La mafia, lo ripeto ancora una volta, non è un cancro proliferato per caso su un tessuto sano. Vive in perfetta simbiosi con la miriade di protettori, complici, informatori, debitori di ogni tipo, grandi e piccoli maestri cantori, gente intimidita o ricattata che appartiene a tutti gli strati della società. Questo è il terreno di coltura di Cosa Nostra con tutto quello che comporta di implicazioni dirette o indirette, consapevoli o no, volontarie o obbligate, che spesso godono del consenso della popolazione.
Giovanni Falcone
Tempo fa scrissi questo articolo raccontando che il Centro Internazionale di Documentazione sulla Mafia (C.I.D.M.A) di Corleone stava per essere sfrattato dai locali di cui usufruiva con un contratto di comodato d’uso gratuito, niente di meno che dallo stesso sindaco del paese Antonio Iannazzo, e soprattutto denunciando il poco spazio (appena un trafiletto) che il fatto aveva occupato su la Repubblica, mentre poco più di metà della pagina era dedicata alla notizia del sesso sfrenato che i giocatori di una squadra di serie A elvetica avevano fatto con una quindicenne e l’altra metà alla pubblicità della WIND.
Nel mese di settembre dello scorso anno, l’amministrazione comunale (di centro destra) di Corleone, appellandosi all’articolo 12 dell’ordinamento comunale (secondo cui “se… durante il termine convenuto sopravviene un urgente ed imprevisto bisogno al comodante, questi può esigere la restituzione immediata…”) con la delibera n. 237 del 17.09.97 firmata dallo stesso Iannazzo, intimava lo sfratto al Centro, dando come ultimatum il 4.10.2007.
Il Centro Internazionale di Documentazione sulla Mafia fu inaugurato nel 2000 dall’allora presidente Carlo Azeglio Ciampi e finanziato con i fondi messi a disposizione dalla convenzione delle Nazioni Unite contro la criminalità transnazionale. Sono conservati in esso i faldoni del maxi processo a Cosa Nostra istruito nel 1986 da Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.
Oggi, a conferma e come aggiornamento sui fatti, ricevo dal Presidente del Centro, D.ssa Paola Miata e pubblico volentieri quanto segue:
“In data 25/09/07 il sindaco Nino Iannazzo con l’Amministrazione
Comunale ha deliberato la revoca del contratto di comodato del
15/06/2006 con cui il Comune
aveva concesso al C.I.D.M.A in comodato d’uso gratuito , per la durata
di 9 anni, i locali di San Ludovico.Con la delibera il Sindaco
chiede, entro il termine perentorio di 7 giorni la restituzione dei
locali assegnati.
Il C.I.D.M.A tramite un suo legale, ha impugnato la delibera e ha
fatto ricorso al TAR di Palermo che ha lo ha dichiarato inammissibile
poichè,
secondo la sentenza citata, il Comune non ha alcun potere di
esercitare in via amministrativa il preteso recesso dal comodato e
quindi di richiedere il rilascio.”
Se la notizia che il TAR ha accolto il ricorso del C.I.D.M.A non può che rallegrarci, rimane lo sconcerto sull’ambiguità del Sindaco Iannazzo ‚che se da una parte salva la faccia presentandosi ai concerti antimafia sottobraccio all’Associazione Libera, dichiarando che “questo è un modo più produttivo per coinvolgere i ragazzi e farli ragionare sul problema della mafia”, nei fatti lui trova invece altri modi altrettanto produttivi per ammiccare a quella stessa mafia che dice di voler combattere.
“La mafia non è un cancro proliferato per caso.…”
Un test del DNA stabilì una settimana fa, e la notizia fu confermata successivamente da un comunicato delle FARC, che il piccolo Emmanuel, di cui l’unica foto disponibile è quella a fianco, era “libero” nelle mani del governo Colombiano.
Comunque sia andata, ci auguriamo che possa far parte presto della sua famiglia di origine e nella migliore delle ipotesi possa riabbracciare presto la sua mamma, se come è vero, giunge notizia dal Venezuela che le FARC avrebbero comunicato a Hugo Chávez le coordinate per la liberazione di Clara Rojas e Consuelo González de Perdomo, che potrebbe avvenire già domani.
Lo abbiamo immaginato in una foresta, “bimbo della giungla”, come lo definì la Repubblica in un articolo di Omero Ciai, lo abbiamo immaginato trascorrere tra i guerriglieri i suoi appena tre anni e mezzo di vita. I media ci hanno venduto la sua immagine di bambino maltrattato, costretto a vivere in prigionia, mentre da un comunicato delle FARC pubblicato dalla ABP (Agencia Bolivariana de Prensa) veniamo a sapere che Emmanuel, non potendo stare tra le “operazioni belliche del Plan Patriota, ai bombardamenti e combattimenti, alla mobilità permanente e alle contingenze della selva”, fu “affidato a persone di fiducia di Bogotà mentre si firmava l’accordo umanitario.”
La storia, che potrebbe essere uscita dalle pagine di De Amicis, ha dell’incredibile.
La versione governativa, basata sulla testimonianza di José Gomez, l’uomo che aveva in custodia il bambino è diversa da quella fornita dalle FARC. Secondo il DAS che sta seguendo la vicenda, il piccolo venne affidato ad appena tre mesi di vita da un gruppo di guerriglieri a José Gomez, simpatizzante del movimento, che viveva nel municipio de El Retorno nel Guaviare.
Il bambino venne portato in ospedale dall’uomo, perchè nonostante le prime cure che gli aveva assicurato, le cattive condizioni di salute in cui si trovava (dovute alla frattura del braccio avvenuta al momento della nascita e alla malaria) non accennavano a migliorare.
José Gomez si recò con il piccolo e gli altri suoi figli (ne ha cinque) in canoa al centro medico più vicino, dove sospettando un caso di maltrattamento infantile, segnalarono la situazione del bambino al IBPF (Istituto Colombiano del Benessere Familiare, una sorta di assistenza sociale) che lo prese sotto la sua tutela.
Successivamente il piccolo fu trasferito a Bogotà in un’altra struttura dell’istituto anche per la necessità di sottoporlo ad un’operazione chirurgica al braccio, struttura dove tutt’ora risiede in attesa del disbrigo delle pratiche successive al risultato del test del DNA che lo consegnerebbero finalmente all’affetto dei suoi familiari.
José Gomez, per paura mentì alle FARC che erano tornate nel frattempo a farsi vive per chiedergli notizie del bambino, dicendogli che si trovava presso una sorella che viveva a Bogotà.
Le FARC si ripresentarono a chiedere notizie del piccolo Emmanuel circa tre mesi fa e poi di nuovo verso metà dicembre, dando all’uomo come ultimatum la data del 30 dicembre per la riconsegna del bambino.
José spaventato dalle minacce ricevute si mise allora in contatto con la Fiscalía, mentre confermavano la sua versione una serie di telefonate anonime giunte al CTI (Cuerpo Técnico de Investigación) poco prima del 28 dicembre, comunicando che un bambino, probabilmente il figlio di Clara Rojas, sarebbe stato rapito dal IBPF.
Se si trattasse di un romanzo potremmo dire che la vicenda è intrisa di una buona dose di realismo magico che colora di toni surreali gli avvenimenti, le persone, le casualità..
A partire dalla figura di José Gomez, “el indio”, l’uomo al quale le FARC avrebbero affidato il bambino, colui che nelle ultime settimane è stata la persona più ricercata della Colombia, sia dagli apparati di sicurezza che oramai erano sulle sue tracce, sia dalla guerriglia che aveva necessità di recuperare il piccolo Emmanuel. Strana famiglia quella di José. In un unico nucleo familiare racchiuse tutte le contraddizioni che insanguinano il paese e che palesemente, come spesso accade, finiscono per mettere contro fratelli contro fratelli, amici contro amici. L’esemplificazione anagrafica della guerra civile che vive la Colombia sulla pelle della sua gente.
José Gomez, l’uomo di cui le FARC si sono fidate affidandogli le cure di Emmanuel, è stato infatti candidato del partito Colombia Democratica, praticamente i fedelissimi di Uribe, il partito maggiormente colpito dallo scandalo della parapolitica e presieduto dal cugino di Álvaro Uribe, Mario Uribe Escobar, che tra una riunione di partito e una seduta al Congresso, trovava tempo per intrattenersi a parlare d’affari direttamente con Salvatore Mancuso. Attualmente è indagato per paramilitarismo.
Una delle sorelle di Josè Gomez che vive a Bogotà invece è una funzionaria del DAS, persona affidabilissima, fanno sapere dalla struttura dove lavora con incarichi amministrativi da più di dieci anni. Al momento è sotto protezione dello stato.
Un altro fratello, invece fu un attivo guerrigliero, defunto da tempo, in passato catturato e arrestato, ma del quale non si conoscono le circostanze della sua morte.
Le tre anime del paese in una sola famiglia. Già di per sé questo la dice lunga sulla complessità delle vicende colombiane e lascia spazio e tempo per evitare di dare giudizi affrettati e sicuramente viziati da ignoranza su quanto accade nella grande Macondo latinoamericana, dove si intrecciano magicamente e realisticamente storie tanto diverse, solo apparentemente senza un filo logico.
Ben altre constatazioni di carattere più pragmatico e pratico si impongono comunque all’attenzione dopo un’attenta analisi di quanto sopra.
Al di là dell’evidente riflessione sul fatto che non si possa che esser felici che il piccolo Emmanuel stia bene e abbia avuto, nonostante la sua situazione, quel trattamento umano messo in dubbio da più di una voce, quello che maggiormente risalta all’occhio in questa vicenda è il senso di amarezza e rabbia che ha provato la comunità internazionale fino a quest’oggi, (giornata in cui è stata annunciata l’imminente liberazione delle donne), che evidentemente si aspettava qualcosa in più dalle FARC in questo scorcio di fine d’anno.
L’investitura politica ricevuta da Chávez le aveva caricate della responsabilità di dimostrare al mondo intero che non si sbagliava chi con impegno e serietà verso la loro causa chiede che non vengano considerati dei terroristi come gli interessi congiunti di Uribe e Bush li etichettano, bensì, nonostante le evidenti difficoltà di comunicazione con i loro vertici e di diplomazia, (che non si può pretendere essere equiparata a quella delle “democrazie istituzionali” con le quali stavano trattando la liberazione degli ostaggi), una forza politica in grado di portare una speranza per la pace in Colombia.
Non credo come si sta è affermato in questi giorni sui media del mondo intero, che le FARC abbiano mentito a Chávez e alla comunità internazionale.
Immagino che l’accordo per la liberazione degli ostaggi, pur con tutta la simpatia che sembra esistere tra l’organizzazione insorgente e il presidente venezuelano, non contemplasse la rivelazione di dettagli importanti e specifici sull’ubicazione dei prigionieri o la comunicazione della saggia decisione di aver affidato ad altri quelle cure per il piccolo Emmanuel che non sarebbe stato possibile garantirgli in una foresta. E se Clara Rojas e Consuelo Gonzáles de Perdomo fossero liberate, questo fatto confermerebbe tale versione.
Ciò non toglie che quella delle FARC sia stata una manovra azzardata, un gioco rischioso, che ha fatto pensare per un attimo che per la pace in Colombia davvero non ci fosse più nessuna speranza, anche perchè mentre le FARC, confermando nel loro comunicato che il processo di liberazione di Clara Rojas e Consuelo González de Perdomo, sarebbe andato avanti, “così come stabilito con il Governo della Repubblica Bolivariana del Venezuela” ribadivano che si rendeva necessaria la smilitarizzazione dei territori di Florida e Pradera, Uribe dalla Casa de Nariño tuonava che non avrebbe più accettato missioni umanitarie internazionali in Colombia per la liberazione degli ostaggi. Tabula rasa sulla speranza.
E invece oggi la speranza se pur con le dovute cautele si riaccende, e Uribe ha dovuto in tutta fretta dare un ulteriore via libera alla nuova missione annunciata da Chávez .
Se non verranno liberate domani le due donne sarà la grande occasione mancata delle Farc.
Vorrei dire come Yolanda Pulecio, la mamma di Ingrid Betancourt che “non le conosco molto, ma mi fido più delle FARC che del governo del presidente Uribe” e domani avere la certezza che probabilmente per la Colombia inizi un nuovo capitolo. Non semplice, irto comunque di difficoltà, un processo tutto in salita che deve fare i conti con il potere, con la memoria dei morti e la paura dei vivi, con gli interessi delle multinazionali straniere e le necessità primarie dei contadini, con la contraddizione dei pochi che hanno tutto e dei moltissimi ai quali non è rimasto più nulla. Comunque sia un processo segnato da un passo importante, rispetto al quale il presidente Álvaro Uribe dovrà rivedere tutta la sua strategia politica e militare nella risoluzione del conflitto.
Le FARC sono riuscite in queste settimane ad escluderlo dalle trattative per la liberazione degli ostaggi, lo hanno messo in un angolo mentre loro diventavano i protagonisti indiscussi della scena. Proprio quello che hanno sempre chiesto. Hanno avuto l’attenzione dei media e della diplomazia internazionale, hanno avuto la possibilità di veder veicolato e trasmesso al mondo intero il loro messaggio, il loro essere “forza politica” desiderosa di un cambiamento nel paese.
Giocare questa occasione per una mossa azzardata, peggio, per una superficialità, è questo quello che ha fatto più rabbia, in chi ha sempre sostenuto, spesso sentendosi voce fuori dal coro, la loro posizione.
Non i loro metodi, dal momento che siamo tutti convinti che la pace non si possa conquistare con l’uso delle armi, ma comunque sempre con la consapevolezza che il loro punto d’osservazione e d’azione andasse contestualizzato in quella che è la situazione della Colombia, con una violenza e una barbarie incancrenite e cronicizzate da più di 50 anni di guerra civile.
E’ stata questa una grande occasione, e se l’operazione andasse finalmente a buon fine, Uribe certamente ne uscirebbe come il grande sconfitto, sicuramente non potrebbe più tirarsi indietro nemmeno alle future richieste, ove venissero fatte, della smilitarizzazione di Florida e Pradera dove poter portare avanti i dialoghi di pace e la liberazione di tutti gli altri prigionieri, con l’appoggio e l’occhio vigile della comunità internazionale, ma particolarmente dei paesi latinoamericani come Argentina, Brasile, Cuba, Ecuador che maggiormente spingono per un’unità che non è solo economica e finanziaria ma che come scrive Gennaro Carotenuto è “un concerto autonomo anche per la risoluzione di conflitti” e che oltre ad aver raggiunto obiettivi importanti per la crescita e l’integrazione della regione “è stato ad un passo dal raggiungere un altro straordinario risultato: l’apertura di un processo di pace in Colombia”.
Sono trascorsi più di 80 giorni dal 10 ottobre quando i prigionieri politici mapuche:
Jaime Marileo Saravia,
Patricia Troncoso Robles,
Juan Millalen Milla,
Héctor Llaitul Carrilanca,
José Huenchunao Mariñan
nel carcere di Angol iniziarono lo sciopero della fame a oltranza.
A questa azione si sono uniti il Lonco Iván Llanquileo nel carcere di El Manzano e Waikilaf Cadin Calfunao nel carcere di massima sicurezza di Santiago.
Il 9 novembre 2007, è stato scarcerato Iván Llanquileo. I giudici avevano preso atto della totale assenza di prove per i reati a suo carico, ma nel dubbio gli sono state applicate alcune misure cautelative tra cui la libertà vigilata.
Nella settimana precedente il Natale, i prigionieri, in accordo, hanno deciso la sospensione dello sciopero per tre di essi.
Proseguono lo sciopero della fame:
Patricia Troncoso, internata nell’Unità di Trattamento Intensivo dell’Ospedale di Angol, — Héctor Llaitul e Waikilaf Cadin — prigioniero nel Carcere di Massima Sicurezza nonostante abbia scontato la condanna.
Chiedono la libertà di tutti i loro fratelli e la fine della repressione verso le comunità.
La notte del 24 dicembre, Patricia Troncoso ha indirizzato una e-mail a tutti i familiari dei prigionieri politici mapuche in cui è scritto:
“ Se la mia morte servirà per la libertà dei miei fratelli, io non voglio desistere”.
Intanto un altro biglietto di Natale viaggiava in Internet la notte del 24 dicembre, partito dal palazzo della Moneda di Santiago e diretto a tutti i cileni all’estero. L’immagine rappresentava un presepe mapuche, la scritta diceva: Chile Somos Todos e la firma era quella della Bachelet.
Da Angol, Pamela Pessoa, moglie di Héctor Llaitul, a proposito di questa cartolina ha detto “che è una offesa al Popolo mapuche, utilizzare la sue immagini in questa circostanza, è cosa di enorme cinismo”.
Le condizioni fisiche di Patricia Troncoso sono estremamente gravi, ma lei non intende desistere, consapevole delle gravi conseguenze sulla sua salute In queste drammatiche condizioni Patricia Troncoso ha inviato un comunicato “a tutti gli uomini e donne che lottano infaticabilmente per la giustizia”. Con forza e lucità, rivolgendosi in particolare alla Bachelet, accusa il governo e il ceto politico cileno di perseguitare crudelmente il popolo mapuche e di essere degli strumenti nelle mani delle multinazionali. Prosegue con un’ analisi sulle condizioni della classe lavoratrice cilena.
Nell’ultimo mese, in Cile si sono intensificate le manifestazioni di solidarietà con i prigionieri politici mapuche.
Lettere di protesta indirizzate alla Bachelet sono state inviate anche da ex – prigionieri politici della dittatura militare in Cile in seguito al golpe del 1973.
La notte di Natale nella cattedrale di Concepción 15 attivisti hanno interrotto l’omelia del vescovo per chiedere la liberazione dei prigionieri politici mapuche.
La repressione non si è fatta attendere.
Sono stati incarcerati anche alcuni “mache”, personalità spirituali mapuche.
José Galvarino Lepicheo Machacan un adolescentte di 16 anni, della provincia di Arauco, permane in prigione preventiva. E’ stato fotografato nei pressi di una manifestazione per la rivendicazione delle terre. Prima che si arriverà al processo passeranno almeno sei mesi.
Sul caso dei prigionieri politici mapuche gli organi di stampa cileni rimangono in silenzio, o viene applicata la censura come è accaduto per una trasmissione televisiva di Chilevision.
Il gruppo musicale Wechekeche ñi Trawün (Unione di giovani) registrò una canzone, richiesta per la chiusura del programma “El Diario de EVA” sul il vissuto dei giovani mapuche urbani. Si trattava di un mix con le canzoni “Mapuche los magos de la tierra”, e “Resistencia” e a proposito dello sciopero della fame inclusero una nuova frase “Liberar…liberar al mapuche por luchar, a nuestros hermanos que en huelga de hambre están y que el Estado chileno no ha querido escuchar… Liberar…liberar al mapuche por luchar.”, per terminare con la parte finale della canzone “Leftaro” (Lautaro). Il programma fu registrato, ma il giorno della trasmissione furono presentate le canzoni di tutti gli altri gruppi giovanili e gli Wechekeche ñi Trawún furono rimpiazzati da un altro gruppo.
Comunichiamo che Héctor Llaitul Carrilanca ha interrotto il 30 dicembre lo sciopero della fame, dopo 81 giorni senza ingerire nessun alimento (lo sciopero della fame più lungo nella storia del Cile) rispondendo alle richieste di aprenti ed amici e preservando integra la sua salute per le battaglie a venire.
Intanto è notizia di questi giorni che uno studente mapuche, Matías Catriléo di 23 anni è stato ucciso dalla polizia cilena nel sud del paese nel corso di una manifestazione pacifica volta all’occupazione simbolica di un terreno nel fundo Santa Margherita.
La polizia cercando di disperdere i manifestanti, circa una ventina, avrebbe fatto fuoco ad altezza d’uomo, colpendo alle spalle il giovane.
I compagni del giovane si sono rifiutati di consegnare il corpo del ragazzo ai carabinieri e lo avrebbero fatto soltanto dopo l’arrivo dei rappresentanti degli organismi internazionali.
Mentre si va facendo sempre più dura la repressione della polizia cilena contro la comunità mapuche, il lungo sciopero della fame di Patricia Troncoso nel carcere di Angol rischia di trasformarsi in un omicidio di stato, che sembra destare preoccupazione più nella comunità internazionale che nelle istituzioni del suo paese.
…
Con la collaborazione di
Wenuykan Amicizia col Popolo Mapuche
Sede principale a Como
wenuykangmailcom (wenuykangmailcom)
Si ringrazia altresì tutto lo staff di Radio Onda Rossa e particolarmente Salvatore per lo spazio che dedicano con impegno e costanza alla causa del popolo Mapuche.
Leggi anche:
Ricevo e pubblico volentieri la lettera scritta da Salvatore Tassinari a Gianni Riotta in protesta per la lettura, durante il TG1 del primo dell’anno, della Costituzione Italiana “riveduta e corretta”, cioè omettendone alcune parti essenziali, in particolare dell’Art. 3 e dell’Art. 41.
Le adesioni alla lettera possono essere inviate a questi indirizzi:
giovasalviliberoit (giovasalviliberoit)
monica717interfreeit (monica717interfreeit)
con urgenza entro domani 4 gennaio.
Il giorno 1° gennaio 2008, nel corso del TG1 delle ore 20, il direttore Gianni Riotta ha voluto «commemorare» il 60° anniversario dell’entrata in vigore della Costituzione repubblicana facendo leggere ad un attore alcuni articoli della Costituzione, mutilati di alcune parti fondamentali.
A tacer d’altro, particolarmente scandalosa la mutilazione a cui è stato sottoposto l’art. 3, di cui è stato riportato soltanto il primo comma, che enuncia l’eguaglianza formale di tutti i cittadini, mentre è stato amputato del suo secondo comma, che prescrive l’eguaglianza sostanziale. Esso così recita: “E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.
Ancora più grave la manomissione dell’art. 41, di cui è stato letto soltanto il primo comma (“L’iniziativa economica privata è libera”) e cancellato il secondo comma (“Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”) e il terzo (“La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata ai fini sociali”).
Grande è l’amarezza per quest’ultima mutilazione della C, soprattutto dopo l’assassinio dei sette operai torinesi ad opera dell’iniziativa economica privata.
Non è possibile supporre che questa operazione sia avvenuta casualmente e senza una precisa volontà politica, tesa a disinformare e a distorcere il senso e lo spirito della Carta in una congiuntura nella quale da più parti si vanno preparando gravi riforme della Costituzione, che contravvengono al segnale di appena un anno e mezzo fa, quando la netta vittoria referendaria aveva espresso la volontà della grande maggioranza del paese di restare fedeli alla Carta del 1948.
Il fatto è tanto più grave perché la trasmissione non è stata effettuata da una televisione privata e di parte, ma da quella che dovrebbe fornire un servizio pubblico.
Eleviamo, come cittadini, la nostra più ferma protesta contro questo inaudito abuso del mezzo televisivo e chiediamo (lo pretendiamo!) al direttore Riotta di replicare, all’interno del Tg1 delle ore 20, la lettura degli articoli della Costituzione restituiti alla loro interezza.
Primi firmatari
Aldo Serafini
Salvatore Tassinari
Corrado Maceri
Monica Biondi
Quiero un planeta de seres humanos con alas.
Para que el adentro de todos acaricie la luz.
Para alzarnos de abismos cotidianos.
Alas para arrullar a los solos, a los pobres,
a los tristes, a los de alma ausente.
Alas para agitar en alborozo de dichas infinitas.
Alas para que la vida de todos sea plenitud y no vacío.
Alas por un Periodismo Sin Máscara.
Por una Vida Sin Máscara.
Ho incontrato Yesica Sánchez Maya, presidente della Limeddh di Oaxaca, nella sede dell’associazione il 20 agosto scorso.
Attualmente lavorano per la Lega Messicana per la Difesa dei Diritti Umani di Oaxaca, a vario titolo circa 12 persone, fino a un anno fa, cioè fino al momento in cui si è manifestato in tutta la sua violenza il conflitto sociale, soltanto lei e una segretaria riuscivano ad occuparsi di tutto.
Questo già rende l’idea di cosa sia cambiato qui in questi mesi.
L’acutizzarsi e il successivo divampare così violentemente del conflitto sociale infatti è come se avessero permesso alla società oaxaqueña di sviluppare una coscienza diversa di quello che sono e quello che rappresentano i diritti umani e dell’importanza fondamentale che rappresenta la denuncia delle loro violazioni per poter permettere alle associazioni che se ne occupano di intervenire in difesa delle persone.
Nonostante la pace apparente e la ritrovata serenità dei cittadini, che sembrano sforzarsi di raccontare, soprattutto ai turisti, di quanto ormai la situazione sia tornata tranquilla, basta però dare uno sguardo ai giornali la mattina per rendersi conto di come la situazione reale non sia proprio questa.
Yesica spiega che ormai si tratta di un conflitto latente, che non esplode in manifestazioni violente come è accaduto un anno fa o più recentemente a luglio di quest’anno, in occasione della festa della Guelaguetza, ma che non per questo al momento sia meno violento.
L’ultimo e più recente caso di desaparecidos risale infatti al mese di maggio di quest’anno con la denuncia della scomparsa da parte dell’EPR (Esercito Popolare Rivoluzionario) di due suoi militanti.
La situazione dei diritti umani a Oaxaca ruota principalmente intorno a tre argomenti fondamentali e cioè:
- la difesa dei diritti delle donne
- la difesa dei popoli indigeni
- l’appoggio al movimento sociale che si è reso necessario negli ultimi tempi.
Il movimento sociale a Oaxaca – la repressione
Chiediamo a Jessica cosa intende per “movimento sociale di Oaxaca” ed anche se il pensiero corre immediatamente alla APPO, lei ci spiega che sebbene questo sia stato il movimento che maggiormente ha monopolizzato l’attenzione sia nel paese che all’estero, (anche per la grande l’adesione che raccolto di circa 300 organizzazioni civili e sociali), l’impegno della Limeddh in questo senso va ben oltre, essendo Oaxaca uno stato che conta con la presenza di 16 popolazioni indigene, ognuna con la sua lingua e le sue tradizioni, ed avendo una storia di violazione dei diritti umani ben precedente alla formazione della APPO.
Lo scorso anno si è manifestata una crisi politica sociale strutturale dove l’autoritarismo ha raggiunto un limite tale da rompere l’apparente armonia che esisteva tra la popolazione e il governatore.
Ma esisteva di fatto questa armonia?
“No, non c’era” – ci spiega Yesica – “ma esisteva un patto non scritto con il quale, nonostante gli episodi di denuncia di violenze e di scontri, si riusciva a mantenere un clima di relativa tranquillità dove la situazione non degenerava in violenza e in confronti violenti tra le forze di polizia e la popolazione”.
Il 22 maggio del 2006 ebbe inizio la protesta dei maestri, i quali come tutti gli anni avevano costituito un presidio. Essi non protestavano soltanto per ottenere aumenti salariali. Le loro rivendicazioni non erano infatti soltanto sindacali, essi lottavano anche per il diritto allo studio degli indigeni, per le borse di studio, per le migliorie strutturali nelle scuole.
I maestri, come spesso accade, si erano fatti portavoce delle istanze di tutta la comunità.
Già erano trascorsi fino a quel momento due anni di governo di Ulises Ruiz e poiché a Oaxaca era noto che egli aveva vinto le elezioni con un fraude, quella che si presentava fu l’occasione propizia per potersi legittimare (usando la forza) in uno scenario politico e sociale che di fatto lo stava delegittimando.
Lo slogan che Ulise Ruiz portava avanti con il suo governo era “ni marchas ni plantones” (né manifestazioni né presidi) e questo è stato il segno peculiare che ha caratterizzato tutto il suo agire politico e sociale.
Aveva già attaccato in vario modo le organizzazioni sociali e l’unica entità che mancava ancora all’appello era il sindacato dei maestri.
Il suo governo iniziò a portare avanti una campagna denigratoria contro i maestri dei presidi, mostrandoli come degli inetti, smidollati dediti a leggere novelas invece di tenere lezioni, senza voglia di lavorare e pericolosi per l’ordine pubblico.
Ulises stava così preparando il campo per legittimare la repressione che sarebbe venuta, stava organizzandosi perchè si arrivasse poi al 14 giugno, giornata dello sgombero violento dello zócalo, creando un sentimento generalizzato di insofferenza verso i maestri da parte della popolazione di Oaxaca.
“Noi siamo sicuri” — conferma Jessica - “che effettivamente chi governava e chi dirigeva la situazione qui a Oaxaca, almeno fino al giugno 2006 quando è scoppiata la crisi, non fosse Ulises Ruiz, ma Jorge Franco Vargas, che fu segretario generale del Governo. Praticamente qui a Oaxaca comandava lui. Egli è una persona autoritaria, e così per esempio in linea con questa politica lo sgombero dello zócalo fu programmato per le 4 di mattina. I maestri stavano dormendo, dietro le barricate c’erano famiglie intere, era nell’aria che accadesse qualcosa ma non con quella violenza. C’erano 3000 poliziotti contro, 20mila-40mila maestri (anche se alcuni hanno parlato di circa 70mila). Li hanno assaliti nel sonno, non si era mai vista in Oaxaca una repressione così violenta, con gas lacrimogeni, donne che hanno abortito, anziani picchiati. Si dice, senza avere riscontri certi, di persone che sono morte”.
Quello che è successo la notte del 14 giugno ha fatto sì invece che il popolo si domandasse come sia stato possibile che il governatore avesse potuto agire in quel modo contro la cittadinanza. La popolazione iniziò a manifestare sentimenti di rabbia contro di lui, soprattutto per il modo in cui fu condotta l’operazione, così violentemente, di notte, senza preavviso.
I maestri però si organizzarono e il giorno seguente riuscirono a riconquistare lo zócalo cittadino, erano le 12 e davanti ai nostri uffici i poliziotti lanciavano gas lacrimogeni e si scontravano con i maestri”, racconta Yesica.
Fino a quel momento tutto il movimento sociale che con la repressione di Ulises Ruiz si era tenuto nell’ombra, dopo queste manifestazioni di violenza uscì allo scoperto e si organizzò.
E’ importante riconoscere a Oaxaca la funzione di colonna portante del movimento che hanno avuto i docenti in quanto essi hanno sempre appoggiato le rivendicazioni di tutti gli altri settori della società, per esempio quelle degli indigeni o quelle delle donne.
Sappiamo che qui il ruolo dei maestri è fondamentale ed essi sono molto rispettati dalla popolazione perchè rappresentano il punto di collegamento tra la comunità indigena e il resto della società civile.
Certo questo è il loro ruolo politico, ma la loro importanza è ben altra, ed è ancora più alla base che si può toccare con mano, chi non ha un maestro di riferimento nella famiglia? chi è che conosce meglio di tutti le problematiche dello stato di Oaxaca? Sono i maestri, nessuna struttura dello stato arriva alle comunità indigene più emarginate e povere di come i maestri sanno e possono fare.
La notte dell’attacco allo zócalo è stato praticamente il momento in cui è caduta la piccola goccia che mancava affinché il bicchiere d’acqua traboccasse, è stato il momento in cui la crisi politica e sociale, l’ impunità, la mancanza della divisione dei poteri, la mancanza di autonomia del potere giuridico, nonché la mancanza di potere della Commissione nazionale dei diritti umani e di tutta una serie di enti, riuscì ad emergere con maggior chiarezza e gravità.
Questi vuoti politici, civili e sociali, hanno avuto come risultato il fatto che la forza popolare li colmasse, il coinvolgimento della cittadinanza che riuscì a manifestarsi come ente di potere e che ebbe in sé la forza di contrastare un governatore indesiderato.
Il fatto più interessante fu che mentre il governo ripeteva che il problema a Oaxaca era soltanto un problema di conflitto che riguardava il sindacato dei maestri, tanto più si faceva imponente la partecipazione del popolo al conflitto, tanto più la gente si stringeva intorno ai maestri e alla APPO, tanto più il governo andava ripetendo che si trattava di un conflitto alla cui base stavano soltanto rivendicazioni salariali che riguardavano soltanto un pugno di maestri.
Per delegittimare la protesta dei maestri e di tutta la cittadinanza, il governo organizzò anche una marcia, detta “la marcia della vergogna”.
I suoi sostenitori sfilarono tutti vestiti di bianco, chiamati in appoggio tra alcuni settori economici della società quali ad esempio i commercianti, ma anche tra i poveri che per 200 o 300 pesos accettarono di manifestare a favore del governatore Ulises Ruiz.
Non fu nulla rispetto all’affluenza di persone che si registrò nelle marce della APPO e dei maestri.
La APPO, costituitasi formalmente al fianco del sindacato dei maestri il 21 giugno, diventò subito un movimento talmente ampio e importante ma privo purtroppo di una dirigenza.
“Si formò pertanto un consiglio provvisorio dove volta per volta venivano prese decisioni e stabiliti piani di azione, tutto funzionava molto bene” — ci racconta ancora Yesica — “almeno fino a luglio/agosto quando il governo dette un’accelerazione alla sua strategia repressiva”.
Ci furono dei morti e dei casi di detenzioni arbitrarie quali quella del professore Germán Mendoza Nube, membro della sezione 22 della CNTE.
Furono giorni terribili nei quali le forze di polizia operarono al di fuori della legalità in cui oltre al citato caso di detenzioni arbitrarie, si fabbricarono prove e testimonianze inesistenti contro i detenuti, e ci fu anche la scomparsa di Evangelio Mendoza González, ex segretario generale della Sezione 22 del SNTE, poi trovato in un carcere fuori dallo stato di Oaxaca.
Fu una palese dimostrazione di forza da parte del governo con lo scopo di mettere in guardia su quali fossero le conseguenze di una protesta che continuava con il passare dei giorni.
Dimostrazione di forza che ottenne però l’effetto contrario: ebbe inizio infatti a Oaxaca una caccia al poliziotto, nei giorni intorno al 21 agosto non se ne vedevano più in giro, tanto era pericoloso per loro, la gente era arrabbiata, i poliziotti avevano ucciso delle persone, ne avevano arrestate tante altre senza motivo e si erano messi contro il popolo.
“Contemporaneamente a questi sentimenti di rabbia si era creato un clima di festa fra le barricate, lì la gente si sentiva vicina e solidale, “camminavi nello zócalo e c’era chi preparava il caffè, chi la cena, si respirava un clima di festa, gli uffici erano tutti chiusi . Si era giunti al collasso delle istituzioni. Questo fu per tutto il mese di Agosto”.
E questo è quello che accadeva tra le barricate nel racconto che ce ne fa Yesica, durante la nostra conversazione.
Alla fine del mese il governo aprì un tavolo di negoziazioni con la APPO, si tennero 6 incontri, durante i quali la richiesta costante del movimento fu le dimissioni del governatore. Le chiedevano all’unanimità tutto il popolo di Oaxaca, ma purtroppo c’erano molti interessi economici, ma soprattutto politici in gioco. La testa di Ulises Ruiz venne giocata a tavolino tra il PRI e il PAN. Trattarono la legittimazione di Calderón contro l’intoccabilità di Ulises Ruiz. Oaxaca dipendeva dai giochi della politica di tutto il paese e questo fece in modo che non si arrivò alla caduta del governatore.
Paradossalmente d’altro canto il governo federale aveva riconosciuto il movimento di Oaxaca come un movimento giusto e legittimo, ma il governo federale non aveva il potere di mettere o togliere governatori.
Nello stesso momento, il movimento medesimo si trovò al centro di una polarizzazione sociale, alcuni metodi infatti, come le barricate, i blocchi stradali, a lungo andare provocarono malcontento tra i cittadini.
Si avvicinava anche la data dell’insediamento formale di Felipe Calderón al governo del paese, per cui il governo federale fece pressioni su quello di Oaxaca esortandolo a dargli appoggio decisivo per fermare la APPO che si stava facendo sempre più ingombrante.
La APPO si stava rafforzando infatti, nonostante la sua crisi strutturale e quella organizzativa.
E quindi quello che fece il governo di Ulises Ruiz il 17 di ottobre 2006 fu generare una serie di provocazioni in differenti luoghi della città.
Era ormai chiaro che la APPO era diventata un avversario molto maggiore di quello che i politici stessi e le forze di polizia credevano e il governo federale dovette riconoscere a un certo punto che il governatore Ulises Ruiz era incapace di contenere tutta quella polarizzazione sociale e far fronte alla crisi. Il 27 di ottobre Ulises Ruiz fece aprire differenti punti di scontro con il movimento in varie zone di Oaxaca, dove disgraziatamente morì Bradley Roland Will, che fu l’avvenimento che portò il caso Oaxaca alle cronache internazionali.
Il governo criminalizzò il movimento sociale in vari modi diversi, prima dicendo che si trattava solo di una protesta da parte dei maestri per il ritardo nei pagamenti dei salari, successivamente accusò il movimento di essere un braccio della guerriglia, quando si rese evidente che questa accusa non venne presa in considerazione, gli integranti della APPO vennero accusati di essere dei vandali e dei delinquenti.
Questa fu la strategia di stato usata per legittimare l’azione da parte del governo federale, vennero create le condizioni quindi per l’ingresso della PFP (Polizia Federale Preventiva) a Oaxaca il 29 di ottobre.
Ad Oaxaca oltre alla PFP entrarono però anche la Marina, i servizi segreti militari infiltrati nella PFP, i corpi speciali, gli agenti federali di investigazione.
Il popolo pensando di poter rispondere con le molotov e con le pietre fece azioni di resistenza e si registrarono altri due morti.
Continua a raccontare Jessica i lunghi giorni di ottobre e novembre.
Precisamente il 2 di novembre a Oaxaca si celebra la festa più importante, che è quella di tutti i santi. Girò voce però che proprio il 2 novembre la PFP sarebbe entrata nell’Università in un’azione volta contro la Radio Universidad, la voce del movimento.
Questo si preparò a difenderla, ma mentre nel centro, nello zócalo, la Polizia Federale Preventiva in modo molto civile smantellava le barricate senza provocazioni né uso della forza, dall’altro lato della città ci furono scontri violentissimi, ma l’errore più grande che commisero in questa circostanza gli agenti della Polizia federale preventiva fu quello di entrare nelle chiese.
Infatti nei giorni precedenti aveva giocato un ruolo fondamentale la Chiesa che aveva dato alloggio ai perseguitati della APPO, mentre il governatore trovava appoggio nella Chiesa Protestante.
“Attraverso un efficiente servizio di contro– insorgenza attivato dal governo locale vennero identificate persone, volti, e anche la nostra associazione ricevette delle minacce”, racconta Yesica.
Il 25 novembre la situazione esplose, una gigantesca manifestazione di decine di migliaia di persone chiese ancora una volta le dimissioni di Ulises Ruiz e il ritiro della PFP, ma venne duramente repressa, lasciando un saldo di più di 150 feriti, 150 arrestati e tre morti.
Questo fatto provocò una destabilizzazione molto forte nel movimento, e si registrarono dei cambiamenti all’interno di esso.
Il movimento e i leader
Inizialmente l’unico leader che il popolo aveva riconosciuto nella APPO non fu Flavio Sosa, come molti hanno creduto, ma Enrique Rueda. Egli purtroppo subì una pressione molto forte da parte degli organi di polizia, lui e la sua famiglia ricevettero minacce pesantissime che lo costrinsero a un ritiro dal movimento.
Ebbe gravi problemi di sicurezza e subentrarono inoltre difficoltà tra lui e la APPO per i quali a un certo momento sparì dalla circolazione e non se ne ebbero più notizie.
Il movimento si divise intorno a questo fatto ed egli da molti fu accusato di essere un traditore della APPO. Questo avvenne a settembre del 2006.
In quel momento siccome la linea del movimento era comunque quella di non avere un ruolo di protagonismo nei mezzi di comunicazione, non si davano conferenze stampa, né il movimento rilasciava interviste. Flavio Sosa fu l’unico che riuscì a gestire il rapporto con i mezzi di comunicazione e sebbene egli non fosse il leader della APPO, lo Stato lo aveva identificato come tale, e pertanto colpendolo con l’arresto a tradimento come fece il 4 di dicembre, voleva dimostrare alla nazione e non solo di aver colpito la APPO.
“Flavio Sosa è una persona dotata di carisma naturale” spiega Jessica “ed era la persona più adatta a gestire il rapporto con i mezzi di comunicazione, inoltre possedeva anche buone basi politiche, purtroppo Flavio gode di poca credibilità, ha precedenti difficili da digerire: Flavio che saluta Fox, che milita nel PRD e poi nel PAN, molte persone hanno criticato Flavio Sosa per queste cose, egli dovette lavorare molto per ottenere credibilità, non è detto che la ottenne fino in fondo, comunque divenne un leader mediatico. Enrique invece mancava di basi politiche, era il leader dei 70 mila maestri, in una mano aveva i 70 mila maestri, nell’altra il popolo di Oaxaca, ma gli mancava probabilmente abilità politica e forse anche ideologia.”
Quando il governo cominciò ad attaccare Enrique Rueda, lo fece perfino indagando nel suo passato, egli aveva un piccolo precedente per corruzione, ma non fu abbastanza forte per difendersi e rispondere agli attacchi contro di lui, fu ogegtto di un processo generale di discredito e la stessa sezione 22 della quale era dirigente, si divise intorno a questo fatto.
Lo Stato riuscì ad aprire un fronte nella sezione 22 del sindacato e si formò pertanto la sezione 59, che legalmente non è sezione, ma venne definita tale giocando con l’immaginario della gente. In realtà fu ed è soltanto un gruppo di persone create dallo stato per contrastare la sezione 22 dei maestri. Voleva passare come il volto buono della docenza.
Lo stesso stato permise quindi che la figura di Flavio Sosa assumesse una rilevanza così forte per poi poter dimostrare una volta messo in un carcere di massima sicurezza che il movimento era finito.
Uno sguardo al fuuro
Dopo il 25 di novembre, quello che si verificò non fu tanto la decadenza del movimento quanto la messa in evidenza di tutte le lotte interne ad esso che hanno creato un fronte di debolezza e nello stesso momento, la gente, che allora ebbe molta paura, ha trovato il coraggio per tornare per strada. Oggi si sono formati gruppi di persone, nell’università, nei quartieri, a Oaxaca si sta vivendo un processo di riarticolazione, di reidentificazione della domanda sociale.
In questo grande contenitore che era la APPO, ma che non aveva direzione, ci fu una richiesta di organizzazione di piccoli gruppi che avevano gli stessi bisogni ma le cui richiesta partivano da punti di vista differenti.
Si può dire che il processo di trasformazione profondo di Oaxaca stia iniziando adesso piuttosto che un anno fa , l’anno scorso fu la grande fiamma che mostrò l’esistenza di un problema e l’incapacità del governatore e dello Stato federale a risolverlo.
“A Oaxaca c’è un vuoto politico”, ci spiega Yesica, “tanto è vero che nel processo elettorale ci fu un forte astensionismo e quasi nessuno riconosce il governatore Ulises Ruiz. Tutt’ora c’è un clima di paura, adesso stanno cercando e incriminando giovani che erano nelle barricate per reati inesistenti e creati ad arte, come possesso di droga, furto. Persiste un clima di repressione invisibile, c’è gente che viene arrestata illegalmente, torturata e nessuno lo sa”
Paradossalmente possiamo affermare che se Ulises se ne fosse andato a luglio il processo di rinnovamento della società di Oaxaca non avrebbe avuto luogo.
In passato lo Stato di Oaxaca ha avuto tre governatori dei quali la popolazione ha ottenuto le dimissioni, ma tali dimissioni non hanno mai cambiato le cose.
Anzi in quelle circostanze si indurirono le repressioni contro i dirigenti sindacali e contro coloro accusati di appartenere alla guerriglia.
In Messico ci sono due formazioni guerrigliere, la principale è l’EZLN che ha abbandonato le armi per combattere in modo differente, poi ci sono l’EPR, (Esercito Popolare Rivoluzionario) e vari altri movimenti minori.
Il governatore con la sua repressione e criminalizzazione della protesta è riuscito a far organizzare il movimento guerrigliero e a compattare le sue forze. Persone uscite dal carcere rinnovando l’appoggio alle manifestazioni e alle barricate della APPO hanno affermato che seguiranno al via armata della guerriglia se dovessero essere arrestate nuovamente.
In questa congiuntura molte persone attualmente vedono una via d’uscita nella lotta armata, mentre prima non accadeva.
Chiediamo a Yesica di spiegarci come lei vede il futuro di Oaxaca, partendo magari da quel momento di organizzazione che sono state le barricate:
“Le barricate hanno svolto un ruolo catalizzatore e di incontro, si sono formati gruppi e amicizie importanti, nelle barricate abbiamo vissuto per mesi, chi portava il caffè, chi la cena e chi il pranzo, c’erano famiglie intere, molte persone che non militavano in nessuna organizzazione sociale hanno iniziato lì a creare blocchi accomunati da esigenze simili come le richieste per l’acqua, lo smaltimento dei rifiuti, la sicurezza.
A partire dal quel momento di sentimento comunitario che si è diffuso tra le barricate, si è creta una sorta di coscienza di sé.
Sono venute qui alla sede della Limeddh gruppi di donne e di persone a chiederci di organizzare seminari sui diritti umani, a chiedere di aiutarle a difendere i loro diritti, ad informarle su come associarsi.
Ci siamo trovati improvvisamente a fronteggiare una mole di lavoro immensa, ma per fortuna non siamo soli.
Oggi circa 43 diverse ONG stanno lavorando su Oaxaca.
Oaxaca ha bisogno di un nuovo patto sociale, di una nuova costituente, come spazio civile è stato molto importante l’appoggio che abbiamo ricevuto più che dalle organizzazioni, dai singoli cittadini, ora riusciamo a parlare di legittimità dei diritti umani, la gente è informata, vengono e ci dicono: noi non conoscevamo fino q a questo momento cosa era la Commissione Interamericana, cosa erano l’ONU, che cosa sono le missioni di osservazione sui territori.
Siamo riusciti a tessere una rete di solidarietà dal basso che accoglie ogni tipo di ideologia sotto lo sforzo comune della difesa dei diritti umani che poi è quello di cui Oaxaca aveva bisogno.
Questi spazi sociali, come per esempio il nostro della Limeddh, e tanti altri, hanno una grande responsabilità nella costruzione di una identità sociale, perchè se non si apre questo processo di costruzione il popolo di Oaxaca rimarrebbe privo del suo diritto alla cittadinanza. Crediamo che a Oaxaca il popolo stia iniziando piano piano, un processo di trasformazione.
Le realtà locali insieme all’appoggio internazionale hanno giocato un ruolo fondamentale e hanno permesso che si raggiungessero obiettivi importanti nella difesa dei diritti umani nello Stato di Oaxaca.
Oaxaca, 25 agosto 2007
..
Liga Mexicana por la Defensa de Los Derechos Humanos — Oaxaca
Nella “civilissima” Treviso, musulmani costretti a pregare in un parcheggio dopo che l’amministrazione leghista ha proibito loro di riunirsi nel centro sportivo messo a disposizione, gratuitamente, da un imprenditore locale.
Erano stati sfrattati alcuni giorni prima anche da un oratorio messo a disposizione affinchè potessero pregare.
Mi serve e non mi serve
La speranza così dolce
così pulita così triste
la promessa cosi’ lieve
non mi serve
non mi serve così mite
la speranza
la rabbia così docile
così debole cosi’ umile
l’ira cosi’ prudente
non mi serve
non mi serve così saggia
tanta rabbia
il grido così giusto
se il tempo lo permette
l’ urlo accurato
non mi serve
non mi serve così buono
un gran tuono
il coraggio così docile
la bravura così inconsistente
la sfrontatezza cosi’ lenta
non mi serve
non mi serve cosi’ fredda
l’ audacia
mi serve, si, la vita
che e’ vita fino a morirne
il cuore allerta
si, mi serve
mi serve quando avanza
la fiducia
mi serve il tuo sguardo
che e’ generoso e deciso
e il tuo silenzio schietto
si mi serve
mi serve la misura
della tua vita
mi serve il tuo futuro
che e’ un presente libero
e la tua lotta di sempre
si, mi serve
mi serve la tua battaglia
senza medaglia
mi serve la modestia
del tuo orgoglio possibile
e la tua mano sicura
si, mi serve
mi serve il tuo sentiero
compañero.
Mario Benedetti
(Traduzione di Annalisa Melandri e Azor)
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Me sirve y no me sirve
La esperanza tan dulce
tan pulida tan triste
la promesa tan leve no me sirve
no me sirve tan mansa
la esperanza
la rabia tan sumisa
tan débil tan humilde
el furor tan prudente
no me sirve
no me sirve tan sabia
tanta rabia
el grito tan exacto
si el tiempo lo permite
alarido tan pulcro
no me sirve
no me sirve tan bueno
tanto trueno
el coraje tan dócil
la bravura tan chirle
la intrepidez tan lenta
no me sirve
no me sirve tan fría
la osadía
sí me sirve la vida
que es vida hasta morirse
el corazón alerta
sí me sirve
me sirve cuando avanza
la confianza
me sirve tu mirada
que es generosa y firme
y tu silencio franco
sí me sirve
me sirve la medida
de tu vida
me sirve tu futuro
que es un presente libre
y tu lucha de siempre
sí me sirve
me sirve tu batalla
sin medalla
me sirve la modestia
de tu orgullo posible
y tu mano segura
sí me sirve
me sirve tu sendero
compañero.
Anche se la Chiesa è diventata sempre più escludente e le festività natalizie secondo Joseph Ratzinger, dovrebbero essere appannaggio soltanto dei veri cristiani, credo che queste siano un diritto di tutti.
Ricordo che spesso la chiesa, intesa come tempio del culto, soprattutto in passato è stata, per cristiani e non, luogo di accoglienza più che di esclusione, è stata la porta sempre aperta per chi aveva paura o freddo, per chi era solo, per chi non sapeva dove andare o soltanto per chi voleva sedersi un attimo a riposare. E’ questa la cristianità che rispetto. Quella che accoglie in silenzio, non quella che si veste di abiti d’oro e predica.
Quindi AUGURI, e che ognuno abbia il suo Gesù Bambino stanotte, perchè in fondo non è che un altro nome per chiamare la speranza, e questa si sa, non chiede patenti di cristianità.