leader indigeni stavano vivendo a Lima tra molte difficoltà, in un luogo ostile e molto costoso per loro. Siamo così arrivati a giugno, quando García dichiarò che gli indigeni non sono proprietari delle terre che occupano, che invece sono “di tutti i peruviani”. La situazione si surriscalda. Gli indigeni occupano una strada a Bagua e il governo invia un forte contingente di polizia composto da alcune migliaia di uomini, per sgomberarli con la forza. Il 5 giugno muoiono i primi indigeni, il giorno seguente un gruppo di loro fa prigionieri alcuni poliziotti e li restituisce cadaveri. Il governo mostra le loro foto all’opinione pubblica con lo scopo di contrapporla ai ribelli. Si produce però l’effetto contrario. L’opinione pubblica crede che sia stato irresponsabile da parte del governo inviare la polizia in una zona abitata dagli Awaruna, una popolazione di stirpe guerriera. A.M. — Qual’è stato il numero dei morti e dei feriti? Ci sono persone scomparse?
I.L.A. — Il primo giorno , il 5 giugno ci sono stati 26 poliziotti morti e un numero fino ad oggi sconosciuto e incerto di civili scomparsi. I cadaveri dei civili recuperati sono appena una dozzina. A.M. — Come stanno trattando la situazione la stampa nazionale e quella straniera ?
I.L.A. — La stampa straniera bene, con ampia copertura. Quella nazionale soltanto tramite comunicati ufficiali e interviste ai ministri o ai membri del Congresso. Hanno poca sintonia, ma il loro lavoro contribuisce a surriscaldare gli animi della popolazione. Ci sono due quotidiani di centro sinistra su dieci di destra che appoggiano il governo e trattano molto male gli indigeni. La televisione e le radio danno molta informazione, ma senza storia né contesto di quanto accade. A.M. — Perchè secondo lei tanta violenza da parte del governo?
I.L.A. — Alan García ha dei precedenti in questo senso. Nel suo primo governo ordinò il massacro in due penitenziari di prigionieri accusati di terrorismo, che stavano protestando ma che erano indifesi. Nel 1983 furono circa 300 le persone assassinate nelle carceri di El Frontón e Lurigancho. L’anno scorso, nel mese di giugno, Alan García destituì un generale della Polizia che aveva evitato uno spargimento di sangue grazie al dialogo aperto con le popolazioni di Moquegua, che avevano occupato un ponte chiamato Montalvo. In pubblico dichiarò che il generale aveva avuto un comportamento “da codardo”. A.M. — Quella degli indigeni è una lotta autonoma o è appoggiata da qualche forza politica?
I.L.A. — Le comunità hanno sempre lottato senza appoggio dei partiti. Nemmeno la sinistra nei suoi tempi migliori si è alleata a loro in modo organico. Hanno soltanto emesso comunicati di solidarietà e niente più. A.M. — Come potrebbe evolvere la situazione del leader Alberto Pizango rifugiatosi in questi giorni presso l’ambasciata del Nicaragua in Perú?
I.L.A. — Su di lui già esisteva un ordine di cattura emesso dalla Polizia, che non aveva l’appoggio di nessun giudice. Soltanto di un Pubblico Ministro. La sua situazione evolverà seconda l’avanzamento o la sospensione dei negoziati. I nuovi dirigenti hanno preteso quattro condizioni per la ripresa del dialogo:
a) che termini lo stato d’emergenza e venga tolto il copri fuoco che vige dalle tre del pomeriggio
b) che venga revocato l’ordine di cattura contro Pizango e gli altri dirigenti
c) che il governo chieda perdono ai familiari dei civili e dei poliziotti uccisi e accetti per lo meno la responsabilità condivisa di quanto accaduto
d) che in una prossima trattativa vengano inclusi rappresentanti della Chiesa Cattolica. A.M. — Il primo ministro Yehude Simon, un uomo di sinistra, fondatore del movimento Patria Libre, ha appoggiato le richieste degli indigeni?
I.L.A. — All’inizio del conflitto sembrò conciliante e affidabile,. Poi si è adattato alle posizioni dure del presidente Alan García. Il suo è adesso un movimento inesistente. A.M. — Che effetto potrebbe produrre questa rivolta indigena indigena nei paesi vicini?
I.L.A. — Non ci sarà niente più che dichiarazioni di solidarietà da parte delle organizzazioni indigene simili. Con chi c’è più identità tra le popolazioni è con quelle dell’Ecuador. A.M. – In Perú si sta chiedendo la caduta di A
lan García. In questa eventualità che opzioni ci sono per il paese?
I.L.A. — Imprevedibili, dipende da come evolverà il conflitto. La destra appoggia il governo, l’opposizione è importante ma minoritaria nel Congresso, l’unico organismo legale che può destituire García per “incapacità morale”, come lo fece nel 2001 con Alberto Fujimori, quando questo però già se ne era già andato dal paese e aveva presentato la sua rinuncia al mandato tramite un fax inviato da Tokio.
Giornalismo Partecipativo: Intervista a Gennaro Carotenuto
Gennaro Carotenuto insegna Storia del Giornalismo presso la Facoltà di Scienze della Comunicazione dell’Università di Macerata, dove promuove il Master in Giornalismo Partecipativo, la prima e unica iniziativa in Italia di formazione alternativa al giornalismo commerciale.
Oltre ad aver lavorato o collaborato con grandi media come El País di Madrid, Radio3Rai, La Stampa,Latinoamerica, dal 1995 gestisce uno dei blog più frequentati in Italia ed è in uscita il saggio “Giornalismo partecipativo — La storia dell’informazione come bene comune”.
Proprio di Giornalismo Partecipativo parliamo con lui in questa intervista in esclusiva ad Annalisa Melandri
G.C — Dipende. C’è chi lavora seguendo tutti i principi del miglior giornalismo, per accuratezza e verifica delle fonte e chi no. Anche nel grande giornalismo c’è chi lavora in maniera infedele. La differenza è che il Giornalismo Partecipativo non ha padroni come invece hanno i giornalisti mainstream spesso lottizzati.