Enzo Tiezzi: non può esistere una crescita infinita su un pianeta finito

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Enzo Tiezzi é scomparso qualche giorno fa. In silenzio. Nessun giornale né agenzia riporta la notizia. É stato un grande scienziato  che ha dato un forte contributo alle battaglie ambientaliste in Italia e alla lotta contro il nucleare, conclusasi  nel referendum del 1987. Il movimiento ecologista e noi tutti gli dobbiamo molto. Anche io.

 

Ripropongo pertanto questo articolo che contiene anche un´intervista realizzata da Radio Onda Rossa ad Enzo Tiezzi un anno fa  in occasione della Giornata Internazionale della Madre Terra.

 

 

                                                                                                                     Enzo Tiezzi

Ripulite la terra.
Lasciatela libera di erbacce e amatela.
(Rayen Kvyeh)
.
Mi pregio di aver contribuito alla realizzazione di questa intervista fatta al Professor Enzo Tiezzi, che ringrazio, ordinario di Chimica Fisica presso l’Università di Siena,  (trasmessa da ,  (trasmessa da Radio Onda Rossa il 22 aprile scorso in occasione della Giornata Internazionale della Madre Terra).
 
Ho avuto la fortuna di seguire alcune sue lezioni  (di un corso di laurea in Scienze Biologiche purtroppo  non  terminato) molto tempo fa e posso dire che è una di quelle poche persone il cui ricordo perdura a distanza di tantissimi anni.
 
E’ stato lui che ha formato la mia coscienza ecologista e soprattutto anti nucleare.
 
Erano gli anni appena precedenti al disastro di Chernobyl, al quale sono seguiti poi i ferventi preparativi per la realizzazione del referendum del 1987 che finalmente  sanciva da parte del nostro paese l’abbandono dell’uso dell’energia nucleare.
 
Adesso purtroppo, con la decisione del governo Berlusconi di intraprendere nuovamente quella scelta, è tutto da rifare. Studi, previsioni, progetti, entusiasmi e successi gettati in pasto alla politica dell’utile, del facile e immediatamente conveniente.
 
Nel 1987 di Enzo Tiezzi e Paolo Degli Espinosa usciva per Garzanti “I limiti dell’energia”,  attualissimo tutt’ora.
 
“E’ la prima volta che i tempi storici, quelli dell’organizzazione, dello sviluppo scientifico e tecnologico, della società umana e della sua espansione demografica, interferiscono con i tempi biologici, cioè con quelli della storia del pianeta, della vegetazione, della fauna, delle acque, della temperatura, dell’equilibrio biologico” scrivevano i due autori vent’anni fa.
 
E’ triste  constatare che il mondo  poco o nulla ha fatto da allora.
 
Anzi,  al “produttivismo, la trappola secolare in cui è caduta la cultura occidentale” si è sostituito l’ipercinetismo, il male moderno della   società capitalista.
 
Il nuovo paradigma di cui parlava Thomas Kuhn, uno dei più grandi filosofi della scienza,  ha bisogno per essere realizzato del fattore tempo. Tempo inteso come limite (alcune risorse sono destinate infatti inevitabilmente ad esaurirsi) ma anche come sfida  da cogliere prontamente, riappropriandosene. 
Il tempo per vivere, con equilibrio e con lentezza ma anche  il tempo  da concedere con urgenza alla nostra Madre Terra perchè possa rigenerarsi e possa così produrre nuovamente  quelle energie e quelle materie prime indispensabili alla nostra stessa sopravvivenza.
 
Biografia Enzo Tiezzi:
 
Dopo la maturità classica al Liceo Piccolomini di Siena, dove è nato il 4-2-1938, si è iscritto a Chimica a Firenze. Nel periodo del Liceo fonda a Siena i “Sabati dello studente” con Manin Carabba e Dino Pieraccioni e, con Guido Ferrara, organizza un cine club.
 
Già nel 1957 nel corso di Chimica Generale II tenuto dal professor Enzo Ferroni, poi suo maestro, ha iniziato a occuparsi di Risonanze Magnetiche. Studi proseguiti negli anni sessanta sui primi due apparecchi prototipi italiani di risonanza (EPR e NMR) costruiti al Centro Microonde di Firenze.
 
Dopo 4 anni di insegnamento all’Università di Cagliari vince una borsa Fulbright per gli Stati Uniti e lavora, nel ’66 e nel ’67, prima al Dipartimento di Fisica col professor Sam Weissman e poi, come Post Doctoral Research Associate, al Dipartimento di Biologia col professor Barry Commoner, sempre nel campo delle Risonanze Magnetiche. Sono di questo periodo due importanti lavori, da allora frequentemente citati nella letteratura scientifica internazionale: uno su Biochimica Biophysica Acta sull’evidenza della presenza del Fe+1 nei processi cancerogeni e un altro sul Journal Physical Chemistry sull’analisi comparata EPR/NMR, che introduce il concetto delle possibili applicazioni della Risonanza Magnetica Nucleare in Medicina e mette a punto le equazioni dei tempi di correlazione per l’uso di possibili mezzi di contrasto basati su ioni metallici paramagnetici.  Passeranno più di 10 anni prima della costruzione del primo apparecchio NMR per la medicina.
 
E’ chairman del I° Congresso Europeo di Biofisica e membro della Commissione di Dottorato di ricerca in Chimica all’Università di Leiden in Olanda. Nel 1968 consegue la libera docenza in Chimica Fisica.
 
Nel 1970, dopo l’insegnamento di Chimica Fisica all’Università di Firenze per alcuni anni, viene chiamato a dirigere prima l’Istituto, poi il Dipartimento di Chimica dell’Università di Siena.
 
E’ professore ordinario di Chimica Fisica dal 1979 presso la facoltà di Scienze Matematiche, Fisiche e Naturali dell’Università di Siena.
 
Ha tenuto la prolusione per l’inaugurazione del 746° Anno Accademico (a.a. 1986/87) all’Università di Siena sul tema “I limiti biofisici della terra e la rilettura delle categorie spazio tempo”.
 
E’ stato parlamentare alla Camera dei Deputati del Parlamento Italiano (Gruppo Sinistra Indipendente) nella Xa legislatura.
 
E’ Accademico ordinario dell’Accademia dei Fisiocritici di Siena.
 
E’ capo della divisione di Chimica per il Consiglio Accademico e membro del Comitato Scientifico dell’European Academy of Science.
 
E’ stato presidente dal 1992 al 1997 del Comitato Interministeriale per la Ricerca Ambientale (Ministero dell’Ambiente e Ministero dell’Università e della Ricerca Scientifica e Tecnologica).
 
Ha co-diretto con Mauro Ceruti ed Edgar Morin la rivista internazionale quadrimestrale “OIKOS, per una ecologia delle idee”.
 
Ha creato e diretto la rivista mensile “Arancia Blu”.
 
E’ Membro dell’Editorial Advisory Board di “Ecological Economics” dalla fondazione, di “Ecological Modelling” dal 1998, e dell’Editorial Board di “Design and Nature” dal 2004.
 
Ha tenuto la “Plenary lecture” al Convegno Internazionale della FIAT (1996) e “Invited lectures” a Dublino, Madras, Univ. Florida, Cracovia, Lione, Londra, Cadice, ecc.ecc.
 
Ha co-diretto con Sergio Rinaldi (Politecnico di Milano) la Ia Scuola di Modellistica Ecologica nel 1994.
 
E’ Coordinatore del Dottorato di Ricerca in Scienze Chimiche dell’Università di Siena e Coordinatore della Laurea Specialistica in Chimica per lo Sviluppo Sostenibile dell’Università di Siena.
 
E’ “Focal Point” di G.A.I.M. (Global Analysis Interpretation and Modelling) all’interno dell’IGBP (International Geosphere Biosphere Programme) delle Nazioni Unite.
 
Ha ricevuto la laurea Honoris Causa dalle Università di Alma Ata e Sri-Lanka e il Premio APE (Associazione per il Progresso Economico) Milano, 1997.
 
Co-chairman della 4th International Conference ECOSUD 2003, Ecosystems and Sustainable Development (2003); 3rd International Conference on the Sustainable City 2004; 2nd International Conference On Brownfield Sites 2004; 4th International Conference on the Sustainable City 2006; 6th International Conference ECOSUD 2007,  Ecosystems and Sustainable Development  (2007).
 
Chairman, insieme al premio Nobel per la pace Perez de Esquivel, per la Conferenza internazionale sullo stato del Pianeta (dicembre 2006).
 
E’ stato insignito dal Wessex Institute of Technology of Great Britain dell’Eminent Scientist Award per l’anno 2003.
 
Inaugura l’Anno Dottorale 2002–2003 (Dottorato di Ricerca in Scienze Ambientali) a Venezia il 6 Dicembre 2002 e tiene una “Plenary” ai Dottorati del Politecnico di Milano (5 Aprile 2006).
 
Riceve la medaglia d’oro della Società Chimica Italiana – Divisione Chimica dell’Ambiente e dei Beni Culturali nel 2002 e la medaglia d’oro della Presidenza del Consiglio dei Ministri il 19 ottobre 2003. Riceve inoltre, nel 2004, la medaglia Blaise Pascal dell’European Academy of Sciences for Physics and Chemistry.
 
Viene insignito (2005) del premio “Per l’arte e la scienza” al Palazzo della “Ragione” di Mantova.
 
All’Università di Cadice il 3 Maggio 2005 viene conferito a Enzo Tiezzi il “Prigogine award 2005” e la relativa medaglia d’oro “Senior researcher”.
 
Premio San Valentino d’oro 2006 della città di Terni.
 
Agisce da referee per molte riviste scientifiche internazionali.
 
E’ editor delle riviste “International Journal of Ecodynamics” e “The International Journal of Design & Nature and Ecodynamics”, main editor della collana “The Sustainable World” (WIT press, GB) ), nonché membro del Board of Directors del Wessex Institue of Technology (WIT, GB).
 
Ha diretto per conto dell’Amministrazione Provinciale di Siena, il progetto SPIN-ECO, finanziato dalla Fondazione MPS.
 
Il professor Enzo Tiezzi ha scritto oltre 20 libri, molti dei quali tradotti e pubblicati in varie lingue estere. Sono usciti in Inghilterra “The End of Time”, “The Essence of Time”, “Beauty and Science”, “Steps towards an evolutionary physics” e “City out of Chaos”; in Spagna “La belleza y la ciencia”, traduzione del libro “La bellezza e la scienza”; in Italia “Verso una fisica evolutiva”, traduzione del libro “Steps towards an evolutionary physics”, il suo primo romanzo “Rosaluna” e “La soglia della sostenibilità. Quello che il Pil non dice”. In particolare “Tempi storici, tempi biologici” (Garzanti 1984) è stato un best seller nel settore (4 edizioni in 3 anni), ha vinto il premio del Festival Internazionale di Locarno ed è stato nominato nel 1986 libro dell’anno dall’Istituto Italiano di Cultura a Londra. Il libro “The Essence of Time” ha la prefazione del premio Nobel per la Chimica Ilya Prigogine; il libro “Beauty and Science” quella di Pietro Cascella e il libro “Steps towards an evolutionary physics” quella di Sven Jørgensen.
 
E’ autore di oltre 500 pubblicazioni scientifiche, la maggior parte delle quali su riviste scientifiche internazionali di alto prestigio. Il suo articolo sul nuovo indicatore economico (ISEW) pubblicato sulla rivista americana Ecological Economics e sui Quaderni della Facoltà di Economia dell’Università di Siena, è stato il più “visitato” degli articoli del 2006.
 
Ha collaborato, tra gli altri, con Danilo Dolci, Howard Odum, Edgar Morin, Ilya Prigogine e, più recentemente, con Herman Daly e Sven Jørgensen. Ha scambi scientifici col Max Planck Institute in Germania e col Massachussets Institute of Technology (MIT) negli Stati Uniti.
 
Ha organizzato Scuole e Gruppi di discussione (Risonanze Magnetiche) con i premi Nobel per la Chimica G. Wilkinson (GB) e K. Wüthrich (CH). I suoi allievi e collaboratori hanno lavorato con i premi Nobel per la Chimica P. C. Lauterbur (USA) e I. Prigogine (BE). Con quest’ultimo la frequentazione e gli scambi scientifici sono durati oltre venti anni.
 
Negli anni ottanta ha fatto parte del gruppo dei 25 scienziati che, a Stoccolma e Barcellona prima, poi alla Banca Mondiale a Washington e, infine, all’ASPEN Institute negli Stati Uniti, ha messo a punto il concetto di “sviluppo sostenibile”.
Ha tenuto conferenze e lezioni all’Imperial College di Londra e al Politecnico WIT di Southampton (del cui Consiglio Accademico fa parte) (2006).
 
Una sua videointervista è stata inserita nella Mostra Internazionale “Les yeux ouverts. Stock Exchange of Visions”, dedicata ai 16 intellettuali del mondo scelti per “dare una visione del futuro”, ospitata al Centre Pompidou di Parigi (2006), alla Triennale di Milano (2007) e all’eArts Festival allo Shanghai Art Museum (2007).
 
E’ stato direttore scientifico del numero 271/2057 della rivista Colors di Benetton dedicata ai mutamenti del pianeta, presentata alla stampa alla presenza di Al Gore, ex vice presidente degli Stati Uniti d’America.
 
E’ stato invitato dal poeta Ernesto Cardenal, già Ministro del Nicaragua, al primo incontro mondiale “Escritores por la Tierra” (2007).
 
Ha scritto, per Marcos y Marcos, due libretti di poesie di viaggio e, per Donzelli, un romanzo (Rosaluna). Collabora con molti artisti sul rapporto tra scienza ed estetica e, in particolare, con Pietro Cascella, Marcello Aitiani, Paolo Portoghesi, Giorgio Celli, Tony Thorimbert ecc.
 
Le sue fotografie di viaggio sono state esposte nella mostra fotografica  allestita presso il Museo d’Arte Moderna e Contemporanea Ca’ la Ghironda (Bologna, 28 Maggio – 16 Giugno 2007) e nella mostra fotografica allestita presso i Magazzini del Sale del Comune di Siena (4 Ottobre – 4 Novembre 2007).
 
Ha fatto parte della Commissione del Comune di Roma per il premio “Borromini” insieme a Paolo Portoghesi, Frank Gehry e Wim Wenders.
 
Ha diretto il Piano strutturale del Comune di Ravenna e vari progetti per conto del Consorzio Venezia Nuova (Comune di Venezia) di cui è consulente scientifico.
 
 

Enzo ha lasciato Arancia Blu

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di Enrico Falqui
“Lo splendore dell’amicizia
non è la mano tesa
né il sorriso gentile
né la gioia della compagnia
è l’ispirazione spirituale
quando scopriamo
che qualcuno crede in noi
ed è disposto a fidarsi di noi.”
( R. W. Emerson, in May Day,
1867, Concorde,USA)
C’è una straordinaria similitudine tra la vita di una delle figure centrali della cultura americana, Ralph Emerson e quella di Enzo Tiezzi, mio maestro e padre dell’ambientalismo italiano, spentosi pochi giorni fa nella sua fattoria di Pacina (Castelnuovo Berardenga)
La chiave di questa similitudine sta nella loro straordinaria dimensione spirituale che ha accompagnato le loro così diversissime esistenze, uomo dell’800, ministro della Chiesa Unitaria e fondatore della filosofia del trascendentalismo, il primo, uomo del Novecento, ateo e fondatore di una delle più importanti scuole internazionali di chimica-fisica, nel campo delle possibili applicazioni della Risonanza magnetica nucleare in medicina.
Enzo Tiezzi è stato per tutta la sua vita un “innovatore”, un vero e proprio scienziato del Rinascimento, (come qualcuno lo ha definito) uno straordinario interprete delle applicazioni sociali della Scienza, dotato di quella raffinata ed unica capacità di “precursore“in tutti i campi di ricerca nei quali si è misurato, coinvolgendo in questa instancabile attività un’enorme quantità di giovani, di intellettuali prestigiosi, di pubblici amministratori.
Con le lacrime che solcano il mio viso, mentre scrivo, lo rivedo intorno al “tavolo” della sua splendida fattoria di Pacina, circondato da una “squadra” di amici, per molti anni inseparabili, quali, Antonio Cederna, Laura Conti, Fabrizio Giovenale, Marcello Cini, Chicco Testa, Ermete Realacci, Mercedes Bresso, Carla Ravaioli, Paolo degli Espinosa, Gianni Mattioli, Massimo Scalia, Giuliano Cannata, Walter Ganapini, Virginio Bettini.
Di questi memorabili incontri, allietati sempre dai vini e dai cibi prelibati preparati con sapiente gusto “contadino” nelle cucine della sua fattoria, Enzo Tiezzi fu l’instancabile animatore durante la seconda metà degli anni ’70. Dalle idee ed utopie concrete discusse intorno al “tavolo” di Pacina sarebbe sorto in tutte le regioni italiane, di li a poco, un agguerrito movimento ambientalista che seppe opporsi con successo alla strategia dell’Ente elettrico italiano (ENEL) di produrre energia elettrica utilizzando solo le fonti fossili ed il nucleare civile da fissione.
Gli anni trascorsi negli Stati Uniti, tra il 1966 e il 1967, presso il Center for the Biology of Natural Systems, permisero a Enzo Tiezzi di stabilire una proficua collaborazione col suo eminente Direttore, Barry Commoner, il cui primo saggio letterario “The Closing Circle” (Il cerchio da chiudere) diventerà nel 1972 il primo “best seller” europeo sulla nascente teoria ecologica contemporanea.
Da questo momento in poi, Enzo capisce , prima di tutti gli scienziati ed intellettuali periodicamente riuniti a Pacina, che il monito lanciato a Washington nel 1962 dalla celebre biologa americana, Rachel Carson (La primavera silenziosa), sui rischi ecologici planetari, connessi all’utilizzazione intensiva dei pesticidi in agricoltura, mettevano in discussione non solo la dimensione “quantitativa” dello sviluppo contemporaneo, bensì i diversi paradigmi scientifico-culturali sui quali si erano costruite le tecnologie moderne applicate allo sviluppo economico e territoriale.
Tiezzi aveva individuato il nucleo della crisi ambientale globale proprio nella differenza tra i velocissimi tempi della tecnologia e i lentissimi tempi della biologia; si trattava di una formidabile intuizione scientifica che sottolineava l’inversione tra la scala dei Tempi Storici e quella dei tempi biologici, a causa degli squilibri e della crescita incontrollata provocata dall’attività umana a partire dagli anni 50 in poi.
Il suo più celebre libro porta il “marchio” di quest’idea precursore dei tempi: Tempi Storici, Tempi Biologici (Ed Garzanti) esce nel 1987, alla vigilia del referendum sull’uso del nucleare civile in Italia e del terribile incidente avvenuto in Russia presso il reattore nucleare di Chernobyl.
Sono gli anni di maggiore influenza del movimento ambientalista italiano, forgiato intorno alle idee e agli obiettivi del “Tavolo di Pacina”; la cultura ambientalista si diffonde in ogni angolo del Bel paese ed Enzo Tiezzi viene a contatto con milioni di cittadini, ai quali spiega sempre con pazienza che la Terra non possiede le capacità per sopportare uno sviluppo economico fondato sul mito Prometeico della Tecnologia e sull’espansione incontrollata dell’industrializzazione e dell’urbanizzazione.
Parla di energie rinnovabili e di tecnologie dolci, mostrando sempre all’auditorio che lo ascolta in religioso silenzio, un fiore giallo di topinambur (helianthus tuberosus), che, in autunno ricopre gli argini dei fossi, pianta perenne, simbolo perfetto del connubio tra efficienza ecologica e produttività agronomica.
Questo costante impegno civile, nella società italiana, lo porta ad essere eletto, in quegli anni, in Parlamento nella X legislatura, come deputato nella Sinistra Indipendente.
Enzo era, tuttavia, personaggio “scomodo” per il potere politico in un’epoca nella quale stavano già emergendo i primi sintomi di quella “malaria affaristica” che porterà alla decapitazione del sistema dei partiti della Prima repubblica (1992).
Da quell’esperienza se ne fuggì dopo poco, pronto a investire le sue energie in nuove e più ambiziose mete.
Nel gennaio del 1990 fonda la rivista “Arancia Blu”, che viene pubblicata mensilmente dalla Casa editrice del Manifesto, il cui successo fa capire che è definitivamente tramontato il mito dello sviluppo illimitato in una vasta area dell’opinione pubblica di sinistra in Italia e che il tema centrale di un “modello alternativo” per lo sviluppo doveva fondarsi sui principi e sugli obiettivi che Enzo Tiezzi, insieme ai suoi “cavalieri della Tavola Rotonda”, aveva contribuito a creare in un decennio denso di iniziativa culturali, sociali e politiche.
Nel decennio successivo (1990–2000), Enzo Tiezzi viene riconosciuto scienziato di fama internazionale; riceve la laurea “honoris causa” presso le Università di Alma Ata e dello Sri Lanka (1997), viene insignito del titolo di “Eminent Scientist Award“presso il prestigioso Wesses Institut of Technology of Great Britain (2003).
Anche il “tavolo di Pacina” cambia ospiti e commensali; nella fattoria incastonata nello splendido paesaggio senese, arrivano personaggi illustri quali Howard Odum, Ilya Prigogine, Nicholas Georgescu-Rogen, Herman Daly e Sven Jorgensen che discutono con lui di nuovi ed altrettanti innovativi campi di ricerca, quali quelli che riguardano il rapporto tra Tempo e Natura, i processi teorici delle scienze evolutive e fisiche, i caratteri e le proprietà di uno sviluppo sostenibile, a misura d’uomo.
Nel 2006, una sua intervista viene inserita nella Mostra internazionale “Les Yeux ouverts. Stock exchange visions” e ospitata presso il Centro Pompidou a Parigi, alla triennale di Milano e all’Arts festival di Shangai: si tratta di un set di interviste fatte ai 16 intellettuali del mondo accreditati e scelti per dare una “visione del mondo al futuro”.
Di questo riconoscimento avuto, tra gli innumerevoli ricevuti nel corso degli ultimi dieci anni di vita, Enzo era particolarmente orgoglioso e lo annunciava solo ai pochi amici di cui si fidava totalmente.
Una straordinaria serie di mostre di fotografie, da lui scattate e selezionate nel corso di tutta la sua vita, esposte presso il Museo di Arte moderna e contemporanea a Bologna e a Siena (2007), avevano preannunciato l’inizio consapevole di un lungo viaggio nei meandri oscuri del male incurabile e del tormento fisico che precede la fine.
Ma, anche in questa occasione, l’intelligenza di Enzo aveva “precorso” i tempi, annunciando l’irreversibile sua ultima certezza, quella che porta la Scienza a riconciliare l’Uomo contemporaneo con l’Arte, la Poesia, la Bellezza.
I suoi ultimi anni sono stati spesi proprio nel cercare di rintracciare “valori universali” nel campo delle sue complesse ed innumerevoli ricerche sul rapporto tra Biologia e Sviluppo; quando Enzo li rintracciava, sceglieva nuovi strumenti e nuovi mezzi per “comunicare”, ad un pubblico sempre più vasto, le sue idee di futuro e di etica della responsabilità, che ha sempre saputo trasmettere a tutti i suoi allievi.
Qualche giorno fa, pur ritornando alla sua Pacina, Enzo non ha “aperto” nessun nuovo Tavolo ma ci ha consegnato la sua eredità.
Immensa, multiforme, colorata, piena di profumi.
Lui, avvolto in quel candido vestito bianco, con cui amava presentarsi nelle occasioni importanti, è uscito di scena, come un attore del Teatro Rozzi della sua amatissima Siena, volando sopra le quinte per osservare l’Arancia Blu, ospite di quell’astronave dalla quale Kenneth Boulding seppe farci capire la stolta filosofia dell’ “economia del cow-boy”.


La vida loca — trailer

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Questo il sito del film


Femminicidio, chiamiamolo con il suo vero nome

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Da: Femminismo  a Sud

Non avevamo dubbi. Non potevamo concludere il mese d’agosto senza un’altra strage compiuta da un uomo. Ha massacrato la moglie e due figli, uno di 19 anni e l’altro di 4. Poi ha ammazzato anche una donna di 79 anni che li ospitava.

La rassegna stampa non presenta molte diversità. Per tutti i quotidiani online presi in esame lui è principalmente uno malato di disoccupazione, un cassintegrato che per questo motivo avrebbe deciso di fare una carneficina per poi rincoglionirsi di farmaci e alcool. Qui le tesi si discostano. C’è chi dice che in preda al pentimento si sarebbe gettato dal secondo piano e chi invece specifica che — causa rincoglionimento — quando è uscito per aspettare i carabinieri è caduto e ha sbattuto la testa nella legnaia.

Definiamo i significati: innanzitutto la disoccupazione come male che farebbe diventare un sant’uomo un efferato pluriomicida.

Quante sono le donne che sono in stato di disoccupazione? Tante. Come mai a loro non viene in mente di massacrare la famiglia? Perchè il motivo degli omicidi non è la disoccupazione. Cosa fa una donna quando è disoccupata? Lavora a casa, cresce i figli, pulisce, rassetta, aiuta il bilancio familiare cucinando pietanze con poca spesa e rammendando abiti per riciclarli. Cosa potrebbe fare un uomo in stato di disoccupazione? Le stesse cose o se crede va a cercarsi un altro impiego, si applica in lavori manuali e aggiusta quella tal finestra che è rotta da un decennio.

Nella nostra società di donne ammalate di disoccupazione non si parla mai e non è che a noi piaccia da morire stare a casa. Si pensa in fondo che una donna abbia nella casa il suo habitat naturale e dunque non veda l’ora di tornarci. La reazione delle donne che rischiano il licenziamento però dimostra esattamente il contrario. Non c’è affatto una tendenza naturale delle donne nell’accogliere di buon grado la disoccupazione.

Dell’uomo invece si pensa che sia un animale sociale che per sentirsi virilmente a posto con se stesso, macho al punto giusto, dovrebbe uscire di buon’ora e andare a caccia per portare la bestia sconfitta in casa a pranzo per la sua donna e i suoi cuccioli. Parlare di un uomo senza lavoro diventa dunque molto più drammatico che parlare di una donna disoccupata. Come se entrambi non contribuissero al bilancio familiare o non avessero diritto ad una dignitosa autonomia economica per vivere.

L’uomo disoccupato, dicevamo, naturalmente deprimibile e difficilmente in grado di muovere il culo per darsi da fare in compiti differenti, è così legittimato, tra una grattata di natica e una scaccolata subumana, a sterminare la famiglia.

Tutto ciò ovvio non significa che restare senza lavoro non sia un male sociale che conduca a malesseri personali. Ma questo vale per tutti e non certo soltanto per gli uomini. Nessuno è perciò giustificato a pensare che in tempo di crisi economica sia corretto licenziare più donne che uomini per via di quella nostra presunta pulsione naturale a recuperare felicità di fronte ad un focolare in cui farsi il mazzo gratis tutto il giorno.

L’altro elemento da analizzare: la depressione di cui abbiamo già parlato in molte altre occasioni. Vedi quiquiqui

E di nuovo la storia del suicidio che rende la faccenda pietosa, più tragicamente comprensibile, più orientata al gesto momentaneo, allo sproposito di una singola giornata. Nonostante le due versioni contrastanti, che descrivono un uomo fatto di psicofarmaci e alcool che per un verso si butta dalla finestra e per l’altro semplicemente scivola e sbatte il capo, in ogni caso in nessuno degli articoli si parla esattamente di come ha ammazzato moglie e figli. Quante ferite, quanto sangue, quanto orrore, quanta efferatezza, se li ha inseguiti, se moglie e figli hanno tentato di difendersi, se li ha presi nel sonno, di sorpresa, increduli, mentre vedevano il loro padre fare quello che tanti altri padri fanno abbastanza frequentemente: togliere di mezzo la famiglia che reputano di loro proprietà.

In tutti gli articoli si parla solo di lui, del suo stato di salute, della sua psiche, della sua depressione, dei suoi lamenti, del suo stato di coma, delle sue pene infinite, di tutti gli elementi che servono ad “umanizzarlo”, di tutte le attenuanti che serviranno a dire che quanto è avvenuto non dipende da nulla che non sia contenuto nell’elenco motivi di sterminio familiare dello schedario dei tutori della famiglia. Non abbiamo un solo articolo che ci dica chi fosse la donna, quanto meravigliosi fossero i figli, che fantastica creatura fosse l’anziana signora che li ospitava per alleviare, supponiamo, un momento di difficoltà. Se non ne parli non esistono. Se non ne parli abbiamo delle indistinte vittime che fanno semplicemente numero. Nulla che susciti pietà più di quanto non si cerchi di suscitarne a proposito dell’uomo. Le vittime di questo ennesimo sterminio continuano ad essere cose, oggetti. Lo erano per chi li ha eliminati dalla faccia della terra e continuano a non esistere per gli organi di informazione. Quale metodo migliore per fare ritenere inumane delle persone che sono state uccise?

Tutti elementi, questi, che tendono ad allontanare l’idea che la violenza contro le donne è maschile, a differenza di quanto dice certo pseudo-femminismo moderato e reazionario (che raccoglie donne che vanno dal pd al centro destra):

- ben attento a tutelare l’istituto della famiglia;

- ben attento a custodire il ruolo delle donne in seno alle famiglie come ammortizzatrici sociali di un welfare che agevola solo chi persegue come unico fine il profitto;

- ben attento a non turbare il volere di santa madre chiesa. 

Resta da dire che le donne, secondo le regole scritte, non hanno una via d’uscita. Sono intrappolate in un meccanismo sociale che le obbliga a restare accanto agli uomini, in famiglia, ad assolvere ai ruoli imposti. Perciò le donne devono reagire indipendentemente da tutto.

Come chiamereste voi uno sterminio ai danni dei lavoratori fatto dal caporeparto di una fabbrica? Incidente sul lavoro? Immagino di no.

Quando muoiono le donne invece appare lecito dire che la famiglia è e rimane comunque un luogo fantastico e che gli uomini che in quel contesto agiscono da assassini sono solo un po’ folli, prodotti mal riusciti, scarti di fabbrica, nulla di preoccupante. Vedrete: la prossima serie di robot maschi che metteranno sul mercato sarà senz’altro migliore: quella attuale ha troppi difetti ma bisogna comunque piazzarli. D’altronde la nostra società produttiva cosa sceglie tra un kapo’ senza scrupoli omicida e stupratore ed un uomo idealista pieno di principi e valori etici e morali? Senza dubbio il kapo’.

Se sei una donna che vive in una situazione di violenza, reagisci. Se sei una donna che vive in una situazione di violenza e hai dei figli, reagisci. Se tu non reagisci rischi la tua vita e quella dei tuoi figli.

Il resto della filastrocca per donne vittime di violenza in famiglia puoi leggerla QUI.

State all’erta amiche e sorelle. State attente e trovate nella solidarietà tra donne il vostro elemento di forza. 

—»>L’immagine in alto rappresenta — in satira — uno dei modi in cui in america si denigrava e criminalizzava la lotta per i diritti delle donne. Le donne — si diceva allora e si dice ancora adesso — vogliono ottenere la parità per non fare nulla. Invece guardate il pover’uomo che suscita compassione mentre assolve ad umili lavori che lui non dovrebbe mai fare…


Giornalismo Partecipativo: Intervista a Gennaro Carotenuto

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Gennaro Carotenuto insegna Storia del Giornalismo presso la Facoltà di Scienze della Comunicazione dell’Università di Macerata, dove promuove il Master in Giornalismo Partecipativo, la prima e unica iniziativa in Italia di formazione alternativa al giornalismo commerciale.

Oltre ad aver lavorato o collaborato con grandi media come El País di Madrid, Radio3RaiLa Stampa,Latinoamerica, dal 1995 gestisce uno dei blog più frequentati in Italia ed è in uscita il saggio “Giornalismo partecipativo — La storia dell’informazione come bene comune”.

Proprio di Giornalismo Partecipativo parliamo con lui in questa intervista in esclusiva ad   Annalisa Melandri

A.M. — Professor Carotenuto, lei gestisce da anni con notevole successo di pubblico un sito chiamato Giornalismo Partecipativo. Perchè questo nome?
G.C. — Più che il nome del mio sito, l’importante è il Giornalismo Partecipativo in sé, quella nebulosa di migliaia di siti che contribuiscono a spostare quote dell’opinione pubblica dal pensiero unico imposto dai media tradizionali che lavorano in sinergia con il potere, politico ed economico. Il mio sito è un pulviscolo di questa nebulosa informativa che sta cambiando il giornalismo del XXI secolo
A.M. — Secondo lei, questo modo diverso rispetto al tradizionale di fare giornalismo, può influenzare e come lo fa praticamente, i media mainstream e quindi l’opinione dei lettori?
G.C. — Intanto ci sono i numeri. La mia esperienza personale è quella di singoli articoli che sono stati letti da più di 30.000 persone, il che corrisponde al numero di lettori di editoriali di quotidiani medi. Questo impone ai media mainstream di fare i conti con la nebulosa, anche se non lo ammettono, anche se diffondono posizioni di chiusura netta ai limiti del diffamatorio. Di recente Gianni Riotta, il direttore del TG1, tutto un simbolo del giornalismo mainstream è arrivato ad affermare che chi sceglie di informarsi con i blog sottomette ad un pericolo mortale i mass media e la democrazia stessa. Per Riotta l’opinione pubblica è tale ed esiste solo se filtrata dai mass media, non esistono altre forme possibili di sviluppo di un’opinione pubblica meno concentrata su poche voci. Gli autori dei blog, se riusciranno (ma è questo il punto?) a cancellare i mass media, secondo lui cancelleranno l’opinione pubblica critica e di conseguenza la democrazia. Io credo che questa sia la posizione di chi per secoli ha imposto all’opinione pubblica cosa doveva e cosa non doveva sapere, anche in democrazia, e adesso sente questo immenso potere scemare.
A.M. — E’ un giornalismo che gode di una qualche forma di autorevolezza? A volte si ha come l’impressione che venga visto con una certa aria di sufficienza da parte degli operatori del settore…


G.C — Dipende. C’è chi lavora seguendo tutti i principi del miglior giornalismo, per accuratezza e verifica delle fonte e chi no. Anche nel grande giornalismo c’è chi lavora in maniera infedele. La differenza è che il Giornalismo Partecipativo non ha padroni come invece hanno i giornalisti mainstream spesso lottizzati.

A.M. Questa forma di fare giornalismo, intesa come processo di democratizzazione dell’informazione, sembra che trovi al momento come unico luogo di espressione soltanto la rete, è possibile che in un futuro il Giornalismo Partecipativo possa offrire il suo contributo anche agli altri media tradizionali?
 
G.C — Succede già, stanno crescendo televisioni che vanno via satellite, perfino su Sky, oppure sulle radio, pensiamo al circuito delle radio universitarie. Non stiamo inventando nulla, solo abbiamo oggi uno straordinario strumento in più.
A.M. — Una volta immaginavamo il grande giornalista nelle vesti di inviato di guerra o comunque direttamente presente sul campo, cioè “nella notizia”. Oggi questo lavoro può svolgersi comodamente seduti da casa davanti a uno schermo di un computer. Perchè dovrebbero essere disposti ad investire in viaggi e reportage gli editori se comunque c’è sempre qualcuno disposto a mettere a disposizione di tutti il suo contributo direttamente dal luogo dove ha luogo la notizia anche non essendo un giornalista nel senso classico del termine?
G.C. — Questo è un problema drammatico. Il modello economico del giornalismo mainstream non regge più. Finora stanno tagliando i costi e la qualità. Cosa succederà poi?
A.M. — Lei è docente di Storia del Giornalismo presso la Facoltà di Scienze della Comunicazione dell’Università di Macerata, che consiglio si sente di dare ad un giovane che voglia intraprendere oggi la carriera di giornalista?
 
G.C — Di consolidare la propria autorevolezza con lo studio indipendentemente dal media per il quale lavora o aspira a lavorare. Solo così potrà mantenere quote d’indipendenza.

 

 


L’unica razza: quella umana

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Mi raza”. L’humanismo martiano contro gli odi di razza
di Alessandro Badella 
 
La drammatica situazione dei rapporti inter-culturali e inter-etnici, che in questi giorni ha riempito i tg e i giornali, chiaramente esige una riflessione positiva, ovvero una proposta di superamento delle barriere che vengono innalzate nel conflitto tra “l’io” ed “l’altro”. Premetto che, mediamente, il tasso di sopportazione del prossimo è giunto ai minimi storici. Specie se “l’altro” ha la pelle diversa dallo standard (parola ignobile, ma rende l’idea) nazionale.
Quindi, vorrei tentare un piccola comparazione storica. Nella Cuba di fine Ottocento si poneva un problema razziale proprio come nell’Italia di un secolo dopo: che fare dei 520,000 neri (afro-cubani figli degli schiavi importati dagli spagnoli)?[1] Come inserirli all’interno della società post-coloniale? Anche all’epoca era stato lanciato un dibattito molto serrato sulla cubanidad, la cubanità: chi era il vero cubano? Gli afro-cubani potevano esserlo?
Oggi questi interrogativi si possono porre in riferimento ad uno stato nazionale messo a dura prova dall’immigrazione e dal confronto con nuove culture. Dalla cucina allo skyline, le città occidentali sono sempre più eterogenee. Qualche tempo fa, ricordo di aver letto di un pestaggio in cui si ricordava alla vittima, italiana dalla pelle nera, di essere una sorta di anomalia, visto che gli aggressori ritenevano inconciliabili le due qualità: “o si è neri o italiani”.
Gli atti di condanna che le istituzioni hanno espresso in questi giorni sembrano una sorta di atto di umili scuse che non offrono una posizione “propositiva” nel dibattito sull’italianità, sulla dignità umana, sullo status dei cittadini stranieri nel nostro paese. Forse la situazione più grottesca è quella del sindaco di Roma, Gianni Alemanno, che gira con una croce celtica al collo, nel privato, e condanna le violenze razziste in pubblico. Ecco, di fronte a queste scenette da commedia degli equivoci, viene sicuramente da chiedersi come fare a sostenere il dialogo tra culture.
Vorrei richiamare l’attenzione su un articolo pubblicato il 16 ottobre 1893, su Patria il mitico quotidiano fondato dal rivoluzionario cubano José Martí. Il pezzo di intitola “Mi raza”, la mia razza. L’Apostolo della guerra di indipendenza, l’hombre sincero affronta appunto il problema di ricostruire una nuova identità nazionale, che non avrebbe potuto essere ricreata sulle basi del dominio coloniale ispanico, né sulla (pre)potenza economico-sociale dell’elemento creolo (i bianchi cubani). Martí risolve brillantemente il dibattito sulla questione etnica ricorrendo al minimo comune multiplo di tutti gli uomini, ciò la qualità stessa di esseri umani: “El hombre no tiene ningún derecho especial porque pertenezca a una raza u otra: digase hombre, y ya se dicen todos los derechos”[2]. Quindi nessun diritto particolare appartiene né al bianco né al nero (né a nessun altro gruppo etnico). Solamente entrambe le razze (anche se Martí sosteneva apertamente la fallacia delle idee del “darwinismo sociale” con cui venne in contatto nei suoi 15 anni di esilio americano. Nello stesso passo si legge: “Todo lo que divide a los hombres, todo lo que los especifica, aparta o acorrala, es un pecado contra la humanidad”.).
L’eguaglianza razziale, secondo il poeta cubano, si ottiene con una garanzia di diritti inalienabili, che devono essere garantiti indistintamente a tutti gli esseri umani, indipendentemente da tutto, sesso, razza o religione.
L’humanismo martiano superava i confini delle distinzioni razziali, approdando ad una fratellanza universale: “Los hombres verdaderos, negros o blancos, se tratarán con lealtad y ternura, por el gusto del mérito, y el orgullo de todo lo que honre la tierra en que nacimos, negro o blanco”[3]. Gli hombres verdaderos – il termine richiama anche l’incipit dell’opera Versos Sencillos: “Yo soy un hombre sincero” – sono quelli integri, puri e legati dalla volontà di costruire qualcosa insieme. Positivi e propositivi.
Quindi, il fatto di essere cubano (ma, perché no, anche italiano) diveniva una semplice forma mentis, ovvero il rifiuto categorico dell’ingiustizia sociale, dell’oppressione e della schiavitù, ma anche delle divisioni imposte dall’esterno. Citando nuovamente i Versos Sencillos, Martí additava la schiavitù dell’uomo sull’uomo come la grande piaga dell’umanità: “¡La esclavitud de los ombre\ Es la gran pena del mundo!”[4].
La costruzione solidale di un futuro condiviso – essenziale all’epoca di Martí – è anche il grande obiettivo della nostra società, ma soprattutto un fortissimo antidoto contro le intolleranze ed i razzismi. L’isolamento non paga, come non pagava allora: “El blanco que se aisla, aisla al negro. El negro que se aisla, provoca a aislarse al blanco”[5]. Martí sosteneva che la humanidad, cioè l’essere umano,fosse una qualità superiore a quella di essere bianco o nero: “Hombre es más que blanco, más que mulato, más que negro”[6].
Ecco, quella umana è l’unica razza esistente sulla faccia della terra.



[1] Il dato sulla popolazione nera fa riferimento a War Department, Office Director Census of Cuba, Report on the Census of Cuba, 1899, Government Printing Office, Washington, 1900, p. 462.
[2] José Martí, Mi raza, Obras Completas, Centro de Estudios Martianos — Karisma Digital, La Habana, 2001, vol. 2, p.298.
[3] Ibidem, p. 299.
[4] [4] José Martí, Versos Sencillos (XXXIV), Obras Completas, Centro de Estudios Martianos — Karisma Digital, La Habana, 2001, vol. 16, p.112.
[5] José Martí, Mi raza, Obras Completas, Centro de Estudios Martianos — Karisma Digital, La Habana, 2001, vol. 2, p.299.
[6] Ibidem.

Quale cultura ci salverà?

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Si respira nel paese un clima pesante di violenza. Una violenza che a volte  germina e trova terreno fertile in una sottocultura fatta di simboli e immagini che ci riportano prepotentemente indietro di decenni.
Svastiche e immagini di Hitler e Mussolini nel computer di un quattordicenne che è accusato di aver seviziato, bruciandogli anche i capelli, un coetaneo; un ragazzo ammazzato di botte a Verona da cinque nazifascisti. Questi sono solo gli ultimi due episodi in ordine di tempo sui quali si impone una riflessione. Tanto più urgente dal momento in cui sembra trattarsi di fenomeni nei quali si può parlare di atteggiamenti maturati in seno a famiglie consapevoli e complici. Famiglie che hanno dissoluto il loro ruolo educativo delegandolo al branco, alla televisione, a internet. Libri e quaderni contro playstation e televisione,  il tempo lento della riflessione sulla parola scritta contro la velocità dell’immagine. E la cultura, un tempo sogno e illusione, desiderio e speranza,  oggi appare sempre più lontana, tanto lontana quanto la memoria della storia del nostro Paese. Possiamo ancora salvarci? Quale cultura oggi può ridarci la dignità costruita con la nostra Resistenza antifascista? Dove possiamo trovare l’antidoto alla violenza e le basi di una vera cultura della pace e del rispetto dell’essere umano? Esiste una cultura della pace e del rispetto, della dignità e della partecipazione ed esiste una cultura dell’esclusione, della prevaricazione e della sopraffazione. Senza voler a tutti i costi colorare di rosso o di nero l’una o l’altra, non possiamo dimenticare quello che hanno rappresentato gli anni del fascismo e del nazismo per l’Italia e per l’Europa. La semplificazione che si sta facendo attualmente di quanto accaduto allora, i tentativi di ridare ai crimini e agli orrori commessi nel nome di certe ideologie un se pur minimo margine di accettabilità,  rende striscianti e quindi ancora più pericolosi,  atteggiamenti e valori che sono lontani dai concetti sui quali si basa il vivere civile e che sono bene espressi nella nostra Costituzione.
“Non più una cultura che consoli nelle sofferenze, ma una cultura che protegga dalle sofferenze, che le combatta e le elimini”.
Così scriveva  Elio Vittorini nel suo editoriale nel settembre del 1945 sul primo numero de Il Politecnico.
La seconda guerra mondiale si era appena conclusa e gli Stati Uniti avevano soltanto da un mese raso al suolo Hiroshima e Nagasaki con le prime bombe nucleari utilizzate a scopo bellico.
La guerra terminava con un saldo terribile, circa 70 milioni di morti, sparsi da occidente a oriente, ma quello che probabilmente spaventava ancor di più e per cui legittimamente Vittorini si chiedeva “di chi fosse la sconfitta più grave” in tutto quello che era appena accaduto, era il fatto che la guerra aveva spersonalizzato la morte.
Il maggiore Thomas Ferebee, bombardiere del B-29 che sganciò The Little Boy su Hiroshima, solo pochi minuti prima di lanciare la bomba seppe che quella era stata la cittadina prescelta in base alle favorevoli condizioni ambientali, diversamente, analoga sorte sarebbe costata a Kokura, Niigata o Nagasaki.
Il tempo di premere un pulsante e Hiroshima fu distrutta. L’equipaggio dell’Enola Gay ebbe solo un brevissimo secondo per rendersi conto della tragedia che si era appena conclusa. “My God!” esclamarono prima di volare via, il più lontano possibile da quel luogo, il resto furono solo vittime senza volto e sofferenze indicibili per i pochissimi superstiti che ebbero la disgrazia di sopravvivere.
A differenza di quanto avveniva in passato “la tecnologia rendeva invisibili le sue vittime, mentre ciò non accadeva quando si sventravano i nemici con la baionetta o li si inquadrava nel mirino del fucile[1].
I morti, si lamentava Vittorini, furono “più di bambini che di soldati”, le macerie di “città che avevano venticinque secoli di vita; di case e di biblioteche, di monumenti, di cattedrali”.
Il nazifascismo prima e la guerra poi, avevano commesso tutto   il repertorio completo dei delitti e dei crimini che la cultura e l’intelletto avevano insegnato ad aborrire.
Come è stato possibile? Come è stato possibile che da secoli di arte, poesia, letteratura, pensiero nobile, sia nato un mostro in grado di mettere in pratica tutto ciò che l’animo umano aveva condannato fino a quel momento?
La cultura “ha predicato, ha insegnato, ha elaborato principi e valori, ha scoperto continenti e costruito macchine, ma non si è identificata con la società, non ha governato con la società, non ha condotto eserciti per la società “ ha consolato l’uomo invece di proteggerlo, di educarlo e di renderlo forte. In questo stare fuori dalla società intravedeva Vittorini la causa del male.
La cultura, sperava Vittorini alla fine della guerra, avrebbe dovuto apportare principi “tempestivamente rinnovatori ed efficacemente attuali, viventi con la società stessa come la società stessa vive”, per sanare il dolore ancora vivo delle ferite, per preservare da sofferenze a venire.
Cosa potrebbe fare invece per noi oggi la cultura? Da quali sofferenze moderne può ancora proteggerci?
Ed esistono ancora principi tanto innovatori ed attuali in grado di   proteggerci dai mostri a venire?
Riusciremo a restituire alla cultura il suo ruolo taumaturgico?
E’ sopravvissuta la specie umana a quanto di più terribile e atroce si sia mai potuto immaginare, ma quanto è avvenuto, iniziando dalle due guerre fino a Hiroshima e Nagasaki, passando attraverso l’Olocausto, in realtà ha immunizzato l’uomo da quello che sarebbe avvenuto in seguito.
Le torture subite e testimoniate dalle foto terribili che noi tutti conosciamo degli ebrei ad Auschwitz, a Bergen-Belsen, a Dachau, i macabri reperti del “museo degli orrori” di Hiroshima, ci stavano così preparando a guerre future, alla tolleranza delle torture moderne, la “democratizzazione” dei conflitti era iniziata e non si sarebbe più potuto tornare indietro.
L’umanità frequentò un corso accelerato di sopportazione delle atrocità. Da allora la tortura, le atrocità commesse dall’uomo sull’uomo sono diventate esperienze via via più accettabili.
La guerra oggi è vista in televisione ogni giorno, viene letta, studiata, fotografata, trasformata in cifre. Tanto più entra nelle nostre case e tanto più esce dalle nostre coscienze.
Ha fallito anche Primo Levi, quando esortava a “ricordare perchè non accada mai più”. Va tramadato “l’orrore perchè lo spettro della violenza dell’uomo sull’uomo sia sempre combattuto”, diceva.
La letteratura, la poesia, ci hanno provato a tramandare l’orrore e hanno fallito se oggi simili orrori si ripetono, se altrettante guerre mietono vittime che non hanno nomi, sesso, età. I torturati di oggi, a differenza di quanto accadeva in passato non hanno nemmeno i volti. Adolescenti impazziti giocano con i mostri del passato.
Dal passato dal quale con  fatica, è riuscita a risorgere  l’Europa dalle ceneri della guerra, ed è rinata l’Italia, che con orgoglio e speranza, gettandosi alle spalle la paura e l’angoscia degli anni del fascismo, si è dedicata alla costruzione della democrazia. E l’ha costruita questa democrazia, con l’impegno di uomini e donne coraggiosi e nobili.
E che ne è stato della cultura? L’abbiamo dimenticata. L’abbiamo dimenticata se oggi tolleriamo il ritorno di certi simboli e certe rievocazioni nostalgiche che con forza e vigore, con rabbia e sdegno dovrebbero essere aborrite.
Abbiamo dimenticato semplicemente che il compito della cultura è quello di continuare a tramandare ciò da cui ha avuto origine il nostro paese, quello di insegnare ai nostri figli quali sono i pilastri portanti della nostra identità di Nazione.
Abbiamo dimenticato la funzione della cultura, che è quella di denunciare violenza e sopraffazione e dopo la denuncia passare e accarezzare.
La poesia, vibrante e vitale, oggi inesistente e irraggiungibile, l’ abbiamo chiusa nei salotti, l’abbiamo tenuta lontana dalle strade e dalle piazze. Il teatro sempre più identificato con la televisione, il romanzo sempre più prodotto “mordi e fuggi”. Internet e la rete, prodotti sostitutivi fatti di parole e definizioni, di  storie e poesie che  scivolano in rete, viaggiano nei file, lasciando dietro di sè, in solitudine,  l’effimero e impalpabile attimo in cui puoi solo coglierne il significato immanente.
Una cultura usa e getta che non si fissa alla società, una cultura effimera che non educa alla memoria e non prepara quindi al futuro. L’uomo massa che siamo diventati non volge lo sguardo indietro e non immagina il futuro, ma così facendo prepara il ritorno del più buio passato.
 



[1] Il secolo breve E.J. Hobsbawm BUR pag. 67

 

 

 

 

 

 


L’amarezza del voto utile. E il desiderio di partecipare

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E’ inevitabile e doveroso  oggi, all’indomani del risultato elettorale, interrogarsi sul proprio ruolo, sul proprio posto nella società, su quello che ad essa si chiede e su ciò che si è disposti a dare.
Lo faccio e mi trovo più confusa che mai. Ma non è confusione data da incertezza,  per carità . E’ solitudine. Quel guardarsi intorno e rendersi conto che nessuno ha da offrirti,  o è nelle condizioni di poterlo fare,  quello che tu chiedi e a nessuno ti senti più di concedere le tue energie, le tue risorse.
Sono questi i miei sentimenti oggi. E’ questo che mi ha lasciato  il “voto utile”. Mi ha lasciato una grande amarezza aver votato solo per non far tornare Berlusconi. Un voto sterile, senza entusiasmo, senza crederci, un voto senza bandiera. che alla fine si è dimostrato anche un voto inutile.
Un voto che oggi lascia un senso di solitudine. Perchè io nel PD non ci credo e non ci ho mai creduto. Perchè per me la sinistra ha il colore rosso del fuoco vivo e non le tinte sbiadite dai ripetuti lavaggi dei compromessi. Perchè per ‚me la guerra è sempre stata senza se e senza ma; perchè io gli americani non ce li voglio, nè a Sigonella, ma nemmeno a Vicenza;  perchè ho combattuto una volta per il nucleare e non ho intenzione che quel referendum,  al quale nel mio piccolo ho lavorato, venga  rimesso in discussione;  perchè per me l’aborto è un diritto della donna e non posso credere che la “mia” sinistra possa pensare di  governare un paese insieme a  chi nel nome di Dio o di un cristo qualsiasi vada in giro a criminalizzare chi decida di usufruire di una legge che già troppe battaglie è costata.
Mi sento senza una casa, ecco.  Ma è un viaggio senza meta iniziato da molto tempo e non so fino a che punto questo coincide, come spesso mi sento dire,  con la maturità, con gli innumerevoli impegni, con i figli e i problemi quotidiani di ogni giorno che a volte ti tolgono anche  la forza di pensare e di immaginare un futuro migliore.
Ti ritrovi a coltivare il tuo orticello, è vero, molto spesso, anzi quasi  sempre da  sola, vivi giorno dopo giorno avendo perso l’entusiasmo della giovinezza, quando era bello scendere per strada con una bandiera in mano e crederci veramente.
La gioventù e la politica, quando  lottare per qualcosa  aveva senso. Da grande ti ritrovi a lottare per sopravvivere.Foto di Tano D'Amico
Volgi poi  lo sguardo lontano e ti accorgi che è più facile lottare per la  Colombia o per il   Messico che non per i morti della Thyssenkrupp. Partecipi con loro, con gli amici colombiani, messicani,  alle loro battaglie, alle marce, perchè lì ha ancora senso.
Loro hanno bisogno che il mondo sappia, loro lottano di là e tu di qua, facendo informazione,  per aiutarli, perchè muoiono da troppi anni.
Per loro ti senti utile.
In Italia è difficile sentirsi utili. Non serve esserlo, non serve a nessuno.
Mi interrogo in questi giorni chiedendomi cosa si può fare ancora  per questo paese, cosa che non sia stato già fatto o sia stato già detto.
Cosa voglio io e cosa vogliono i miei compagni?
Quelli persi  per strada, quelli imborghesiti, quelli incazzati, quelli amareggiati e delusi, quelli morti e quelli vivi ma soli.
Vogliono, vogliamo poter tornare a fare politica come una volta. Che scendere per strada non sia un conteggio di presenze o una giostra di recriminazioni. Vogliamo la politica nei quartieri  e nelle scuole. Politica nei bar e nelle sezioni di partito.
Politica vissuta e partecipata. Politica sentita e non fuggita. Politica di strada, di quartiere e non di palazzo.
Vogliamo che la politica, la nostra politica, quella per cui abbiamo lottato e sofferto, forse l’unica che conosciamo, quella “ideologizzata” che fa tanto paura, a destra come anche a sinistra,   torni nelle nostre vite forse perchè siamo stanchi di esserne spettatori passivi.
Da domani vogliamo anche  partecipare.
 

 

 


Sii sempre capace di sentire nel più profondo del cuore qualunque ingiustizia commessa contro chiunque in qualunque parte del mondo.…

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Enrico Ingrassia, 57 anni; suo figlio William Ingrassia di 33 anni; il genero di Ingrassia, Gaetano Belfiore, di 25 anni.
I primi due della provincia di Campobasso, l’altro di Lucera, Foggia.
E’ bene che questi nomi circolino, che si conoscano, che la gente, quanta più gente possibile, sappia quello che questi tre italianissimi animali facevano.
Enrico Ingrassia era titolare di un circo, il circo “Marino”, dove si svolgevano spettacoli al limite dell’orrore.
I tre sono finiti in carcere alla fine di marzo,in quanto,  con la complicità della moglie di Gaetano Belfiore (la giovane figlia di Enrico Ingrassia) e di due cittadini bulgari che sono stati denunciati a piede libero, tenevano in schiavitù una famiglia bulgara in condizioni disumane. Una famiglia , giunta clandestinamente in Italia e finita a lavorare nel circo “Marino”, composta da due ragazze e i loro genitori.
Due ragazze di 16 e 19 anni costrette a restare immobili mentre gli  venivano rovesciati addosso serpenti vivi e ogni genere di animali ripugnanti, oppure  costrette a restare immerse nell’acqua gelida di una vasca circondate da piranha,  resi per fortuna inoffensivi dalla bassa temperatura dell’acqua.
Al capo famiglia, ferito ad un piede gli erano state negate le cure mediche necessarie. Alla ragazza di 19 anni un dottore le aveva vietato i bagni in acqua fredda dopo aver subito due interventi chirurgici  per un tumore all’apparato uditivo.
L’intera famiglia dormiva e viveva in condizioni disumane in un cassone di un camion infestato da scarafaggi.
Uno spettatore del circo, un giorno, indignato dalle torture psicofisiche inflitte alle due ragazze, alle quali aveva  assistito durante lo spettacolo,  si è recato ai carabinieri denunciando quanto accadeva.
Vorrei ringraziarlo. Sull’articolo di Repubblica non è riportato il nome, chissà perchè conosciamo sempre i nomi dei cattivi e i buoni restano sempre  senza volto. Ma se affinassimo più spesso la nostra sensibilità, ogni giorno,  per strada, al lavoro o dovunque, se riuscissimo a cogliere sempre il dolore e la sofferenza degli altri,  se riuscissimo a camminare più lentamente  tra la gente con il cuore aperto e guardandola negli occhi, quanto sarebbe più facile la solidarietà e quanti drammi umani e sociali troverebbero fine. Dalla moglie pestata di botte nel silenzio dei vicini, ai piccoli problemi che i nostri figli spesso per paura ci nascondono, alle grandi tragedie, alle violenze nascoste…
Quante persone hanno assistito a quegli spettacoli e ignari o peggio,  indifferenti  a  quanto accadeva sono tornati alle loro vite? Ciechi e sordi, soli con il mondo, completamente inutili.
 

Caro Bruno Vespa…

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Marco Carmisani Calzolari  autore di questo post, ed altri illustri blogger   hanno  inviato una lettera a Bruno Vespa protestando per la sua trasmissione del 21 febbraio scorso nella quale i blog e internet in generale venivano dipinti come un ricettacolo di delinquenza e prostituzione, con tanto di parere della sessuologa …
La lettera si può leggere qui.

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