funerale di un militante di Hamas
Lorenzo Cremonesi, l’inviato del Corriere della Sera a Gaza, è riuscito magistralmente a mettere d’accordo israeliani e palestinesi.
Gli è bastato aver dato i numeri sulle cifre delle vittime dell’attacco di Israele nella Striscia di Gaza.
Nel suo “reportage” scrive di non più di 500/600 vittime contro le oltre 1300 registrate da fonti diverse.
Jaber Wishah direttore del PCHR, Centro palestinese per i diritti umani ha definito l’articolo di Cremonesi “ridicolo” nel corso di una intervista telefonica con il Jerusalem Post. “E’ completamente sbagliato” ha detto Wishah, la cui organizzazione si sta facendo carico di contare i morti e i feriti palestinesi.
Anche l’esercito israeliano conferma la cifra di 1300 vittime delle quali la maggior parte sarebbero militanti di Hamas. E forse lo fa proprio per questo dal momento che fonti riservate della Difesa riservate rivelano che su una lista dettagliata di 900 persone circa 750 sarebbero combattenti appartenenti al gruppo armato.
Da giorni infatti i leader di Hamas in alcune interviste stanno rilasciando dichiarazioni secondo le quali le loro perdite non supererebbero le 40/60 unità.
Sta prendendo sempre più piede in questi giorni in Italia la campagna di boicottaggio dei prodotti israeliani che anche da questo sito è attivamente appoggiata e promossa.
Non stupisce pertanto il fatto che i fascisti, come già avvenuto in passato in altre occasioni, si pongano al servizio dei poteri forti e delle potenze imperialiste cercando di inquinarla, confondendola con azioni razziste e antisemite con il solo scopo di creare confusione e gettare discredito su questo movimento spontaneo e pacifista che sta prendendo sempre più piede e che si avvale dell’entusiasmo e dalla voglia di partecipazione di migliaia di giovani desiderosi di contribuire in prima persona al raggiungimento della pace e della dignità del popolo palestinese.
Il boicottaggio dei prodotti provenienti da Israele che si sta cercando di portare avanti anche coinvolgendo i sindacati presenti nelle grandi aziende di distribuzione commerciale o nei porti, pratica pacifista e non violenta che in passato ha sancito la fine del regime dell’apartheid in Sud Africa, nulla ha a che vedere con l’azione fascista e chiaramente antisemita del boicottaggio dei negozi della comunità ebraica romana e con azioni criminali e chiaramente razziste contro di essa che condanniamo fermamente.
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Da più parti si propone di organizzare un boicottaggio dei prodotti provenienti da Israele. Si tratta di iniziative promosse da numerosi movimenti pacifisti al fine di sollecitare il governo di Israele verso un percorso di autentica e giusta pace nei confronti della popolazione palestinese.
Queste proposte si sono intensificate dopo la tremenda ggressione dei giorni scorsi dell’esercito israeliano a Gaza che ha ucciso oltre mille palestinesi di cui circa 400 bambini, distruggendo territorio, case e infrastrutture e riducendo alla fame la popolazione.
Molte autorevoli personalità pacifiste si sono fatte promotrici di tali iniziative(una per tutti Naomi Klein), molti siti internet hanno raccolto e rilanciato questo invito al boicottaggio, moltissime donne e uomini si stanno organizzando per poter esprimere con questa azione concreta la loro umanità , anche perchè i governi dell’intero mondo, con rarissime eccezioni, fiancheggiano, anche stavolta, i massacri dello stato colonialista di Israele.
IL PUNTO E’ CHE UN BOICOTTAGGIO NON SI REALIZZA SPONTANEAMENTE MA VA ORGANIZZATO!!!
E’ un’organizzazione che deve crescere dal basso e alla quale tutte e tutti possono partecipare.
L’esperienza che prendiamo come insegnamento e riferimento è il grande e partecipato boicottaggio verso l’apartheid del Sud Africa
negli anni ’60 e ’70 che piegò quel regime razzista imponendogli di trattare con l’African National Congress il passaggio ad una democrazia formale. Così come avvenne anche per il boicottaggio verso le aziende che partecipavano all’aggressione statunitense alla popolazione vietnamita.
1)La prima cosa da fare è mettere in movimento tutte le rappresentanze sindacali dei posti di lavoro che si dimostrino sensibili a una iniziativa pacifista e umanitaria come il boicottaggio verso uno stato aggressore. Le rappresentanze sindacali dovranno attivarsi nell’ individuare se l’azienda in cui lavorano ha rapporti commerciali con aziende israeliane o acquista componenti
provenienti da Israele.
Successivamente con assemblee e azioni
sindacali dovranno convincere la direzione aziendale a
interrompere tali rapporti commerciali.
Le aziende più adatte a questo fine sono le catene della grande distribuzione (Coop, Conad, Gs, Panorama, Sma,
Todis ecc., insomma supermercati, ipermercati, centri commerciali e distributori vari).
Sono da prendere in considerazione anche le aziende che producono articoli tecnologici di ogni genere, poichè utilizzano componentistica che proviene da aziende israeliane.
E soprattutto i lavoratori dei porti, degli interporti, degli scali ferroviari e degli aeroporti. Noi tutti ricordiamo
il meraviglioso impegno profuso dai portuali di Rotterdam, Liverpool, Genova, e tanti altri nel far marcire nelle stive delle navi le merci provenienti dal Sud Africa razzista e piegare così il presidente Frederik Willem de Klerk ad avviare colloqui di pace con Nelson Mandela (possiamo affermare che i portuali organizzati dei porti europei, per aver contribuito più di altri alla pace giusta e contro la barbarie, avrebbero dovuto meritare nel ‘900 un premio Nobel per la Pace).
2)Seconda cosa da fare è organizzarsi in gruppi di quattro, cinque o
anche più e recarsi davanti ai supermercati, soprattutto il sabato che è giornata di grandi acquisti e informare, parlare, comunicare con i potenziali clienti della necessità di un acquisto consapevole che non armi le mani infanticide dei militari israeliani.
3) Fare pressioni perchè gli amministratori locali più sensibili dichiarino pubblicamente la loro adesione al boicottaggio e sostengano attivamente le relative iniziative nel territorio di loro competenza.
4)Si invitano studenti e docenti, presidi e rettori ad aderire a tale boicottaggio nel campo della ricerca e degli scambi culturali e scientifici.
Link e siti di riferimento:
1)Global BDS Movement (http://bdsmovement.net/)
2)Boycott Israel (http://www.mylinkspage.com/israel.html)
Deportazioni in massa e minacce di bombardamenti per i pirati della Somalia.
di Antonio Mazzeo
La flotta aeronavale USA attivata a largo delle coste della Somalia, attende nelle prossime ore l’autorizzazione per avviare la caccia ai pirati e, eseguita la cattura, garantire la loro deportazione in un paese africano top secret. Lo ha dichiarato in un incontro con i giornalisti, il vice ammiraglio William E. Gortney, comandante dell’US Naval Forces Central Command, il Comando Centrale delle Forze Navali da cui dipende la task force internazionale –Combinated Task Force 151 – che pattuglia una vasta aerea geografica compresa tra il Golfo di Aden, il Mar Rosso e l’Oceano Indiano. “Stiamo lavorando a stretto contatto con il Dipartimento di Stato – ha esordito Gortney — per portare a termine un accordo con una delle nazioni dell’area che permetterà alla CTF 151 e alle forze della coalizione di spezzare, impaurire, catturare e detenere le persone sospettate di essere responsabili di atti di pirateria. Stiamo negoziando tutti i dettagli per decidere come prenderli, dove imprigionarli, quale corte li dovrà giudicare e dove verranno detenuti nel caso in cui saranno dichiarati colpevoli”.
Una o più Guantanamo starebbero dunque per sorgere nel continente africano (tra le candidate più accreditate ad ospitarle Gibuti, Kenya e Tanzania), ma lo scenario che l’amministrazione USA delinea per la Somalia potrebbe essere ancora più tragico. Il viceammiraglio William E. Gortney non ha escluso infatti la possibilità di utilizzare aerei e unità navali per bombardare le presunte postazioni terrestri dei “pirati”. “Se assisteremo ad un assalto”, ha dichiarato, “abbiamo tutto il potere che desideriamo per inseguirli, aprire il fuoco letale e prenderli sotto la nostra custodia”.
Nel dare priorità a quella che è ormai una guerra a tutti gli effetti, l’amministrazione statunitense ha affidato la pianificazione e la direzione delle operazioni della Combinated Task Force 151 all’US Central Command (CENTCOM), il Comando centrale unificato delle forze armate USA con sede nella base aerea MacDill di Tampa, Florida, relegando così in un secondo piano il nuovo Comando per le operazioni Usa in Africa, Africom.
Alla CTF 151 hanno già aderito le marine militari di una ventina di paesi partner degli Stati Uniti. Si tratta di una versione ancora più aggressiva della Task Force 150 attivata nella regione del Golfo Persico nel 2001 dal Comando della 5^ Flotta USA. “Le operazioni della CTF 150 includevano la deterrenza di attività destabilizzanti, come il traffico di droga ed armi”, ha spiegato l’ammiraglio Terry McKnight, comandante della CTF 151. “Con la creazione della Combinated Task Force 151, si darà enfasi alle attività anti-pirateria, mentre la CTF-150 continuerà nei suoi compiti. Le nazioni che non hanno esperienza continueranno ad operare con la CTF-150, mentre le altre offriranno le loro capacità contro I criminali coinvolti in atti in pirateria. Dimostreremo che la Marina degli Stati Uniti non ammette atti criminali nei mari e che vogliamo, come possiamo, garantire accordi commerciali aperti in qualsiasi parte del mondo”.
L’ammiraglio McKnigt ha spiegato che gli Stati Uniti hanno avviato nell’agosto 2008 (due mesi prima, cioè, dall’approvazione delle Nazioni Unite delle risoluzioni che hanno legittimato l’intervento militare in Somalia), un piano d’azione in tre fasi per potenziare le capacità di risposta delle marine militari e delle grandi compagnie di navigazione private contro i tentativi di abbordaggio. “Abbiamo già ottenuto notevoli successi con le prime due tappe del processo e adesso 14 nazioni cooperano con noi”, ha aggiunto il Comandante della CTF-151. “L’industria navale sta avendo un grande impatto. Sta facendo un ottimo lavoro di condivisione per migliorare e velocizzare le misure difensive e prevenire l’abbordaggio sulle proprie navi. Adesso è giunta l’ora di prendere i pirati”.
Ammiraglia della Combinated Task Force 151 è la nave anfibia “USS San Antonio” (LPD-17), in cui sono imbarcati un plotone del 26th Marine Expeditionary Unit del Corpo dei Marines, un distaccamento della polizia militare e personale della Guardia Coste e dei servizi d’intelligence. Nella “San Antonio” sono stati trasferiti dalla portaerei USS Theodore Roosvelt, tre elicotteri HH-60H “Seahawk” per la guerra navale e antisottomarina e un team di specialisti per il pronto intervento e la cura sanitaria di feriti.
In sintonia con le unità della forza multinazionale a guida USA opera la flotta navale dell’Unione Europea EU NAVFOR. Nei giorni scorsi il comandante greco Antonios Papaioannou è stato a bordo della nave ammiraglia statunitense per un summit con l’ammiraglio Terry McKnight. “L’Unione Europea ha ufficiali di collegamento con il mio staff e ci stiamo coordinando a tutti i livelli”, ha dichiarato il comandante della CTF-151. “Stiamo inoltre cooperando con le marine di Gran Bretagna, Pakistan ed Australia. L’Arabia Saudita partecipa con noi nell’organizzazione di questo impegno anti-pirateria. Stiamo equipaggiando ed addestrando gli Emirati Arabi Uniti perché inviino navi ad operare con o dentro la CTF-151. Ci sono poi paesi che si sono attivati autonomamente come Cina e Russia. Gli Stati Uniti stanno comunicando con la Cina attraverso e-mail in codice e con le unità russe grazie ad un ponte radio diretto”.
Il Dipartimento di Stato sigilla la sua egemonia nella pianificazione delle strategie d’intervento politico-militare assumendo la presidenza del Gruppo di Contatto sulla Pirateria (GCP), costituito a New York la scorsa settimana da 24 nazioni (tra cui l’Italia) e 5 organizzazioni internazionali (Segretariato dell’ONU, International Maritime Organization, NATO, Unione Africana e Unione Europea). Anche in questo caso gli obiettivi del Gruppo di Contatto sono prevalentemente di tipo militare, ma non mancano le aspirazioni a sviluppare nuovi meccanismi giuridici per contrastare i tentativi di assalti nelle acque somale.
Il GCP ha formalizzato la costituzione di quattro gruppi di lavoro. il primo è destinato al coordinamento militare, allo scambio d’informazioni e all’istituzione di un centro regionale di comando, e sarà convocato da Gran Bretagna e dall’International Maritime Organization. Il secondo gruppo, coordinato dalla Danimarca, sarà indirizzato all’approfondimento degli aspetti giuridici della pirateria e sarà supportato da UNODC, l’Ufficio delle Nazioni Unite contro le Droghe ed il Crimine diretto dall’italiano Antonio Maria Costa. Agli Stati Uniti toccherà la guida del terzo gruppo, quello per il “rafforzamento auto-difensivo delle compagnie di navigazione”. Il quarto gruppo di lavoro, coordinato dall’Egitto, s’interesserà invece agli “aspetti diplomatici e di pubblica informazione su tutti gli aspetti della pirateria”.
Al Gruppo di Contatto, oltre ai paesi sopracitati, partecipano l’esautorato Governo di Transizione Nazionale della Somalia, Arabia Saudita, Australia, Cina, Corea del Sud, Emirati Arabi Uniti, Francia, Germania, Giappone, Gibuti, Grecia, India, Kenya, Olanda, Oman, Russia, Spagna, Turchia e Yemen. Il Dipartimento di Stato ha inoltre invitato a farne parte Belgio, Norvegia, Portogallo, Svezia e Lega Araba.
Stampa e diffondi più che puoi questo volantino, davanti ai supermercati, ai centri commerciali, per strada, davanti alle scuole…
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BOICOTTA ISRAELE
Quali prodotti bisogna boicottare?
Non è sempre facile per i consumatori riconoscere i prodotti israeliani. Per i prodotti freschi, la frutta, i legumi e le spezie è possibile. Per contro, tutto si complica per i prodotti trasformati che non portano necessariamente traccia della loro origine. Il codice a barre su un prodotto può essere un indizio. I prodotti che sono imballati ed etichettati in Israele hanno un codice a barre israeliano che inizia con 729. Ma alcuni prodotti israeliani sono imballati in Belgio o in Francia (o in altri Paesi, n.d.t.) dalle grandi catene di distribuzione con un codice a barre nazionale.
Carmel
Legumi, frutta (avocados, pompelmi… ), vini, cognac, liquori, succhi di frutta, fiori.
La compagnia di esportazione di prodotti agricoli AGREXCO, oggi uno dei più grossi gruppi di esportazione di prodotti agricoli nel mondo. AGREXCO una società gestita dal Ministero dell’Agricoltura israeliano e dalle aziende agricole in ragione del 50% ciascuno.
Nestlè
Ditta svizzera che possiede il 50.1% del capitale della fabbrica alimentare israeliana Osem. Nel dicembre 2000 ha annunciato ulteriori investimenti in Israele per milioni di dollari.
Prodotti ed aziende affiliate: Nescafè, Nesquik, Terrier, Maggi, Buitoni, Milkbar, KitKat.
L’Oreal
Ha stabilito Israele come suo centro commerciale nel Medio Oriente ed ha aumentato gli investimenti e leattività produttive, che vanno da una nuova linea di produzione a Migdal Haemek, ai progetti di ricerca e sviluppo congiunti con gli Israeliani, operando anche nel campo dell’educazione e delle campagne di servizio pubbliche.
Prodotti ed aziende affiliate: Lacome, Giorgio Armani, Vichy Cacharel, La Roche-Posay, Garnier, Biotherm, Melena Rubinstein, Ralph Lauren Perfumes.
Coca-Cola
Nel 1997 il Governo di Israele ha reso omaggio alla Coca-Cola per il suo sostegno continuo ad Israele negli ultimi 30 anni e per il suo rifiuto di aderire al boicottaggio della Lega Araba contro Israele (diversamente dalla Pepsi Cola, che si era conformata al boicottaggio e che solo nel 1992 ha iniziato a commerciare in Israele).
una conferenza della nota sionista Linda Gradstein, corrispondente all’Università di Minnesota.
E’ stato annunciato recentemente che la Coca-Cola, grazie agli incentivi del governo israeliano, costruirà un nuovo impianto sulla terra palestinese rubata a Kiryat Gat.
Prodotti ed aziende affiliate: Fanta, Sprite, Schweppes.
Tutti gli altri marchi coinvolti:
Estèe Lauder (cosmetici), Timberland, Delta Galin, Marks&Spencer, Victoria’s Secret, GAP, Banana Republic, Structure, J-Crew, J.C.Penny, Pryca, Lindex, DIM, Donna Karan/DKNY, Playtex, Calvin Klein, Hugo Boss (abbigliamento),
McDonald’s (catene alimentari), Nokia (telefonia), Sara Lee, Playtex, Dim, Ambi Pur, Bali, Kiwi, Lovable, Wonderbra, Sanex (intimo), Bassetti (tessile), Jaffa (prodotti agricoli) Qualità Sreet, Smarties, After Eight, Lion, Aero, Polo, Danone (alimenti), Caterpillar/CAT (mezzi agricoli e abbigliamento).
Aziende italiane che investono in Israele:
Generali (assicurazioni e finanza), Telecom, Tim, Tiscali, Luxottica, Unicredito, Alenia, Fiat, ENI.
Catene di distribuzione commerciale:
Auchan, Carrefour, LaRinascente, Panorama
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Fotografia di Melandri Annalisa
Fotografia di Annalisa Melandri
Le verità di Gaza.
Abraham Yehoushua, io la disprezzo.
Una cosa è chiara.
Israele, i suoi governanti e la gran parte del suo popolo non vogliono la pace. Per la preponderanza bellica, per gli appoggi internazionali, perché le guerre come l’attuale (accettando che possa chiamarsi così il massacro di questi giorni) gli comportano un centesimo delle vittime rispetto al nemico. Israele, i suoi governanti e la gran parte del suo popolo non vogliono la pace per il fanatismo cresciuto con il compiacimento o la tolleranza della gran parte dell’intellettualità locale e internazionale.
Ma c’è una ragione in più.
Come una parte dei palestinesi e degli arabi coltivano l’utopia di riprendersi la Palestina, buttando a mare gli israeliani, la gran parte degli israeliani coltiva il progetto (qualcosa più di un’utopia) di formare la grande Israele, Eretz Israel, cacciando ancora più palestinesi dalla loro terra e mantenendone la parte utile nel ruolo dei servi. La proclamazione del sogno dei primi suscita condanna e biasimo internazionali, l’attuazione del progetto dei secondi è accompagnato da accondiscendenza e comprensione internazionali.
Da qui la formulazione, volutamente inaccettabile, di “due popoli, due stati” che, secondo i progressisti israeliani (gli altri non ne vogliono nemmeno sentir parlare) sarebbe uno stato fortissimo, capace di vincere qualunque guerra, e dall’altro una serie di bantustan, stile sud Africa, oltre al campo di concentramento di Gaza, senza continuità territoriale, espropriato dell’acqua, senza esercito, senza controllo dei confini… Insomma, una pagliacciata che tutti fanno più o meno a gara a non vedere. Altrochè “confini del 1967”, Gerusalemme capitale condivisa, ritorno dei profughi, come sostengono le leggi internazionali, come vorrebbe un minimo di giustizia.
No, Israele non si accontenta.
Da qui la necessità di alimentare la rabbia e disperazione della popolazione palestinese e di rafforzare comunque e sempre la sua componente più radicale. Hamas è figlia di questa strategia. Vent’anni fa, ai tempi della prima Intifada, occorreva creare un contrappeso all’Olp di Arafat, che dopo essere stato costretto all’arma del terrorismo si era guadagnato una considerazione internazionale. Israele aveva bisogno di un nemico fondamentalista fatto a sua immagine e somiglianza, un nemico da spingere, sfidare e poi, naturalmente, vincere sul terreno preferito, la guerra. I soldi dell’Europa e in misura minore degli Usa hanno fatto il resto, trasformando l’entourage di Arafat –soprattutto dopo la sua morte – in una banda di corrotti. “Divide et impera” attuato vedendo bene di togliere di mezzo quei pochi elementi, insieme laici e radicali, e soprattutto onesti, capaci di negoziare e combattere, come Marwan Barghouti, incarcerato e condannato a cinque ergastoli.
E Israele continua ad alimentare Hamas. Anche adesso, mentre pare che lo voglia distruggere.
Con le ossa rotte, con molti martiri, con i già poveri arsenali bellici distrutti, Hamas ne uscirà rafforzato, come sono usciti rafforzati gli Hezbollah dalla guerra in Libano (quella si che pur asimmetrica sembrava più una guerra che un massacro). Mentre chi ne esce distrutto è Al Fatah che ha scelto Israele al suo popolo massacrato, decidendo di caricare brutalmente, come Israele e il peggiore dei regimi arabi, chi manifestava a Nablus, a Hebron o Ramallah contro il massacro, decidendo di mantenere in carcere i militanti di Hamas e associandosi alla condanna internazionale di Hamas come terrorista.
I palestinesi massacrati e divisi: perfetto. Israele gioisce perché può o potrà ancora di più dire al mondo che con Hamas non può negoziare perché terrorista e con l’Anp e Al Fatah nemmeno perché non rappresentativi.
E avanti così, dritto verso il progetto della Eretz Israel, tra bagni di sangue e ettolitri di ipocrisia sul pericolo dell’antisemitismo, creato ad arte in un terreno reso fertile dalla barbarie israeliana.
Hamas e Anp… e noi? A manifestare e a dividerci, tra chi… e chi… tra quelli di Assisi che ripetono parole d’ordine alle quali penso che non credano più nemmeno loro e quelli di Roma, dove sarei andato sapendo che non basta. Che occorre fare di più. Soprattutto denunciare, come se fossimo là, il sionismo fascista, i suoi progetti, i suoi amici e protettori, i suoi interessi, la sua strategia intelligente, ma anche evidente, quasi banale, a chi abbia memoria e onestà nel guardare. L’Intifada va portata nel mondo, con le modalità corrispondenti ad ogni situazione fino a costringere Israele ad accettare di essere uno stato normale, senza il diritto di commettere qualunque barbarie e ovunque. Fino a dare forza a quella minoranza coraggiosa di pacifisti, di militari che si rifiutano di partecipare al massacro, che sono bollati come traditori dai più. Con le “buone” non lo capiscono. Lo devono capire con “le cattive”. Se il debolissimo apparato militare di Hamas avesse causato non una decina di morti, ma centinaia di morti tra i fusti della Tsahal, in Israele non ci sarebbe il 78% di fan del massacro (la rivolta di Berkeley non è nata per compassione dei piccoli viet…).
Le “cattive” per noi sono il boicottaggio economico (come anche proposto da Naomi Klein) e l’isolamento intellettuale e culturale (come anche proposto da Ken Loach): Abraham Yehoushua avrebbe scritto, secondo quanto riportato da Vittorio Arrigoni sul Manifesto, che “uccidiamo i loro bambini oggi per salvarne tanti domani”. In realtà il pensiero non è così brutale, ma, più o meno, “Combattere Hamas non è possibile senza colpire i civili, bambini compresi. Un prezzo inevitabile per garantirci il futuro e salvare altri bambini domani”. Cinico, ma soprattutto disonesto Abraham Yehoushua, che non può non sapere che Hamas, e con Hamas l’odio, la violenza, il sogno di buttare a mare gli israeliani, non farà altro che crescere. Giustamente e logicamente: forse noi ameremmo di più il nostro carnefice, super armato e super protetto e super giustificato dal mondo che conta? O ci sottometteremo di più a lui per salvare cosa?: la vita di merda e disperata, che facciamo nei campi profughi, patendo la fame e le umiliazioni quotidiane?
Yehoushua non è uno stupido. Yehoushua lo sa. Per questo merita il mio disprezzo. Si penserebbe di difendere ancora il suo invito come ospite d’onore alla Fiera del Libro di Torino?
Sono molto contenta di segnalarvi che il sito canadese stoptheism.com dove nei giorni scorsi erano apparse esplicite minacce a Vittorio Arrigoni e agli altri cooperanti dell’ISM che si trovano a Gaza, è stato definitivamente chiuso dal suo stesso web host.
Lo stesso è avvenuto anche per un sito italiano di evidente ispirazione sionista che ospitava una traduzione di un articolo delirante di Lee Kapland, un personaggio ai limiti della follia, sedicente “giornalista investigativo” legato alle frange più estreme della destra sionista americana, ideatore e gestore del sito canadese e di un blog personale. (Si potrebbe provare anche con quello direi).
E’ una grande vittoria che è stata possibile grazie alla mobilitazione di tutti noi che in questi giorni abbiamo tempestato di mail e segnalazioni i due web hosting che ospitavano i due siti, la polizia postale e la rappresentanza canadese in Italia.