Eric Salerno: con las “revoluciones” habrá desestabilización
En los últimos meses en algunos países de África mediterránea y de Oriente Medio se han dado levantamientos populares más o menos espontáneos: Túnez, Argelia, Egipto, Bahrein, Irán, Libia, Marruecos. Otros se registran en estas semanas en algunas regiones cercanas como Siria, por ejemplo.
Unos analistas políticos hablan de “primavera árabe” o de “efecto dominó”, mientras otros señalan que la comunidad internacional está desarrollando una política de “dos pesos y dos medidas” influenciada por ventajas estratégicas y económicas. Hablamos con Eric Salerno, escritor y ensayista experto de Libia y Oriente Medio y corresponsal para el periódico romano Il Messaggero, autor, entre otros, de Genocidio in Libia: le atrocità nascoste dell’avventura coloniale; «Uccideteli tutti». Libia 1943: gli ebrei nel campo di concentramento fascista di Giado. Una storia italiana; Mossad base Italia. Le azioni, gli intrighi, le verità nascoste.
Entrevista de Annalisa Melandri – www.annalisamelandri.it
A.M. - Eric, se puede hablar de un “efecto dominó” en relación a los diferentes levantamientos populares que en los últimos meses han ocurrido en África mediterránea y en Oriente Medio o usted cree que sea necesario hacer oportunas distinciones entre ellos?
E.S. - El efecto dominó en alguna manera se ha dado, pero esto no significa que todas las situaciones sean iguales entre ellas. Y sobre todo no significa que todos los levantamientos han nacido y luego han proseguido en la misma forma. Sin embargo cada vez más claramente es evidente que “fuerzas externas” han traíso su aporte para que los jóvenes hayan salido adelante, no solo aprovechando de la web pero también involucrándose directamente para dirigir las protestas. Todos los regímenes afectados de una o de otra manera, pero están justamente en el objetivo de quien desea una vida mejor.
A.M. - ¿Por qué ha habido una intervención militar en Libia y no en otro país de los mencionados? ¿Es la enésima guerra para el petróleo y en cierto sentido el despertar del colonialismo europeo?
E.S. - No creo mucho en la cuestión del petróleo. Las compañías petroleras occidentales — Italia, Francia, Estados Unidos en primer lugar, ya estaban operando en Libia. Creo que se trató de conveniencias particulares: Sarcozy necesitaba recuperar consenso en las encuestas internas y el primer ministro británico también. Obama, en cambio, fue involucrado en la guerra porque se dejó convencer, después de días de vacilación, de que Gadafi se estaba preparando a masacrar la población de Benghazi. Por lo tanto, ha actuado convencido por razones humanitarias. Quisiera al respecto, subrayar el papel de algunas televisiones como Al Jazeera en la promoción de la intervención extranjera. Han adoptado desde el primer momento la causa de los rebeldes apoyados por el emir del Qatar a quien hace referencia la televisión satelital árabe. No olvidemos que después de dos días de enfrentamientos en Benghazi la prensa de todo el mundo reportaba noticias no confirmadas titulando: “más de diez mil muertos” o “fosas comunes” en Trípoli. Dos falsedades que los mismos reporteros llegados en Libia se vieron obligados a reconocer. (altro…)
Eric Salerno: con le “rivoluzioni” arriverà la destabilizzazione
Negli ultimi mesi vari paesi dell’Africa mediterranea e del Medio Oriente hanno visto insurrezioni popolari più o meno spontanee: Tunisia, Algeria, Egitto, Bahrein, Iran, Libia, Marocco. Altre si profilano all’orizzonte in regioni limitrofe, come in Siria per esempio.
Si parla di “primavera araba” e di “effetto domino” mentre alcuni analisti osservano come invece da parte della comunità internazionale si stia portando avanti la politica di due pesi e due misure influenzata da convenienze economiche e strategiche. Ne parliamo con Eric Salerno, profondo conoscitore della Libia e del Medio Oriente, inviato del quotidiano Il Messaggero, scrittore e saggista, autore tra gli altri di Genocidio in Libia: le atrocità nascoste dell’avventura coloniale; «Uccideteli tutti». Libia 1943: gli ebrei nel campo di concentramento fascista di Giado. Una storia italiana; Mossad base Italia. Le azioni, gli intrighi, le verità nascoste.
Intervista di Annalisa Melandri — www.annalisamelandri.it
A.M. – Eric, si può parlare di “effetto domino” rispetto alle varie insurrezioni popolari che negli ultimi mesi hanno sconvolto alcune regioni dell’Africa mediterranea e del Medio Oriente o crede che sia necessario fare delle opportune distinzioni?
E.S. - L’effetto domino, in qualche modo c’è, ma questo non significa che tutte le situazioni sano uguali tra di loro. E soprattutto non significa che tutte le insurrezioni sono nate e poi sono proseguite nello stesso modo. Diventa sempre più chiaro che “forze esterne” hanno dato una mano a mandare avanti i giovani, non soltanto sfruttando il web ma anche con un coinvolgimento più diretto per indirizzare le rivolte. Tutti i regimi toccati, in un modo o in un altro, sono giustamente nel mirino di chi vuole vivere meglio.
A.M. – Perché in Libia si è intervenuto militarmente e altrove no? E’ l’ennesima guerra per il petrolio e quindi in un certo senso il risveglio del colonialismo europeo?
E.S. - Io non credo tanto alla questione del petrolio. Le compagnie petrolifere occidentali – Italia, Francia, Stati Uniti in primo piano –già operavano in Libia. Credo piuttosto a convenienze particolari: Sarcozy aveva bisogno di recuperare consenso nei sondaggi interni, il premier britannico anche. Obama invece è stato trascinato in una guerra perché è stato convinto, dopo giorni di esitazione, che Gheddafi si apprestava a massacrare la popolazione di Bengasi. Dunque, si è mosso convinto di agire per motivi umanitari. Vorrei, a questo proposito, sottolineare il ruolo di alcune televisioni, come Al Jazeera, nel promuovere l’intervento straniero. Hanno sposato fin dal primo momento la causa dei ribelli. Un’azione, a quanto pare, caldeggiata dall’emiro del Qatar a cui la televisione satellitare araba fa capo. Non dimentichiamo che dopo due giorni di scontri a Bengasi, i giornali di mezzo mondo hanno ripreso notizie non controllate e titolato “Oltre diecimila morti”, “Fosse comuni” a Tripoli. Due falsità che gli stessi inviati arrivati sul posto hanno dovuto riconoscere. (altro…)
Olga Salanueva e Adriana Pérez: chiediamo a tutto il mondo di intensificare la campagna per la liberazione dei 5 cubani.
Si può vivere dodici anni per la libertà della persona amata detenuta ingiustamente? Si può vivere dodici anni lottando con la stessa forza fin dal primo giorno? Adriana Pérez e Olga Salanueva, mogli rispettivamente di Gerardo Hernández e di René Gonzáles, due dei cinque cubani detenuti negli Stati Uniti dal 1998, ci raccontano in questa intervista (realizzata durante un loro viaggio in Italia nella primavera scorsa) le loro vite, le difficoltà, i desideri, le lotte. Una chiacchierata tra donne più che un’intervista, esplorando delicati sentimenti di affetto e amore ma sempre accompagnati da una forza e una determinazione ammirevoli. Non ci sono dubbi che i cinque cubani , Gerardo Hernández, René González, Ramón Labañino, Fernando González y Antonio Guerrero, i quali, ricordiamo, furono arrestati a Miami (dove stavano svolgendo indagini sui gruppi anticastristi che progettavano attentati terroristi a Cuba) e i loro familiari, siano veri uomini e donne di pace, per star sacrificando le loro vite e la loro libertà per la sicurezza del popolo cubano.
Adriana e Olga non vedono i propri mariti da dodici anni. Le autorità statunitensi hanno negato loro il visto e quindi la possibilità di visitarli, circa una decina di volte con argomenti diversi, come il fatto che si tratti di possibili immigranti o che rappresentano una “minaccia per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti”. Olga ha potuto visitare René in carcere soltanto i primi due anni di detenzione, poi è stata deportata dagli Stati Uniti come forma di ricatto perché lui non voleva ammettere l’infame accusa secondo la quale stava spiando il governo statunitense.
Olga e Adriana sono due donne tenere e innamorate, ma soprattutto determinate, che da dodici anni percorrono il mondo denunciando la prigionia ingiusta dei loro mariti da parte di un governo arrogante e prepotente. Un governo che lascia passeggiare tranquillamente per le strade di Miami il terrorista cubano Luis Posada Carriles reo confesso di vari attentati contro Cuba (tra i quali quello che costò la vita al nostro Fabio Di Celmo). Lo stesso Posada Carriles sul quale stavano indagando a Miami i 5 cubani e che per questo furono arrestati.
A.M.: Olga e Adriana, che condanne stanno scontando Rene e Gerardo?
OLGA: René è stato condannato a 15 anni di carcere e Gerardo, che ha la condanna più dura, deve scontare due ergastoli più 15 anni. Sono detenuti entrambi dal 12 settembre 1998.
AM. : Che tipo di contatti avete con loro?
OLGA : Abbiamo dei contatti tramite le telefonate che possono essere fatte esclusivamente dal carcere verso l’esterno. Hanno a disposizione una certa quantità di minuti che devono utilizzare per parlare con gli avvocati, con i funzionari del governo cubano che sono quelli che trasmettono tramite il consolato le notizie dei familiari e con le proprie famiglie. Alla fine rimane veramente poco tempo per parlare con noi.
L’altro modo è tramite la posta ma questa forma di comunicazione è compromessa dalla censura del carcere così come accade anche per le telefonate. Queste sono registrate tutto il tempo e anche la posta è controllata. Tuttavia non è importante, la cosa importante è il tempo che impiega una lettera ad uscire o a entrare in carcere, specialmente nel caso di Gerardo che sconta la pena più dura e al quale ostacolano anche maggiormente la corrispondenza: una lettera indirizzata a lui può impiegare anche più di due mesi per arrivare; nel suo caso inoltre è anche violata la legge sulla corrispondenza. Questo molte volte ha interferito in alcuni momenti importanti del processo rispetto ai dibattimenti. Non ha potuto avere e controllare tutta la documentazione che si doveva presentare alla Corte Suprema, nonostante fosse il più coinvolto nel caso. Quindi la comunicazione con loro è minima, cerchiamo di approfittare al massimo; il maggior tesoro che abbiamo sono quei due o tre minuti di telefonate, a volte perfino 15, ma a volte quei pochi minuti devono essere condivisi.
Per noi sono molto più importanti le telefonate perché attraverso la posta, sebbene puoi esprimere tutti i tuoi sentimenti, questa impiega troppo tempo per arrivare. Inoltre ultimamente nelle carceri federali è stata approvata la posta elettronica, ma in due casi, quello di Fernando e di Gerardo loro hanno la proibizione assoluta di usare la posta elettronica e anche per gli altri tre ai quali è stata autorizzata, può essere che una mail gli arrivi dopo due, tre giorni, o quattro giorni.
AM.: Avete figli?
ADRIANA: No, Gerardo ed io non ne abbiamo.
OLGA: René ed io abbiamo due bambine che non sono più tanto bambine, la maggiore compie 26 anni e la più piccola 12. Noi siamo sposati da 27 anni, siamo i più grandi del gruppo.
A.M.: Avevate nutrito in qualche momento delle speranze con l’elezione di Obama alla presidenza degli Stati Uniti?
ADRIANA: Sappiamo che ogni amministrazione ha una posizione ben definita rispetto a Cuba, ma l’ingiustizia verso i 5 è evidente, loro hanno trascorso già troppi anni in prigione. Quello che è certo è che abbiamo fiducia nella pressione che da ogni parte del mondo si può esercitare verso l’amministrazione di Obama, tenendo presente che si tratta di una amministrazione un po’ più ricettiva ai reclami internazionali delle precedenti. Ciò nonostante è passato già un anno e mezzo dalla sua elezione e non abbiamo avuto nemmeno il gesto di buona volontà della concessione del visto. Ovviamente abbiamo molta più fiducia nelle iniziative che la gente può intraprendere per spingere Obama e la sua amministrazione a prendere una decisione. In questo modo si potrebbe dimostrare che la decisione che lui prende non è solo una sua decisione personale ma è frutto di una richiesta internazionale, che si sappia cioè che a livello internazionale c’è attenzione rispetto a questo governo e alla giustizia. E’ proprio per questo che facciamo una richiesta a tutto il mondo, e cioè che si intensifichi la campagna di liberazione per i 5. E’ il momento di dimostrare agli Stati Uniti che il loro operato è osservato da tutto il mondo. Sappiamo anche che Obama non agirà mai volontariamente e spontaneamente, per questo bisogna fare pressioni e non con azioni isolate, ma cercando di fare in modo che ogni giorno gli arrivino i messaggi, che arrivino le informazioni, che arrivino le richieste, per ottenere che si metta fine a questa ingiustizia e che non si ottenga per vie legali ma tramite pressione internazionale.
A.M.: Avete provato ad ottenere un incontro con Obama?
OLGA: Magari potessimo avere l’opportunità di incontrarci personalmente con lui! Abbiamo cercato di arrivare a lui in modi diversi, attraverso personalità, attraverso persone solidali in Parlamento… Non possiamo vedere Obama perché lui non va a Cuba e noi non possiamo andare negli Stati Uniti. I familiari, ai quali sono consentite le visite, ottengono i visti con condizioni molto specifiche. Rispetto al luogo di accesso, cioè per dove devono entrare, rispetto alla città dove devono stare, che deve essere quella dove si trovano i detenuti, inoltre hanno proibizione assoluta di accesso a qualsiasi incontro, a qualsiasi intervista, non possono avvicinare nessuna personalità nel momento in cui hanno il visto in territorio statunitense. Questo gli viene concesso solo ed esclusivamente per recarsi in carcere ed effettuare la visita di quel mese e fare ritorno, quindi se non possono vedere un giornalista, molto meno nessuno di noi potrà avere accesso alla Presidenza.
Come diceva Adriana la cosa più importante adesso è il lavoro delle persone solidali che ci permettono in forma indiretta di arrivare all’amministrazione Obama. Evidentemente le voci dei 5 non sono ascoltate, non sono ascoltate le voci dei familiari e nemmeno del popolo di Cuba e del governo cubano che si è espresso apertamente a favore della liberazione dei 5.
A.M. : Uno sguardo femminile e rivoluzionario alle vostre vite…
OLGA: Noi, le mogli e le madri, la parte femminile della famiglia, viviamo la maggior parte del tempo in attesa. Rimangono solamente tre madri, le altre sono morte, quella di Gerardo recentemente. Quelle che sono ancora in vita vivono con gli altri figli, soffrendo giorno dopo giorno in attesa della liberazione di quelli in prigione. Rispetto alle mogli, due coppie non hanno figli, Adriana e Gerardo e Rosa Aurora e Fernando. Loro vivono sole nelle loro case aspettando i loro mariti.
Economicamente siamo tutte indipendenti, siamo professioniste, in diversi settori. L’aspetto economico non è quello più importate, godiamo come tutti i cubani della sicurezza sociale, della tranquillità cittadina, ma ci manca la cosa fondamentale. Io e Gerardo e Ramón e sua moglie abbiamo figli. Ramón ha una figlia maggiore da un altro matrimonio che vive con la madre e con Elizabeth ha due figlie, una bambina di 13 anni e una ragazza di 17 ed io ho le due di cui ti ho parlato.
E’ molto difficile… non ti nego che è molto difficile, giorno dopo giorno, perché non si tratta né di due mesi e nemmeno di due anni, sono 12 anni trascorsi con la tristezza di non avere nostro marito in casa. I nostri matrimoni sono stati matrimoni d’amore e ogni coppia quando si forma fa dei progetti per vivere insieme, per trascorrere la vita insieme, per avere figli, per fare piani futuri. Tutto questo un giorno si è paralizzato, ma dobbiamo andare avanti, dobbiamo passare sopra a tutto questo perché dobbiamo vivere per avere la forza di continuare a lottare, affinché loro possano tornare a casa prima di quando il governo degli Stati Uniti abbia programmato, che nel caso di Gerardo è mai più.
Quindi è molto difficile stare sole, tornare a casa la sera e chiudersi la porta alle spalle. Nel caso per esempio di quelle che non hanno figli lo è ancora di più, senza nemmeno la confusione dei figli in casa, perché quella confusione ti aiuta a riprendere le forze non solo per te stessa, ma anche per loro e il tempo passa più velocemente. Nel caso di quelle che sono sole è difficile restarlo un giorno in più e poi un altro e poi un altro ancora, le speranze a volte si affievoliscono, come quando vediamo che da un punto di vista giuridico non ci sono sviluppi. Per questo la famiglia è così importante, le persone invecchiamo, perdi i tuoi affetti, questo aspetto è veramente difficile.
Noi pensiamo sempre prima a loro, se noi siamo sole, se tutto questo è molto difficile da un punto di vista affettivo, che cosa staranno passando loro chiusi in celle d’isolamento per tanti mesi? Cosa staranno passando con tanto tempo senza comunicare, mentre cercano di impedirgli anche di ricevere una lettera, vedendo che non ci sono speranze di uscire presto. Questo ci dà la forza perché noi dobbiamo essere le loro voci, la loro possibilità di muoversi, di avere amici, di cercare voci… questo siamo noi, perché loro non possono.
Quindi la lotta per la loro libertà diventa il cardine dei nostri giorni, tutti i giorni lottiamo per questo, ma quando torniamo nelle nostre case dopo il lavoro, quando cuciniamo, puliamo la casa, andiamo dormire, in quel momento la nostra mente ritorna lì, non riposa, non riposiamo mai. Ricordiamo anche che loro si trovano in quel luogo per difendere la vita e che questo ha colpito il popolo cubano da vicino: sono molte le famiglie che vanno a dormire la sera pensando alle persone care che hanno perso negli attentati terroristi. Allora ci diciamo che loro si trovano lì per avvertire il nostro popolo del pericolo e dobbiamo fare di tutto perché escano per continuare a difendere la vita.
di Annalisa Melandri
Nucleare nelle scuole: disinformazione di governo fin dalla prima media
Vivo all’estero e mio figlio avrebbe dovuto frequentare in Italia quest’ anno la prima media. Il suo testo di geografia era il seguente: GEOGRAFIA Edizioni Atlas 1 Europa (2008), che ho comprato comunque e che ogni tanto sfogliamo insieme, tanto per rimanere al passo con i suoi vecchi compagni di scuola.
Poco tempo fa stavamo leggendo insieme il capitolo relativo alle “Risorse e l’energia”. Interessante per un bimbo di 11 anni: le risorse del sottosuolo, la produzione di energia, le energie alternative, il petrolio… Arriviamo al paragrafo dell’energia elettrica e dell’energia nucleare, che copio testualmente:
“La forma di energia più utilizzata in Europa è quella elettrica. Essa viene prodotta prevalentemente nelle centrali termoelettriche mediante la combustione di petrolio, carbone o gas naturale oppure attraverso impianti idroelettrici che sfruttano la caduta dell’acqua.
A partire dagli anni ’80 si è diffuso l’utilizzo dell’energia nucleare, prodotta dalla disintegrazione (fissione) dei nuclei atomici dell’uranio. Alcuni Paesi europei (Francia, Russia, Regno Unito, Germania, Ucraina, Svezia, Spagna) sono tra i più “nuclearizzati” del mondo per l’elevato numero di impianti nucleari presenti sul loro territorio.
In Francia, ad esempio, esistono circa 60 centrali nucleari , che producono i ¾ dell’energia nazionale.
A causa della pericolosità delle centrali nucleari alcuni paesi (Svezia, Germania, Paesi Bassi) avevano deciso di arrivare nel lungo periodo alla graduale chiusura di questi impianti. Il miglioramento dei sistemi di sicurezza approntati, il problema di ridurre le emissioni di gas ad effetto serra (prodotti dai combustibili fossili) e i minori costi dell’energia nucleare, hanno indotto i governi a sospendere questa decisione”.
Il paragrafo seguente (10 righe) tratta dell’ impatto ambientale ed economico della produzione energetica, della dipendenza dall’estero per l’approvvigionamento, del pericolo di incidenti, della difficoltà di smaltimento delle scorie e del fatto che le riserve di fonti energetiche sono esauribili.
Continuiamo a leggere una pagina intera dedicata al petrolio e alle catastrofi ambientali (incidenti alle petroliere e lavaggi delle cisterne). Si prosegue con le fonti rinnovabili. Tanta teoria e poca pratica. Fine del capitolo.
Resto basita!!!
Leggete attentamente il testo in corsivo per favore… Ci sono alcune omissioni importanti ed evidenti. Innanzitutto non una parola, una sola, sul referendum con cui gli italiani in massa nel 1987 dissero NO al nucleare. Eppure si fa una lista di paesi, Svezia, Germania e Paesi Bassi che “avevano deciso di arrivare nel lungo periodo alla graduale chiusura di questi impianti”. Ma che poi, non lo fecero per tutti quei bei motivi elencati (il miglioramento dei sistemi di sicurezza, le emissioni di gas ad effetto serra, i minori costi dell’energia nucleare…).
Tuttavia, oltre ad essere strano che proprio un testo italiano ometta la notizia del referendum in Italia, osserviamo che si omette anche di dire, rispetto ai paesi citati, che nel 2006 proprio in Svezia si registrò un gravissimo incidente nucleare per cui tre delle dieci centrali furono chiuse. Altri due reattori chiusero per difetti di progettazione. Non si dice nemmeno che la Svezia nonostante l’utilizzo del nucleare, contempli tra i piani energetici governativi l’abbandono del combustibile fossile per i trasporti nel 2030, che nel 2020 dovrebbe avere il 50% di energia da fonti rinnovabili e che il paese dovrebbe entro il 2050 arrivare ad emissioni zero.
Ma se di per se questo è già abbastanza grave, gravissimo invece appare che non si faccia nel citato testo, un solo riferimento al più grave incidente nucleare della storia, quello di Chernobyl, avvenuto in Ucraina il 26 aprile 1986. Questa evidente disinformazione, compiuta a discapito dei bambini è criminale.
Chiudiamo il libro e davanti alle fotografie di Chernobyl che si trovano per fortuna, in rete, ne parliamo.
Guerra in Libia: la rete ha ucciso la piazza?
“E’ con grande piacere che do il benvenuto al ministro Gheddafi al Dipartimento di Stato. Noi attribuiamo grande valore alle relazioni tra gli Stati Uniti e la Libia. Abbiamo grandi opportunità per approfondire e ampliare la nostra cooperazione e personalmente ho la ferma intenzione di consolidare i nostri rapporti. Pertanto, signor ministro, sia il benvenuto tra noi”. (21 aprile 2009. Mutassim Gheddafi viene ricevuto con tutti gli onori a Washington da Hillary Clinton)
Il mondo è in guerra. L’ennesima guerra neocolonialista-imperialista, questa volta per impossessarsi delle riserve di petrolio della Libia.
L’aggressione è stata realizzata tanto velocemente (il tempo per l’ennesima ridicola riunione del Consiglio di Sicurezza dell’ ONU) quanto evidentemente criticabile da ogni punto di vista, soprattutto da quello dello stesso diritto internazionale con il quale pure vorrebbe legittimarsi. Non può essere infatti sostanzialmente valida una risoluzione internazionale emessa ad hoc a legittimare un intervento armato con lo scopo di imporre la democrazia, quando l’organismo che la emette diventa strumento nelle mani delle potenze mondiali. Perché infatti non si è mai intervenuto allo stesso modo contro Israele, che continua impunemente, anche in queste ore, a commettere un vero e proprio genocidio sistematico contro il popolo palestinese?
Più passano le ore e più, nel caos e nella confusione di dichiarazioni, smentite, dubbi sui ruoli e finanche sullo scopo, l’intera operazione si profila come la stessa campagna mediatica che l’ha preceduta: maldestra, confusa, improvvisata e grossolana.
Con quelle tombe in costruzione fatte passare per fosse comuni, con i bombardamenti inesistenti su Tripoli, smentiti allegramente dall’ambasciatore italiano e dal vescovo di Tripoli che proprio in questi giorni sta parlando di guerra assurda e sta invocando la “mediazione per risolvere i conflitti” (non era la stessa cosa che diceva Chávez qualche settimana fa?), bufale colossali, come i 10.000 ribelli morti e gli oltre 50.000 mila feriti, che quasi nemmeno il terremoto e lo tsunami in Giappone. Bufale che gli stessi ideatori e disinformatori di professione hanno dovuto ritirare in fretta e furia dal mercato di fronte all’evidenza dei fatti.
Campagna mediatica evidentemente grossolana proprio perché si è reso evidente il fatto che non era necessario uno sforzo disinformativo eccezionale. Si disinforma chi potrebbe, di fronte all’evidenza dei fatti, reagire in qualche modo. Chi avrebbe dovuto reagire a questa nuova guerra, e come? L’ opinione pubblica internazionale?
Perché esiste l’opinione pubblica internazionale? Di cosa o chi stiamo parlando? Di quell’ “indignazione morale condivisa per infrazioni evidenti del comandamento contro la violenza e per massicce violazioni dei diritti umani”?[1] Dove sta? Dove e come si esprime? Chávez a l’intera coalizione dell’Alba, da sud tuonano contro le mire neocolonialiste di un pugno di stati che credono che le lancette del tempo siano ancora ferme al XIX secolo, Putin, da nord parla di “crociata medievale”… In mezzo c’è l’Europa, confusa politicamente e con la voce del suo popolo, della sua gente completamente assente oggi.
Dove stanno? Dove sono le voci dei popoli? Gli unici a levare proteste contro la guerra sono alcuni presidenti, qualche governo, qualche intellettuale… Dove sono i giovani? Dove sta il sentimento pacifista che ha animato in passato le strade e le piazze europee e che è stato il fondamento, il pilastro di tutti i movimenti giovanili? Dove stanno le bandiere della pace che hanno colorato le strade e le piazze europee tra il 2002 e il 2003? Si calcola che allora in Italia quasi tre milioni furono i balconi e le finestre dove il vessillo multicolore indicava che in quella casa, in quell’ufficio, in quella scuola si stava esprimendo un forte e chiaro NO alla guerra! E le moltitudinarie proteste del febbraio 2003…
Questa è la ricostruzione che fa di quel sabato 15 febbraio 2003 lo storico statunitense J.J. Sheehan[2]: “Sabato 15 febbraio 2003 si tenne la più grande dimostrazione della storia europea, contro la guerra che stava per colpire l’Iraq. A Londra una folla di circa un milione di persone si riversò in Trafalgar Square, riempiendo le strade cittadine dagli argini del Tamigi alla Euston Station; un milione di manifestanti marciò a Barcellona e a Roma, altri 600.000 a Madrid. A sfidare il gelo al Tiergarten di Berlino furono in 500.000, un numero quasi pari ai partecipanti alla Parata dell’Amore che vi si teneva in estate. Si trattava ovunque di folle pacifiche. Ci furono pochi arresti, nessun episodio di violenza. Le dimostrazioni attirarono una ricca varietà di partecipanti: c’erano alcuni adolescenti vestiti in pelle e con l’aria da duri e giovani che indossavano la kefiah palestinese o la sciarpa nera degli anarchici, ma nella stragrande maggioranza dei casi si trattava di cittadini dall’aspetto rispettabile, che indossavano caldi cappotti invernali e scarpe comode – pensionati, accademici di mezza età, membri dei sindacati, studenti delle superiori e universitari. C’erano tante famiglie, genitori e nonni che non partecipavano a una dimostrazione dagli anni Sessanta, bambini che per la prima volta facevano l’esperienza di quel caratteristico miscuglio di euforia e disagio delle manifestazioni politiche. Un quotidiano tedesco definì l’evento «una rivolta di persone comuni»…. Diversamente da chi in passato aveva manifestato contro la guerra in Vietnam, nessuno mostrava alcuna simpatia per l’altra parte; non c’erano bandiere irachene né ritratti di Saddam Hussein. Per la maggior parte di quelle persone, il vero problema non era chi aveva ragione e chi torto, ma se la guerra potesse essere considerata una risposta.”…In tutte le città coinvolte, guardando al di sopra della marea umana, la scritta che appariva più spesso era composta da una sola parola: «No».
Sicuramente, come si è visto, le proteste nulla hanno potuto contro la guerra, che a distanza di 8 anni continua cruenta ancora oggi. Tuttavia esprimevano un sentire comune, se non dei governanti, quanto meno dei governati. Esprimevano un sentimento che riuscì anche solo per un breve, anche se inutile momento, ad uscire dalle pance e a riversarsi nelle strade.
Guardando indietro con gli occhi di oggi, guardando oggi da questa Europa folle che, nel tentativo di contrastare “l’unilateralismo missionario” dell’interventismo statunitense di allora, riesce oggi ad essere soltanto una ridicola caricatura di se stessa, vediamo tuttavia che, l’ottimismo di alcuni intellettuali dovuto allora alla contemporaneità di quelle moltitudinarie proteste contro la guerra, appare oggi sicuramente esagerato. Junger Habermas e Jacques Derida nel loro appello dal titolo: Il 15 febbraio: ovvero, ciò che unisce gli europei auspicavano, credendola possibile, “la nascita di un’opinione pubblica europea” proprio a partire da quelle grandi e sentite manifestazioni di pacifismo, le “più grandi dalla fine della seconda guerra mondiale”. Oggi, rispetto ad allora, resta simile soltanto la spaccatura europea rispetto al ruolo della politica estera del continente. E all’interno dei singoli Stati le spaccature sulle posizioni da tenere, rendono tutto il gioco guerrafondaio ancora più sguaiato e meschino. Ai rumori della guerra fa eco il chiasso della politica e tutto intorno il silenzio…
Spostando la visuale, infatti, guardandoci da fuori, noi “persone comuni” del 2003, dove siamo oggi? Dove sta la nostra rabbia contro la guerra? Dove sono i nostri giovani?
Io lo so e il saperlo mi riempie di tristezza e inquietudine. I nostri giovani stanno tutti al pc. Seguendo giorno per giorno gli avvenimenti. Certo, partecipando, scrivendo (come sto facendo io stessa in questo momento), dibattendo, insultando questo o quel politico, Berlusconi come Sarkozy, Obama come Cameron, manifestando dissenso e rabbia, esponendo foto e scritte come si fa con gli striscioni in piazza.
Io non credo che sia casuale tutto questo. Io credo, sono fermamente convinta, che la rete sia una grande conquista della comunicazione, che sia una grande opportunità di crescita e di condivisione, di comunicazione e di scambio, di esperienze, di lotte, di battaglie e di informazioni. Credo però anche che sia mancato uno studio serio e intelligente degli effetti che questo mezzo avrebbe potuto avere sulla militanza, sulla protesta, sul dissenso. E questo ci ha fregati. Abbiamo pensato, nelle lunghe giornate d’inverno, o al fresco delle nostre case nelle estati assolate e torride, che fare e produrre informazione comodamente seduti davanti ad un monitor fosse in qualche modo costruttivo. Abbiamo pensato che scrivere, e scrivere, e condividere notizie, e produrre dibattito, fosse una maniera diversa e più acculturata di apportare il nostro contributo alle cause in cui credevamo e crediamo. Abbiamo pensato che far girare e condividere in migliaia di siti le orrende foto degli eccidi israeliani al fosforo bianco sui bambini palestinesi volesse dire contribuire in quale maniera a quella causa. Abbiamo pensato che mettere la bandiera della pace nelle nostre pagine web o nei nostri avatar fosse come mettercele addosso o esporle alle nostre finestre.
Sbagliavamo. Le piazze si sono svuotate, i cortei si sono fatti più silenziosi e noiosi, i colori sono lentamente sfumati. Nessuno grida più, nessuno torna a casa la sera stanco, sudato e senza voce dopo un corteo, tutti appaiono stanchi invece di tanto sbraitare e urlarsi addosso rabbia virtuale nei social forum.
Il potere ha vinto. La fantasia non è riuscita a dominarlo. In passato soffocata da tonnellate di droghe gettate addosso alle menti migliori, quelle più fervide e ribelli, poi livellata con il ventennio uniforme e squallido dell’avvento delle televisioni commerciali (che ha dato il colpo di grazia a cultura e originalità), così oggi, i centri di potere, dandoci l’illusione della libertà di espressione, facendoci credere di essere tutti partecipativi nella creazione globale dell’informazione, con quel mezzo diabolico e terribilmente geniale e seducente che è internet, hanno controllato, con meno morti e meno diffusione di malattie, ogni velleità rivoluzionaria dei giovani.
In piazza a Roma la settimana scorsa contro la guerra hanno manifestato una cinquantina di persone, il gruppo in Facebook Fuori l’Italia dalla Guerra in Libia conta 697 persone, il gruppo No alla guerra in Libia piace a 150 persone, No alla guerra contro la Libia piace a 300 persone, Io non voglio la Guerra in Libia piace a 792 persone e così via…
Paradossalmente proprio questi mezzi, internet e i suoi social Forum Facebook e Twitter, proprio quelli che hanno contribuito a creare adesione e consenso intorno a tanti militanti di alcuni paesi lontani da noi sia geograficamente che culturalmente , sono stati quelli che li hanno maggiormente isolati, chiudendoli dentro le maglie repressive della rete.
La rete, quella è la vera piazza oggi. Questa è la vera sconfitta. La nostra e del pacifismo, violento o non violento che sia, più educato e rispettoso o sguaiato e rabbioso, non importa il modo o la forma. E’ la sostanza che manca, la grande assente. Questa, signori, è la sonora e scottante sconfitta della militanza.
[1] J. Habermas, L’Occidente diviso, Editori Laterza, Roma-Bari 2005
[2]J.J. Sheehan L’età post-eroica Guerra e pace nell’Europa contemporanea (Laterza)
Olga Salanueva y Adriana Pérez: ellos están allí por querer advertir a nuestro pueblo de la muerte
Se puede vivir doce años luchando por la liberación de la persona amada detenida injustamente en una cárcel? Se puede vivir doce años luchando con la misma fuerza desde el primer día? Adriana Pérez y Olga Salanueva, esposas respectivamente de Gerardo Hernández y de René Gonzáles, dos de los cinco cubanos presos en Estados Unidos desde el año 1998, nos cuentan en esta entrevista (realizada durante un viaje de ellas a Italia en la primavera pasada), sus vidas, sus dificultades, sus deseos, sus luchas. Una charla entre mujeres más que una entrevista, explorando delicados sentimientos de amor y cariño pero siempre acompañados por una fuerza y una terquedad admirables. No hay dudas en que los 5 cubanos, Gerardo Hernández, René González, Ramón Labañino, Fernando González y Antonio Guerrero, que recordamos fueron arrestados en Miami donde estaban haciendo investigaciones sobre los grupos anticastristas que proyectaban atentados terroristas en Cuba y ellas, además de las otras esposas y familiares sean verdaderos hombres y mujeres de paz al estar sacrificando sus vidas y su libertad por la seguridad de su pueblo.
Adriana y Olga no ven a sus esposos desde doce años. Les han negado la visa para visitarlos alrededor de diez veces con argumentos diferentes, como que son posibles inmigrantes o que representan una amenaza por la “seguridad nacional de Estados Unidos”. Olga pudo visitar los primeros dos años a René en la cárcel, luego fue deportada de Estados Unidos como forma de chantaje y de venganza porque René no quiso admitir la infamante acusación según la cual estaba espiando el gobierno americano.
Olga y Adriana son dos mujeres tiernas y enamoradas, pero sobre todo determinadas, que desde doce años recurren el mundo denunciando la injusta detención de sus esposos de parte de un gobierno arrogante y prepotente. Un gobierno que ahora deja pasear líberamente por las calles de Miami el terrorista cubano Luis Posada Carriles reo confieso de diferentes atentados en Cuba(entre ellos el que costó la vida al nuestro Fabio Di Celmo). El mismo Posada Carriles sobre quien los 5 cubanos estaban investigando en Miami y que por esto fueron detenidos.
por Annalisa Melandri — www.annalisamelandri.it
A.M. :¿Olga y Adriana, qué condenas tienen René Y Gerardo?
OLGA: René está condenado a 15 años de cárcel y Gerardo, que tiene la condena más pesada, a doble cadena perpetua más 15 años de prisión. Están presos todos los 5 desde el 12 de septiembre de 1998.
A.M. : ¿Ustedes no tienen ningún tipo de contacto con ellos?
OLGA: Bueno, nosotros tenemos contactos a través de llamadas telefónicas que se hacen únicamente de las cárceles hacia afuera. Ellos tienen una determinada cantidad de minutos a disposición que tienen que emplear para hablar con sus abogados, hablar con funcionarios cubanos que son los que le transmiten a través de los accesos consulares fundamentalmente las noticias de las familias y con los familiares. Efectivamente tienen muy poco tiempo a disposición para para comunicarse.
La otra vía es la correspondencia, pero esa se ve afectada por la censura que lleva la cárcel igual que como ocurre con las llamadas telefónicas. Estas son grabadas todo el tiempo y la correspondencia también es revisada. Sin embargo eso no es lo importante, lo importante es la demora en la llegada y la salida de la correspondencia hacia el exterior que se va muy afectada , fundamentalmente en el caso de Gerardo que es precisamente el que tiene los mayores cargos, la mayor sentencia, dos cadenas perpetuas y además le ponen más obstáculos en la correspondencia. Escribirle a Gerardo puede ser que le demore a llegarle una carta varios meses y en su caso también es violada la ley de la correspondencia legal que debería ser entregada cerrada o abierta delante de él, le llega muy tardíamente y abierta sin su presencia. Esto ha interferido en muchas ocasiones importantes de los procesos en las diferentes apelaciones; de hecho él no pudo tener en su mano toda la documentación que se iba a presentar ante la Corte Suprema, él no la pudo revisar no obstante fuera el más implicado en el caso. Entonces la comunicación con ellos es mínima, la tratamos de aprovechar al tiempo, el mayor tesoro que tenemos nosotras son dos tres minutos de llamada, cuatro, hasta 15 minutos en una llamada, pero a veces se tienen que compartir los minutos .
Para nosotras son mucho más importantes las llamadas porque la carta si bien puede expresar todo tu sentimiento, demora mucho. Además últimamente en las cárceles federales se ha aprobado el correo electrónico, pero en dos de los casos, el de Fernando y de Gerardo tienen la prohibición absoluta de acceso al correo electrónico, aunque en el caso de los otros tres que lo tienen aprobado, tu escribes un correo y puede que demore dos o tres días, o cuatro.
A.M. ¿Ustedes tienen hijos?
ADRIANA: No. Gerardo y yo no tenemos.
OLGA: René tiene dos niñas que ya no son tan niñas, la mayor va a cumplir 26 años y la más chiquita tiene 12. Nosotros llevamos 27 de matrimonio y somos los mayores del grupo.
A.M. : ¿Habían esperado que con la elección de Obama a la presidencia de Estados Unidos hubiera podido cambiar algo en la situación de los 5?
ADRIANA: Nosotros sabemos que cualquier administración tiene una posición muy bien definida hacia Cuba, pero la injusticia hacia los 5 es muy evidente, ellos ya han pasado muchos años en prisión. Lo que es cierto es que tenemos confianza en la presión que se puede ejercer desde el mundo hacia la administración de Obama, teniendo en cuenta que esta es una administración un poco más receptiva a los reclamos internacionales. Sin embargo ya ha transcurrido prácticamente un año y medio donde no hemos logrado ni siquiera un gesto de buena voluntad de otorgarnos la visa. Por supuesto confiamos más en las acciones que las personas puedan hacer para obligar a que Obama tome una decisión, Obama junto con todo su staff administrativo, porque realmente podría demostrarse de esta manera que la decisión que él tome no sea una decisión solamente por una intención personal , sino dada por una solicitud, por un reclamo internacional de que está observando cual es la política y la posición de ese gobierno ante la justicia. Precisamente por eso nosotros hacemos un pedido y un reclamo a todo el mundo, o sea de intensificar la campaña. Es el momento de demostrarle a Estados Unidos que su actuar se está observando por el resto de la humanidad. También sabemos que Obama de una forma voluntaria y espontanea no lo va a hacer, por eso hay que tratar de presionar y no con accionares aisladas, sino tratando que cada día le lleguen los mensajes, que le lleguen las informaciones, que le lleguen las solicitudes, para lograr que se ponga fin a esta injusticia, que no va a hacer porque la ley nos permita ese beneficio sino por la presión internacional.
A.M. ¿Han buscado la forma de pedir un encuentro con Obama?
OLGA: ¡Ojalá nosotros pudiéramos tener la oportunidad de entrevistarnos personalmente con él! Hemos tratado de llegar a Obama por diferentes vías, por personalidades, por gente solidaria en el Parlamento que le lleven la información… No podemos ver a Obama porque él no va ir a Cuba y nosotros no vamos a Estados Unidos. Los familiares que han podido ir a visitarlos a ellos, que le dan visa, es una visa muy restringida. Restringida en el lugar de acceso, es decir por donde deben entrar , restringida en la ciudad por donde deben estar, que coincide con la ciudad donde están los presos, le tienen prohibición total de acceso a cualquier tipo de meeting, de dar cualquier tipo de entrevista, de llegar a alguna personalidad en el momento en que tienen la visa en territorio norteamericano. Es decir que se la dan única y exclusivamente para trasladarse hacia la cárcel y cumplir con la visita de ese mes y regresar, entonces si no nos dejan ver a un periodista, mucho menos ninguno de nosotros va poder tener acceso a la Presidencia. Por lo tanto, como decía Adriana, lo más importante son ahora las personas solidarias que nos permitan de forma indirecta llegar a la administración Obama porque evidentemente no son escuchadas las voces de ellos, ante la Corte, no son escuchadas las voces de ellos en los reclamos, no son escuchadas las voces de los familiares, ni siquiera del pueblo de Cuba y el gobierno de Cuba que abiertamente se ha manifestado a favor de la liberación de los 5.
A.M. : Una mirada femenina y revolucionaria a la vida de ustedes…
OLGA: Nosotras, las madres, la parte femenina de la familia, vivimos la mayoría del tiempo esperando. Solamente quedan tres madres , las otras fallecieron y la de Gerardo recientemente. Las que viven están con otros hijos que tienen, sufriendo día a día en espera de sus hijos que sean liberados. Respecto a las esposas, dos parejas no tienen hijos, Adriana y Gerardo y Rosa Aurora y Fernando. Ellas viven solas en sus hogares esperando por ellos.
Económicamente somos todas independientes, somos profesionales, de distintas profesiones. La parte económica no es lo importante, gozamos como todos los cubanos de la seguridad social, de la tranquilidad ciudadana, pero nos falta lo fundamental. Las otras dos parejas tenemos hijas, Ramón tiene una hija mayor de otro matrimonio que vive con su mamá y con Elizabeth su esposa, tiene dos, una jovencita y otra más adolescente , 17 y 13 años, y yo tengo las dos niñas que te dije.
Es muy difícil, no te voy a negar que es muy difícil, el día a día, porque no son dos meses ni dos años, son 12 años con la tristeza de no tener nuestro a esposo en la casa. Somos matrimonios que los ha unido el amor y toda pareja cuando se une hace planes para vivir juntos , para vivir la vida juntos, para tener hijos, para hacer planes futuros. Todo esto se quedó paralizado un día, pero tenemos que seguir , tenemos que sobreponernos a todo esto porque hay que seguir viviendo para tener fuerzas para luchar, para que ellos regresen antes de lo que tiene pronosticado el gobierno de Estados Unidos, que en el caso de Gerardo es que nunca regrese.
Entonces se hace bien difícil estar solos, regresar a la casa y cerrar la puerta. Esto en el caso por ejemplo de las que no tienen ni siquiera la tormenta que son los hijos en casa, pero esa tormenta te ayuda a tomar fuerzas ya no por ti sino por ellos mismos y el tiempo un poco se te llena más. En el caso de las que no tienen hijos bueno es difícil estar sola un día más, otro día, otro día, las esperanzas se van acortando a veces cuando vemos unos regresos de un punto de vista jurídico y por eso es tan importante la familia… las personas se van poniendo mayores, vas perdiendo tus afectos también, esa parte es muy difícil.
Nosotros siempre en primero pensamos en ellos , si nosotros estamos solos, si nosotros estamos pasando mucho trabajo desde el punto de vista afectivo, que no pasarán ellos que han estado in celdas en solitario tantos meses, por tantas veces sin comunicación, tratando de impedir que reciban ni siquiera cartas, viendo que el proceso se complica y se termina, y que no hay una esperanza pronta de salir… Eso nos da fuerza porque tenemos que nosotros ser las voces de ellos, la forma de moverse, de buscar solidarios, de buscar voces, somos nosotros , porque ellos no pueden.
Es decir que la lucha por la liberación de ellos se devuelve el eje de nuestros días, todos los días hacemos algo por eso, pero cuando vamos a la casa después que trabajamos, que cocinamos, que limpiamos la casa, que nos vamos a acostar… en este momento nuestra mente se vuelve a ocupar del mismo tema, es decir que no se descansa, no se descansa nunca. También nos acordamos de que ellos están ahí por defender la vida y que al pueblo cubano le ha tocado muy de cerca, o sea que son muchas las familias que también se acuestan pero en este caso pensando en los seres queridos que ellos perdieron por acciones terroristas. Entonces decimos bueno, ellos están allí por querer advertir a nuestro pueblo de la muerte y nosotros tenemos que hacer de que salgan para seguir protegiendo la vida.
Juan Manuel Santos, da falco a colomba
Di HERNANDO CALVO OSPINA *©Le Monde Diplomatique in spagnolo. Marzo 2011.
Sorprendentemente, da quando il 7 agosto del 2010, Juan Manuel Santos ha assunto la presidenza della Colombia, si è trasformato da falco in colomba. Il suo gesto più inaspettato è stato quello di trattare come suo “migliore amico” Hugo Chávez, presidente del Venezuela, quando lo ha incontrato tre giorni dopo il suo insediamento, ripristinando le relazioni diplomatiche con Caracas. Ha ristabilito anche con l’Ecuador i rapporti a tempo di record. D’altra parte, quest’uomo venuto dalla destra afferma adesso che la “prosperità sociale” è il principale obiettivo del suo mandato. Come spiegare cambiamenti tanto spettacolari?
Dal 7 agosto scorso del 2010 Juan Manuel Santos è il presidente della Colombia. Appartiene all’oligarchia tradizionale. La sua famiglia ha costruito il suo potere grazie al quotidiano di Bogotá El Tiempo, “utilizzando i mezzi di comunicazione a suo piacimento, sempre al servizio del potere” secondo Alirio Uribe Muñoz, avvocato difensore dei diritti umani. Laureato da sottoufficiale all’Accademia navale ed economista formatosi nelle università degli Stati Uniti e del Regno Unito, è arrivato ad occupare i ministeri del Commercio estero e dell’Economia. Nel 2004 lascia il partito Liberale e sostiene il governo di estrema destra del Presidente Álvaro Uribe. L’anno successivo è nominato capo della campagna per la rielezione di Uribe e del vice presidente, suo cugino Francisco Santos. Nel luglio del 2006 viene nominato ministro della Difesa, incarico che ricoprirà fino al maggio del 2009, quando decide di candidarsi alla presidenza della Colombia.
Essere presidente divenne per Santos un’ossessione fin dal momento in cui la Corte Costituzionale si oppose alla candidatura di Uribe per il terzo mandato. Oltre alle ansie di potere Santos doveva proteggersi contro eventuali denunce penali per crimini contro l’umanità commessi contro la popolazione civile dalle forze armate e di sicurezza al suo comando. Per ottenere il suo scopo, non si è fatto scrupoli – a detta dell’avvocato Alirio Uribe Muñoz – a utilizzare l’ influenza delle “truppe uribiste”, principalmente paramilitari, narcotrafficanti e i 130 parlamentari processati per diversi crimini.
L’avvocato ci fa questo quadro: “L’ex presidente Uribe rappresenta il mondo agrario e latifondista arricchitosi con l’esproprio delle terre, rudo e violento, amalgamato alle classi emergenti del narcotraffico e dei crimini del paramilitarismo. Invece Santos è l’uomo della città, colto e cosmopolita per eccellenza. Nonostante, con la sua famiglia abbia approfittato dello Stato per agevolare i suoi affari personali e per arricchirsi. Come esponenti dell’oligarchia non hanno avuto remore nel favorire e nell’ utilizzare i metodi violenti per mantenere i propri privilegi.”
Nel novembre del 2005 il ministero della Difesa approvò una direttiva segreta che dava un prezzo alla testa dei guerriglieri. I militari iniziarono ad assassinare dei civili, facendoli passare per “ribelli caduti in combattimento” che presero il nome di “falsi positivi”. La Procura Generale sta indagando circa tremila casi, tra i quali adolescenti, ritardati mentali, indigenti, tossicodipendenti…
Quando Santos giunse al ministero, nel luglio del 2006, si registrarono 274 casi di “falsi positivi”. L’anno seguente si raggiunse il culmine: 505 omicidi… Di fronte allo scandalo mediatico e ai rapporti dell’Alto Commissariato dell’ONU, la pratica si detenne: nel 2009 sette casi… 27 ufficiali furono ritirati, tra i quali tre generali, ma … senza attribuirgli la responsabilità degli omicidi. L’ONU affermò, nel luglio del 2009 che “l’impunità in relazione alle esecuzioni extragiudiziali arriva fino al 98,5%”.
I paramilitari sono stati gli incaricati della strategia della “terra bruciata” che cerca di svuotare le campagne dalla popolazione non favorevole al governo. Esistono più di 4 milioni di contadini sfollati, cioè più del 10% della popolazione. Circa 10 milioni di ettari di terra di elevato interesse economico sono stati così rubati alle vittime e offerti alle multinazionali, a nuovi latifondisti paramilitari, cacicchi politici e vertici militari.(1) Ora il presidente Juan Manuel Santos ha presentato la “Legge di Terre” come la panacea, con la quale si cerca di restituire le terre agli sfollati. Al compimento dei primi cento giorni del suo mandato ha dichiarato: “Ci siamo proposti un piano di azione per consegnare con titolo di proprietà, entro aprile, 378 mila ettari di terre e già siamo a tre quarti dell’obiettivo.” In realtà però si tratta di 10 milioni di ettari…
Nonostante se ne parli molto poco, si stima che 250 mila persone siano “scomparse” per mano delle forze di sicurezza e dei loro paramilitari. Soltanto negli ultimi quattro anni sono scomparse 40 mila persone.(2) Alcune di loro vennero sotterrate nella maggior fossa comune dell’America latina, scoperta dietro una caserma dell’Esercito a 200 chilometri a sud di Bogotá: più di 2000 cadaveri…(3)
I paramilitari adesso sono chiamati “bande criminali”, Bacrim. Cifre ufficiali segnalano che queste agiscono in 21 dei 32 dipartimenti colombiani, cioè nel 75% del territorio e che sono comandate per la maggior parte da assassini amnistiati dei loro crimini durante il mandato del presidente Uribe. “Durante le prime settimane del governo del presidente Santos, l’azione delle bande criminali si è intensificata (…) avanzano nel controllo territoriale e politico secondo lo stile migliore delle vecchie strutture paramilitari”.(4) Il nuovo governo insiste nel dire che i loro crimini sono collegati con il traffico di droga, ma “la realtà mostra che poi colpiscono gli attivisti sociali”.(5) Il partito dell’opposizione, il Polo Democratico Alternativo, ha denunciato il 9 novembre del 2010, che nei primi novanta giorni del mandato del nuovo presidente, circa cinquanta leader politici e sociali erano già stati assassinati… Di fronte a questa violenza di Stato, quattro Relatori Speciali dell’ONU hanno esaminato la situazione dei diritti umani. E nelle loro relazioni, il ministero della Difesa si trovava sempre nella prima linea della responsabilità…
Bisogna inoltre sottolineare la stretta relazione di Santos con le autorità di Israele e i suoi servizi di sicurezza. L’ex generale Israel Ziv fu portato in Colombia da Santos – il quale viaggiò in varie occasioni in questo paese del Vicino Oriente – per la cifra di dieci milioni di dollari per dare supporto ai servizi segreti colombiani. “Israel Ziv, ex comandante del reggimento di Gaza, è l’ufficiale di più alto grado tra quelli israeliani che svolgono compiti relazionati con l’addestramento di personale nel governo colombiano. I vincoli militari tra Israele e Colombia risalgono ai primi cinque anni del 1980, quando un contingente di soldati del Battaglione Colombia… alcuni dei peggiori violatori dei diritti umani nell’emisfero occidentale, ricevettero addestramento nel deserto del Sinai da alcuni tra i peggiori violatori dei diritti umani del Medio Oriente” secondo il ricercatore statunitense Jeremy Bigwood.(6)
Nell’ottobre del 1997, Manuel Santos aveva già dato dimostrazione della sua mancanza di scrupoli. Si riunì con i tre principali capi paramilitari per proporgli la partecipazione in un colpo di Stato contro il presidente liberale Ernesto Samper (proposta che fece anche alla guerriglia delle FARC e del ELN). Uno di loro, Salvatore Mancuso, lo ha confermato recentemente a magistrati statunitensi e colombiani da un carcere degli Stati Uniti (7) dove è stato estradato, nel maggio del 2008, insieme ad altri 14 narcotrafficanti, per traffico di droga, attività con la quale si finanzia il paramilitarismo.(8) Furono inviati lì anche se i loro crimini erano prima di ogni altra cosa crimini contro l’umanità. Si evitò così che i colombiani venissero a sapere di prima mano delle responsabilità dello Stato con il paramilitarismo.
Nel settembre del 2008, il giornalista venezuelano Josè Vicente Rangel, disse di Santos: “E’ l’uomo del Pentagono nella politica colombiana. Ha acquistato forza all’ombra di Uribe ed oggi possiamo dire che lo ha perfino superato.” (9)
Santos fu un seguace della linea dura dell’ ex presidente statunitense Gorge W. Bush sulla “guerra preventiva” con altre nazioni, con la scusa della legittima difesa. Questo lo portò a realizzare l’incursione militare contro l’Ecuador dove morì un cittadino ecuadoriano, per cui un giudice di quel paese decretò contro di lui un ordine di cattura internazionale per estradarlo. Decisione revocata il 30 agosto del 2010. Nell’aprile del 2010, da candidato alla presidenza, Santos disse che era “orgoglioso” di quell’ incursione. Il presidente dell’Ecuador, Rafael Correa replicò: Santos “non ha capito che in America latina non c’è più posto per aspiranti piccoli imperatori.” Hugo Chávez avvisò: qualsiasi aggressione contro Ecuador, Bolivia, Cuba o Nicaragua, “sarà un attacco contro il Venezuela”. Dal canto suo il presidente boliviano, Evo Morales, designò la Colombia come “servile e obbediente al governo degli Stati Uniti”.
Quello che provocò tensione nella regione fu l’accordo con Washington, firmato nell’ottobre del 2009, con il quale la Colombia autorizzava l’utilizzo di 7 basi militari. Ma dieci giorni dopo l’inizio del governo di Santos, la Corte Costituzionale lo ha dichiarato anticostituzionale. È stato un duro colpo per il presidente. Consuelo Ahumada, docente universitaria a Bogotá, basandosi sui documenti di WikiLeaks, ha scritto: “Risulta molto compromesso il ruolo dell’allora ministro della Difesa Juan Manuel Santos, che ha mantenuto sempre la posizione più dura, in sostegno di Uribe, rispetto a quella più conciliante e diplomatica del ministro degli Esteri. Santos e Uribe, appoggiati dagli USA, erano disposti a sconfinare di nuovo nei paesi vicini per combattere le FARC(…) Non erano infondati i timori dei governanti sudamericani sulla portata regionale dell’accordo con gli Stati Uniti.” (10)
Sorprendentemente, con la presidenza nelle mani, Santos si è trasformato da falco in colomba. Il suo gesto più inaspettato è stato quello di trattare come suo “migliore amico” il presidente Chávez e ripristinare a tempo di record le relazioni con Venezuela ed Ecuador. Secondo Sergio Rodriguez, docente venezuelano: “La rottura con Ecuador e Venezuela aveva significato per la Colombia la perdita di 7 miliardi di dollari nel 2009. E Santos fa parte di quell’ oligarchia reazionaria ma pragmatica, con potenti interessi corporativi da difendere”.
Parallelamente, Santos continua ad approfondire i legami con Washington. Il 30 gennaio scorso, il ministro della Difesa, Rodrigo Rivera, si è recato a Washington con l’obiettivo di “approfondire le relazioni in materia di difesa e di sicurezza con gli Stati Uniti”. E’ stato ricevuto dal suo omologo Robert Gates, così come dal capo del Comando Sud, dal sottosegretario degli Affari di Sicurezza delle Americhe e dal direttore aggiunto della CIA. Forze della controinsorgenza colombiana parteciperanno alla guerra in Afghanistan. Le spese sarebbero sostenute dagli Stati Uniti e dalla Spagna. I comandi militari alloggerebbero in battaglioni spagnoli e così, senza che la Colombia sia membro di questa coalizione, si troverebbero sotto la bandiera della NATO.
Lo stesso giorno che il ministro Rivera arrivava negli Stati Uniti, la Colombia entrava nel Consiglio di Sicurezza dell’ONU per due anni. La candidatura di Bogotà era stata spinta da Washington e Parigi. Per questo non fu casuale, che il 24 gennaio il presidente colombiano si sia recato in Francia invitato dal presidente Nicolas Sarkozy. Juan Manuel Santos ne approfittò per vendere le risorse naturali del suo paese e anche dell’America latina perché “possiede in questo momento ciò di cui il mondo ha bisogno”. Il petrolio, per esempio. Il suo giornale, El Tiempo, titolò per l’occasione: “Santos ha fatto questa settimana un nuovo passo per diventare il leader latinoamericano che vuole essere”.
*giornalista. Autore di El Equipo de Choque de la CIA, El Viejo Topo, Barcelona, 2010. © Le Monde Diplomatique in spagnolo Marzo 2011.
1) http://www.movimientodevictimas.org…
2) http://www.telesurtv.net/noticias/s…
3) http://www.publico.es/internacional…
4) Radio Nederland, Amsterdam, 26/08/2010
5) El País, Madrid, 30/01/2011.
6) José Steinsleger, “Israel en Colombia”, La Jornada, México, 12 de marzo de 2008.
7) El Espectador, Bogotá, 21/04/2010.
8 ) Hernando Calvo Ospina, Colombia, laboratorio de embrujos. Democracia y terrorismo de Estado. Akal, Madrid, 2008.
9) VTV. Caracas, 17 ottobre 2008
10) El Tiempo. Bogotá, 12/01/2011
Traduzione di Annalisa Melandri – www.annalisamelandri.it
Juan Manuel Santos, de halcón a paloma
Por HERNANDO CALVO OSPINA* © Le Monde Diplomatique en español. Marzo 2011.
Sorpresivamente, desde que, el 7 de agosto de 2010, Juan Manuel Santos asumió la presidencia de Colombia pasó de halcón a paloma.El gesto más inesperado fue tratar de “mi mejor amigo” a Hugo Chávez, presidente de Venezuela, cuando se reunió con él tres días después de su toma de posesión, reactivando las relaciones diplomaticas con Caracas. Con Ecuador también restableció en tiempo record las relaciones. Por otra parte, este hombre venido de la derecha afirma ahora que la “prosperidad social” es el principal objetivo de su mandato. ¿Cómo explicar cambios tan espectaculares?
Desde el 7 de agosto de 2010, Juan Manuel Santos es el presidente de Colombia. Pertenece a la oligarquía tradicional. Su familia construyó poder gracias al diario de Bogotá El Tiempo, “hasta manejar los medios de comunicación a su antojo, siempre al servicio del poder”, según Alirio Uribe Muñoz, abogado defensor de derechos humanos. Graduado como suboficial en la Academia naval, y economista formado en universidades de Estados Unidos y Reino Unido, llegó a ocupar los ministerios de Comercio exterior y de Hacienda. En 2004, abandona el Partido Liberal, y pasa a respaldar el gobierno de extrema derecha del Presidente Álvaro Uribe. Al año siguiente, es nombrado jefe de la campaña reeleccionista de Uribe y del vicepresidente, su primo Francisco Santos. En julio de 2006, es nombrado ministro de Defensa, cargo que ocupará hasta mayo de 2009, cuando decide lanzarse como candidato a la presidencia de Colombia.
Ser presidente se convirtió, para Santos, en una obsesión desde el momento en que la Corte Constitucional se opuso a que Uribe compitiese por un tercer mandato. Además de sus ansias de poder, debía blindarse contra eventuales demandas penales por crímenes de lesa humanidad cometidos contra la población civil por las fuerzas armadas y de seguridad bajo su mando. Para conseguir su fin, no tuvo escrúpulos –al decir del abogado Alirio Uribe Muñoz– en utilizar la influencia de las “huestes uribistas”, principalmente paramilitares, jefes narcotraficantes y los 130 parlamentarios procesados por diversos delitos.
El abogado nos hace este cuadro: “El ex presidente Uribe representa el mundo agrario y terrateniente enriquecido en el despojo, rudo y violento, mezclado a las clases emergentes del narcotráfico y crímenes del paramilitarismo. En cambio, Santos es el hombre urbano, culto y cosmopolita por excelencia. Aunque, junto con su familia, se ha aprovechado del Estado para favorecer sus negocios y su enriquecimiento personal. Como exponentes de la oligarquía, no han dudado en propiciar y utilizar los métodos violentos para mantener sus privilegios.”
En noviembre de 2005, el ministerio de defensa aprobó una directiva secreta que ponía precio a la cabeza de los guerrilleros. Los militares se dedicaron a asesinar civiles, haciéndolos pasar por “rebeldes caídos en combate” que llamaron “falsos positivos”. La Fiscalía General investiga unos tres mil casos, entre los que se encuentran adolescentes, retrasados mentales, indigentes, drogadictos…
Cuando Santos llegó al ministerio, en julio de 2006, se registraron 274 casos de “falsos positivos”. Al año siguiente, se subió al tope: 505 asesinados… Ante el escándalo mediático y los informes del Alto Comisionado de la ONU, la práctica se detuvo: en 2009, siete casos… 27 oficiales fueron pasados a retiro, incluidos tres generales, pero… sin atribuirles los asesinatos. La ONU expresó, en julio de 2009, que “la impunidad en relación con ejecuciones extrajudiciales llega hasta el 98,5%.”
Los paramilitares han sido los encargados de la estrategia de “tierra arrasada” que busca vaciar el campo de población no proclive al gobierno. Existen más de 4 millones de campesinos desplazados, o sea más del 10% de la población. Unos 10 millones de hectáreas de alto interés económico han sido así robadas a las víctimas, y ofertadas a multinacionales, nuevos gamonales paramilitares, caciques políticos y mandos militares (1). Ahora, el presidente Juan Manuel Santos ha presentado una “Ley de Tierras” como la panacea, con la cual se pretende devolver los campos a los desplazados. Al cumplir cien días de mandato expresó: “Nos propusimos un plan de choque para titular, hasta abril de 2011, 378.000 hectáreas, y ya hemos cumplido tres cuartas partes de la meta”. Pero son 10 millones de hectáreas…
Aunque poco se menciona, se estima que 250.000 personas han sido “desaparecidas” por las fuerzas de seguridad y sus paramilitares. Tan sólo en los últimos cuatro años lo fueron casi 40.000 personas (2). Algunas de ellas fueron enterradas en la mayor fosa común de Latinoamérica, hallada detrás de un cuartel del Ejército a 200 kilómetros al sur de Bogotá: más de 2.000 cadáveres… (3).
Ahora, a los paramilitares se les llama “bandas criminales”, Bacrim. Cifras oficiales señalan que éstas operan en 21 de los 32 departamentos colombianos, o sea en el 75% del territorio, y son dirigidas, en su mayoría, por asesinos amnistiados de sus crímenes durante el mandato del presidente Uribe. “En las primeras semanas del gobierno del presidente Santos, el accionar de las bandas criminales se ha recrudecido (…) avanzan en el control territorial y político al mejor estilo de las viejas estructuras paramilitares” (4). El nuevo gobierno insiste en que esos crímenes están relacionados con el negocio de las drogas, pero “la realidad muestra que atentan contra líderes sociales” (5). El partido opositor Polo Democrático Alternativo, denunció el 9 de noviembre de 2010, que en los primeros 90 días del mandato del nuevo presidente, unos cincuenta líderes políticos y sociales habían sido asesinados… Ante esta violencia estatal, cuatro Relatores Especiales de la ONU examinaron la situación de los derechos humanos. En sus informes, el ministerio de Defensa estuvo siempre en primera línea de responsabilidad…
Hay que subrayar también la estrecha relacion de Santos con las autoridades de Israel y sus servicios de seguridad. El ex general Israel Ziv fue llevado a Colombia por Santos –que viajó en repetidas ocasiones a ese país de Oriente Próximo– por la suma de diez millones de dólares para asesorar a los servicios de inteligencia. “Israel Ziv, ex comandante del regimiento de Gaza, es el de más alto rango entre los oficiales israelíes que ocupan tareas relacionadas con el entrenamiento de personal en el gobierno colombiano. Los nexos militares entre Israel y Colombia datan del primer lustro de 1980, cuando un contingente de soldados del Batallón Colombia ‘… uno los peores violadores de los derechos humanos en el hemisferio occidental, recibieron entrenamiento en el desierto del Sinaí por algunos de los peores violadores de los derechos humanos en Medio Oriente’, según el investigador estadunidense Jeremy Bigwood” (6).
En octubre de 1997, Manuel Santos ya había demostrado su falta de escrúpulos. Se reunió con los tres principales cabecillas paramilitares, para proponerles de participar en un golpe de Estado contra el presidente liberal Ernesto Samper (propuesta que también hizo a las guerrillas FARC y ELN). Uno de ellos, Salvatore Mancuso, lo ratificó hace poco ante jueces estadounidenses y colombianos, desde unaprisión en Estados Unidos (7) adonde fue extraditado, en mayo de 2008, junto con otros 14 líderes, por tráfico de drogas, actividad que financia el paramilitarismo (8). Allá fueron enviados aunque sus crímenes eran de lesa humanidad, y esto prima por sobre otros delitos. De ese modo, se evitó que los colombianos supieran de primera mano la responsabilidad del Estado con el paramilitarismo.
En septiembre de 2008, el periodista venezolano José Vicente Rangel dijo de Santos: “Es el hombre del Pentágono en la política colombiana. Ha venido cobrando fuerza a la sombra de Uribe, y hoy es posible decir que rebasa al propio Uribe” (9).
Fue un seguidor de la línea dura del ex presidente estadounidense George W. Bush sobre la “guerra preventiva” contra otras naciones, alegando legítima defensa. Esto le llevó a realizar la incursión militar contra Ecuador, donde murió un ciudadano ecuatoriano, por lo cual un juez de ese país dictó orden de captura internacional contra Juan Manuel Santos con fines de extradición. Decisión revocada el 30 de agosto del 2010. En abril del 2010, siendo candidato a la presidencia, declaró que estaba “orgulloso” de esa incursión. El Presidente de Ecuador, Rafael Correa replicó: Santos “no ha entendido que, en América Latina, ya no hay lugar para aspirantes a emperadorcitos.” Hugo Chávez alertó: cualquier agresión contra Ecuador, Bolivia, Cuba o Nicaragua, “será un ataque contra Venezuela”. Por su parte el presidente boliviano, Evo Morales, tildó a Bogotá de “sirviente y obediente al gobierno de Estados Unidos”.
Lo que puso en tensión a la región fue el acuerdo con Washington, firmado en octubre del 2009, donde Colombia le permitía la utilización de siete bases militares. Pero a diez días de iniciado el mandato de Santos, la Corte Constitucional lo declaró “inexequible” (que no se puede llevar a efecto). Duro golpe para el presidente. Consuelo Ahumada, profesora universitaria en Bogotá, basándose en los documentos divulgados en WiliLeaks, escribió: “Resulta muy comprometedor el papel del entonces ministro de Defensa Juan Manuel Santos, quien mantuvo siempre la posición más dura, en respaldo a Uribe, frente a una más conciliadora y diplomática, planteada por el canciller. Santos y Uribe, apoyados por Washington, estaban dispuesto a incursionar de nuevo en los países vecinos para actuar en contra de las FARC (…) No eran infundados los temores de los gobernantes suramericanos sobre el alcance regional del acuerdo con Estados Unidos” (10).
Pero, sorpresivamente, con la presidencia en la mano, Santos pasó de halcón a paloma. Su acto más inaudito fue tratar de “mi mejor amigo” al presidente Chávez, y reactivar en tiempo record las relaciones con Venezuela y Ecuador. Según Sergio Rodríguez, catedrático venezolano: “La ruptura con Ecuador y Venezuela le había significado a Colombia la pérdida de unos 7 mil millones de dólares en 2009. Y Santos hace parte de esa oligarquía reaccionaria pero pragmática, con poderosos intereses corporativos a defender”.
Paralelamente, Santos sigue robusteciendo los lazos con Washington. El 30 enero pasado, el ministro de Defensa, Rodrigo Rivera, viajó a Washington con el objetivo de “profundizar la relación en materia de defensa y seguridad con Estados Unidos”. Fue recibido por su homólogo Robert Gates, así como por el jefe del Comando Sur, el subsecretario para Asuntos de Seguridad de las Américas y el director adjunto de la CIA. Fuerzas de contrainsurgencia colombianas participarán en la guerra de Afganistán. Los gastos serán asumidos por Estados Unidos y España. Los comandos estarán alojados en batallones españoles, y, sin que Colombia sea un miembro de esa coalición, estarán bajo bandera de la OTAN.
El mismo día que el ministro Rivera llegaba a Estados Unidos, Colombia ingresaba en el Consejo de Seguridad de la ONU por dos años. La candidatura de Bogotá había sido impulsada por Washington y París. Por eso no fue casual que, el 24 de enero, el presidente colombiano llegara a Francia, invitado por el presidente Nicolas Sarkozy. Juan Manuel Santos aprovechó para dedicarse a vender los recursos naturales de su país y también los de América Latina, porque “tiene lo que, en este momento, el mundo está pidiendo”: petróleo, por ejemplo. Su periódico El Tiempo, tituló para la ocasión: “Santos dio esta semana un nuevo paso para convertirse en el líder latinoamericano que quiere ser.”
* Periodista. Autor de El Equipo de choque de la CIA, El Viejo Topo, Barcelona, 2010.
© LMD EN ESPAÑOL MARZO 2011. http://www.monde-diplomatique.es/?u…
Notas:
(1) www.movimientodevictimas.org… content&task=view&id=274&Itemid=69
(2) www.telesurtv.net/noticias/s… mas-de-38-mil-personas-desaparecidas-en-tres-anos/
(3) www.publico.es/internacional… adaveres
(4) Radio Nederland, Amsterdam, 26 de agosto de 2010.
(5) El País, Madrid, 30 de enero de 2011.
(6) José Steinsleger, “Israel en Colombia”, La Jornada, México, 12 de marzo de 2008.
(7) El Espectador, Bogotá, 21 de abril de 2010.
(8) Hernando Calvo Ospina, Colombia, laboratorio de embrujos. Democracia y terrorismo de Estado, Akal, Madrid, 2008.
(9) VTV, Caracas, 17 de octubre de 2008.
(10) El Tiempo, Bogotá, 12 de enero de 2011.
Colpo di Stato in Ecuador!
Passano le ore e quanto sta accadendo in Ecuador appare sempre più chiaro.
Si tratta dellʹennesimo colpo di Stato contro un governo democraticamente eletto in America latina. Sembrerebbe roba dˈaltri decenni. Invece è il terzo ormai nella regione dal 2002, quando in Venezuela si cercò di rovesciare il governo legittimo di Hugo Chávez, arrestandolo. Eʹ toccato poi nel giugno dello scorso anno all’Honduras di Mel Zelaya, letteralmente prelevato all´alba in pigiama da casa sua dall´ esercito e cacciato dal paese.
Oggi è la volta dell’Ecuador, con il presidente Correa sequestrato dalla Polizia Nazionale (la frangia golpista che si è esposta pubblicamente ma dietro la quale agiscono probabilmente forze politiche più grandi) presso l’Ospedale Militare.
Eʹ presto per fare qualsiasi tipo di analisi su quanto sta accadendo in queste ore in Ecuador. Non si può dire ancora se si sia trattato di unˈ azione studiata a tavolino o se sia invece una situazione esplosa spontaneamente, anche se sembra onestamente difficile credere che azioni così violente ed organizzate possano sorgere da un moto spontaneo di malcontento.
E nemmeno ovviamente si può dire se ci sia lo zampino o meno degli Stati Uniti, anche se come è prevedibile adesso, ogni tipo di legame tra i diplomatici statunitensi in Ecuador con lˈ USAID piuttosto che con la CIA, tra l’altro scontati in alcuni paesi, viene ricondotto direttamente al golpe. Proprio il Segretario di Stato aggiunto in America latina Arturo Valenzuela , ha pubblicamente appoggiato il governo di Correa tramite i microfoni della CNN.
Alcuni analisti sono addirittura restii a definire quanto sta accadendo in queste ore come “colpo di stato” argomentando che la Polizia non sta chiedendo formalmente la rinuncia di Correa o lo scioglimento del governo. E ‘quanto ha detto per esempio Adrián Bonilla, politologo, della Facoltà di Scienze Sociali (FLACSO) dell´Ecuador.
Tuttavia un presidente sequestrato e una televisione pubblica occupata, nonché un morto e una decina di feriti difficilmente si conciliano con una sommossa della Polizia, per quanto violenta possa essere.
Sicuramente è vero che nel paese un malessere serpeggiasse da tempo fra i settori più reazionari della società e quella oligarchia conservatrice che dalla Bolivia al Venezuela, dall’Honduras al Paraguay avvertono sempre più spesso, mano a mano che vengono implementate politiche di inclusione e di concertazione tra i nuovi governi progressisti latinoamericani, forti pruriti antidemocratici.
Probabilmente è anche vero che l’intenzione di mettere in pratica quello che è successo oggi covasse già da tempo tra i vertici della Polizia e non è difficile pensare che anche settori dell’esercito abbiano dato la loro adesione, salvo forse poi tornare indietro sui propri passi all´ultimo momento.
Formalmente la scintilla che ha acceso la miccia sarebbe stata la firma da parte di Rafael Correa della nuova legge sui Servizi Pubblici con la quale venivano eliminati premi e antichi privilegi di “casta” nel settore pubblico ma anche nel settore militare.Dietro alle frange golpiste dell´esercito, invece, circolano voci sempre più insistenti e fondate che ci sia il generale in ritiro Lucio Gutiérrez, ex presidente della Repubblica, nonché ex golpista (nel 2000 con l´ appoggio di migliaia di indigeni e di officiali di esercito e polizia destituì il presidente Mahuad).
Lucio Gutiérrez, intervistato dalla CNN, non esita proprio in queste ore a definire il governo del presidente Correa come “abusivo e totalitario”. Nel corso di un intervista, poco fa, l´ex presidente ha letteralmente vomitato spazzatura e accuse false i infondate a ruota libera sulla figura di Correa: complice delle FARC, golpista (ha accusato Correa di aver intentato in passato un golpe contro di lui), fomentatore della lotta di classe (insinuando che dietro l´ ammutinamento della polizia ci sia lo stesso presidente), uomo pericoloso che vuole implementare a ferro e fuoco il modello fallimentare del socialismo del XXI secolo, burattino di Chávez e quant´altro…
Tuttavia, almeno pubblicamente il capo delle Forze Armate, generale Néstor Gonzales, ha reiterato l’appoggio incondizionato dell´Esercito al governo e al presidente Correa e probabilmente proprio in questi minuti sono proprio le Forze Armate quelle che stanno cercando di far uscire il presidente dall´Ospedale Militare.
ULTIMA NOTIZIA: Quello che fino a questo momento si era evitato si sta verificando. In questi minuti lʹ ospedale è circondato dallʹ esercito che, con un imponente operativo è riuscito a liberare il presidente. Ci sono stati forti scontri a fuoco e non ci conosce con esattezza se vi siano morti o feriti.
A livello internazionale il governo di Correa ha ricevuto l’appoggio di tutta la Comunità Internazionale. Dall´ OEA all´UNASUR, che terrà questa notte una riunione straordinaria , dall´ ONU alla maggior parte dei governi della regione compreso quello degli Stati Uniti, sono molteplici e solidali le dichiarazioni di sostegno al governo di Rafael Correa.
Leggi anche gli aggiornamenti continui su Giornalismo Partecipativo