Ricevo da Anna Maria De Luca, oltre alla sua adesione alla richiesta di scuse formali da parte del governo italiano e della firma della ratifica da parte dell’Italia al trattato internazionale contro la sparizione forzata, anche questa sua testimonianza.
La ringrazio per avermi autorizzato a pubblicarla. (A.M.)
…
Mia zia, Angela Maria Aieta, dopo essere stata sequestrata a Buenos Aires e rinchiusa nell’Esma, ha perso la vita in un volo della morte perchè madre del capo dell’opposizione al regime.
Mio cugino è stato dodici anni in carcere senza mai un processo. La moglie sequestrata e violentata. Il fratello sequestrato e ucciso dopo torture inenarrabili; l’altro fratello sequestrato.
Io faccio la gionalista. Mi occupo di diritti umani. Solo l’anno scorso siamo riusciti ad ottenere cinque ergastoli per i gerarchi argentini responsabili all’Esma, nel primo processo aperto a Roma nella storia italiana. Il primo, dopo trent’anni. Il primo dopo migliaia di morti.
Ieri, la battuta del nostro presidente del Consiglio è stata un’offesa alla memoria dei miei parenti e dei loro compagni. Un’offesa all’idea che li ha portati a non risparmiarsi.
Hanno lottato e perso la vita per combattere per la libertà della nazione che li ospitava. Potevano starsene tranquilli a casa, senza reagire, come facciamo noi italiani rimasti qui, invece hanno scelto di agire.
Siamo lo Stato che ha voltato le spalle ai suoi figli in Argentina per tutto il tempo della dittatura. Siamo lo Stato che lo scorso anno ha dato 5 ergastoli agli assassini di mia zia. Siamo uno Stato oggi rappresentato da Berlusconi.
Comunicato Stampa
Medici per i Diritti Umani
MOSTRA FOTOGRAFICA:
“MISSIONE COLOMBIA”
Intervento sanitario nella Comunità di Pace di San Josè Apartadò
Medici per i Diritti Umani (MEDU) inaugura il 20 Febbraio 2009 alle 21.00 presso la libreria/ centro culturale BIBLI — Via dei Fienaroli 28, Roma - la mostra fotografica “Missione Colombia”.
Intervengono: Gianni Tognoni (Segretario generale del Tribunale Permanente dei Popoli, Fondazione Basso-Sezione internazionale), Andrea Proietti (Presidente, Associazione Colombia Vive!), Carla Mariani (Volontaria, Associazione Colombia Vive!), Alberto Barbieri (Coordinatore generale, Medici per i Diritti Umani)
Il 21 febbraio del 2005, presso le località Mulatos e Resbalosa, 8 persone appartenenti alla Comunità di Pace — tra cui tre bambini — sono stati massacrate da gruppi paramilitari. Per questo crimine sono attualmente indagati 84 membri dell’Esercito colombiano.
“En memoria de los que caen para construir algo diferente”
( scritta su una pietra della comunità di pace di San Josè Apartadò)
La mostra sarà allestita fino al 27 febbraio. Orario: lunedì 17.30/24 - da martedì a domenica 11/24 – ingresso libero
Comunicato Stampa
Medici per i Diritti Umani
MOSTRA FOTOGRAFICA:
“MISSIONE COLOMBIA”
Intervento sanitario nella Comunità di Pace di San Josè Apartadò
Medici per i Diritti Umani (MEDU) inaugura il 20 Febbraio 2009 alle 21.00 presso la libreria/ centro culturale BIBLI — Via dei Fienaroli 28, Roma - la mostra fotografica “Missione Colombia”.
Intervengono: Gianni Tognoni (Segretario generale del Tribunale Permanente dei Popoli, Fondazione Basso-Sezione internazionale), Andrea Proietti (Presidente, Associazione Colombia Vive!), Carla Mariani (Volontaria, Associazione Colombia Vive!), Alberto Barbieri (Coordinatore generale, Medici per i Diritti Umani)
Il 21 febbraio del 2005, presso le località Mulatos e Resbalosa, 8 persone appartenenti alla Comunità di Pace — tra cui tre bambini — sono stati massacrate da gruppi paramilitari. Per questo crimine sono attualmente indagati 84 membri dell’Esercito colombiano.
“En memoria de los que caen para construir algo diferente”
( scritta su una pietra della comunità di pace di San Josè Apartadò)
La mostra sarà allestita fino al 27 febbraio. Orario: lunedì 17.30/24 - da martedì a domenica 11/24 – ingresso libero
Ringrazio i bravissimi amici di Qui News per l’ottimo lavoro svolto e mi associo alle scuse che porgono a tutti gli argentini e alle vittime di tutte le dittature. Sperando di non dover includere anche noi stessi, di nuovo…
I fratelli Cerezo, detenuti nel Centro di Rieducazione Sociale di Atlacholoaya, Morelos, in Messico, sono stati liberati ieri, 16 febbraio 2009, dopo aver scontato una condanna a sette anni e mezzo di reclusione con le false accuse di terrorismo, associazione a delinquere, possesso di armi ed esplosivi e criminalità organizzata.
La loro storia ha quasi dell’incredibile ed è emblematica dei metodi di giustizia sommaria tutt’ora vigenti in Messico. Antonio, Héctor e Alejandro Cerezo, insieme a Sergio Galicia, un indigeno nahuatl (liberato pochi mesi dopo l’arresto) e a Pablo Alvarado, furono arrestati il 13 agosto del 2001 e accusati di essere i responsabili delle esplosioni avvenute l’8 agosto dello stesso anno in tre banche Banamex a Città del Messico.
Alejandro fu rimesso in libertà, con piena assoluzione, dopo tre anni e mezzo di detenzione, il 1 marzo del 2004.
Il 13 agosto del 2006 viene rimesso in libertà invece Pablo Alvarado, dopo 5 anni di carcere ingiusto, il quale in una conferenza stampa rilasciata dopo la sua scarcerazione ha denunciato pubblicamente di essere stato costantemente oggetto di torture e maltrattamenti durante tutto il periodo di detenzione.
Agli altri due fratelli Cerezo, Héctor e Antonio, fu confermata invece la condanna a sette anni e sei mesi di reclusione, sebbene ci fossero state fin dal primo momento prove evidenti della loro innocenza e sebbene le accuse fossero le stesse anche per gli altri indagati successivamente rilasciati. Va rilevato inoltre che gli attentati del 2001 furono rivendicati dalle Forze Armate Rivoluzionarie del Popolo (FARP) attraverso un comunicato trasmesso ai media.
Al momento del loro arresto, i fratelli Cerezo, erano poco più che ventenni, tutti studenti dell’Università Nazionale Autonoma del Messico. Dal carcere hanno continuato a seguire i loro studi, mentre da più parti della società civile messicana si sono levati in questi anni appelli e proteste per la loro liberazione in quanto il loro arresto si sospetta sia stato un atto di intimidazione e di ricatto rivolto ai veri obiettivi delle forze di Pubblica Sicurezza e cioè i loro genitori: Emilia Contreras Rodríguez y Francisco Cerezo Quiroz, membri dell’ Esercito Popolare Rivoluzionario (EPR), latitanti da anni e che almeno dal 1990 non hanno più nessun contatto con i loro figli, se non epistolare, essendo partiti un bel giorno, “per non si sa dove” dice Alejandro.
Secondo il CISEN (Centro di Investigazione e Sicurezza Nazionale) Francisco Cerezo Quiroz sarebbe uno dei massimi dirigenti del EPR ed è proprio per questo che i suoi figli sono stati sempre tenuti sotto stretto controllo dai servizi di sicurezza messicani anche precedentemente al loro arresto.
Alejandro nel 2002 scrisse una lettera ai suoi genitori, pubblicandola in internet. Qualche mese dopo, “da un luogo qualsiasi della Repubblica Messicana” essi risposero: “Toño, … ci dici che non dobbiamo sentirci responsabili per il vostro sequestro, ed hai ragione figlio mio, nonostante tutto lo siamo perchè lo Stato, mantenendovi come prigionieri vi sta giudicando perchè noi, mamma e papà, abbiamo trascorso circa metà delle nostre vite solidarizzando con molte delle cause legittime e nobili del nostro popolo e per questo siamo perseguitati, al fianco dei più deboli, degli indigeni, degli operai e dei contadini”.
Emilia nella lettera, chiede “resistenza” ai suoi figli, specialmente ad Antonio ed Héctor che hanno pagato più duramente degli altri l’impegno politico dei loro genitori. In carcere sono stati torturati fisicamente e psicologicamente come è stato più volte denunciato da varie organizzazioni per la difesa dei diritti umani e dall’Organizzazione Mondiale Contro la Tortura che, rallegrandosi oggi per la loro liberazione, esprime tuttavia profonda preoccupazione per la situazione legale e per la sicurezza e l’integrità personale delle altre persone che si trovano ingiustamente detenute nelle prigioni messicane.
“erano belle giornate e li facevano scendere dall’aereo” ironizza Silvio Berlusconi in Sardegna concludendo la sua campagna elettorale, riferendosi ai desaparecidos argentini…
Qui l’articolo di Marco Bucciantini de l’Unità nel quale è riportata la frase.
Aggiornamento:
(AGI) Buenos Aires, 18 feb. — Il governo argentino ha convocato l’ambasciatore italiano a Buenos Aires, Stefano Ronca, a cui ha espresso “preoccupazione e disagio” per le affermazioni sui “desaparecidos” attribuite dal “Clarin” a Silvio Berlusconi. Lo hanno riferito fonti del ministero degli Esteri argentino. Il corrispondente del giornale argentino, Julio Alganarez, ha ripreso dall’”Unita’” una frase pronunciata nel comizio di chiusura della campagna elettorale in Sardegna, con cui il presidente del Consiglio avrebbe ironizzato sul dramma dei dissidenti lanciati in mare dagli aerei. “Erano belle giornate, li facevano scendere dagli aerei..”. L’ambasciatore italiano si e’ impegnato con Alberto D’Alotto, capo di gabinetto del ministro degli Esteri, a “verificare le frasi attribuite a Berlusconi e a informare a breve il governo argentino”. In precedenza fonti del governo italiano avevano negato che il premier volesse minimizzare i cosiddetti “voli della morte”, di cui al contrario intendeva denunciare l’efferatezza. La frase riportata dal “Clarin” ha suscitato anche la protesta di Estela de Carloto, presidente delle Nonne di Plaza de Mayo, l’organizzazione a favore delle 30mila vittime dell’ultima dittatura militare argentina, quella dal 1976 al 1983. “Siamo offese, soprattutto perche’ gli argentini hanno sempre avuto una grande solidarieta’ dall’Italia, sia dai governi precedenti che dalla magistratura”, ha dichiarato. Una delle responsabili delle Madri di Plaza de Mayo, Taty Almeida, ha espresso sdegno per quelle che ha definito “dichiarazioni terroristiche”: “Offende e insulta la memoria dei nostri figli”, ha affermato.
La polemica e’ scoppiata mentre la magistratura italiana sta valutando se chiedere l’estradizione dell’ex ammiraglio Emilio Massera, figura di spicco della dittatura militare.
Quello alle spalle di Gianfranco Fini con il braccio alzato nel saluto romano è Roberto Menia, il promotore della legge che ha istituito il 10 febbraio come “Giorno del Ricordo” dedicato ai martiri delle Foibe .
Qui, ripuliti e soddisfatti al governo…
sono sempre loro, dalla strada al palazzo, il fascismo al governo. Ormai Menia può tenere le braccia incrociate… complimenti Italia!
“Quello che oggi viene chiamato revisionismo ha radici lontane, che risalgono al periodo finale della Seconda Guerra Mondiale quando il movimento partigiano divenne un pericolo mortale per le classi dominanti che avevano messo al potere il fascismo, abbandonandolo solo quando divenne chiaro che i sogni imperiali si stavano trasformando in una catastrofe che minacciava di travolgere il loro stesso ruolo dominante perchè gran parte degli uomini e delle donne che erano diventati partigiani le armi non le avevano prese soltanto per liberarsi dall’occupazione nazista e fascista ma anche per spazzare via chi del fascismo era stato il padrino e per costruire un mondo diverso che sembrava possibile a portata di mano…” Ascolta qui l’intervista realizzata da Radio Onda Rossa a Sandi Volk (storico, Trieste) sulle Foibe e il revisionismo di Stato.
Riferimento: Foibe: Revisionismo di Stato e amnesie della Repubblica. Atti del convegno Foibe: la verità. Contro il revisionismo storico
Gennaro Carotenuto insegna Storia del Giornalismo presso la Facoltà di Scienze della Comunicazione dell’Università di Macerata, dove promuove il Master in Giornalismo Partecipativo, la prima e unica iniziativa in Italia di formazione alternativa al giornalismo commerciale.
Oltre ad aver lavorato o collaborato con grandi media come El País di Madrid, Radio3Rai, La Stampa,Latinoamerica, dal 1995 gestisce uno dei blog più frequentati in Italia ed è in uscita il saggio “Giornalismo partecipativo — La storia dell’informazione come bene comune”.
Proprio di Giornalismo Partecipativo parliamo con lui in questa intervista in esclusiva ad Annalisa Melandri
A.M. — Professor Carotenuto, lei gestisce da anni con notevole successo di pubblico un sito chiamato Giornalismo Partecipativo. Perchè questo nome?
G.C. — Più che il nome del mio sito, l’importante è il Giornalismo Partecipativo in sé, quella nebulosa di migliaia di siti che contribuiscono a spostare quote dell’opinione pubblica dal pensiero unico imposto dai media tradizionali che lavorano in sinergia con il potere, politico ed economico. Il mio sito è un pulviscolo di questa nebulosa informativa che sta cambiando il giornalismo del XXI secolo
A.M. — Secondo lei, questo modo diverso rispetto al tradizionale di fare giornalismo, può influenzare e come lo fa praticamente, i media mainstream e quindi l’opinione dei lettori?
G.C. — Intanto ci sono i numeri. La mia esperienza personale è quella di singoli articoli che sono stati letti da più di 30.000 persone, il che corrisponde al numero di lettori di editoriali di quotidiani medi. Questo impone ai media mainstream di fare i conti con la nebulosa, anche se non lo ammettono, anche se diffondono posizioni di chiusura netta ai limiti del diffamatorio. Di recente Gianni Riotta, il direttore del TG1, tutto un simbolo del giornalismo mainstream è arrivato ad affermare che chi sceglie di informarsi con i blog sottomette ad un pericolo mortale i mass media e la democrazia stessa. Per Riotta l’opinione pubblica è tale ed esiste solo se filtrata dai mass media, non esistono altre forme possibili di sviluppo di un’opinione pubblica meno concentrata su poche voci. Gli autori dei blog, se riusciranno (ma è questo il punto?) a cancellare i mass media, secondo lui cancelleranno l’opinione pubblica critica e di conseguenza la democrazia. Io credo che questa sia la posizione di chi per secoli ha imposto all’opinione pubblica cosa doveva e cosa non doveva sapere, anche in democrazia, e adesso sente questo immenso potere scemare.
A.M. — E’ un giornalismo che gode di una qualche forma di autorevolezza? A volte si ha come l’impressione che venga visto con una certa aria di sufficienza da parte degli operatori del settore…
G.C — Dipende. C’è chi lavora seguendo tutti i principi del miglior giornalismo, per accuratezza e verifica delle fonte e chi no. Anche nel grande giornalismo c’è chi lavora in maniera infedele. La differenza è che il Giornalismo Partecipativo non ha padroni come invece hanno i giornalisti mainstream spesso lottizzati.
A.M. Questa forma di fare giornalismo, intesa come processo di democratizzazione dell’informazione, sembra che trovi al momento come unico luogo di espressione soltanto la rete, è possibile che in un futuro il Giornalismo Partecipativo possa offrire il suo contributo anche agli altri media tradizionali?
G.C — Succede già, stanno crescendo televisioni che vanno via satellite, perfino su Sky, oppure sulle radio, pensiamo al circuito delle radio universitarie. Non stiamo inventando nulla, solo abbiamo oggi uno straordinario strumento in più.
A.M. — Una volta immaginavamo il grande giornalista nelle vesti di inviato di guerra o comunque direttamente presente sul campo, cioè “nella notizia”. Oggi questo lavoro può svolgersi comodamente seduti da casa davanti a uno schermo di un computer. Perchè dovrebbero essere disposti ad investire in viaggi e reportage gli editori se comunque c’è sempre qualcuno disposto a mettere a disposizione di tutti il suo contributo direttamente dal luogo dove ha luogo la notizia anche non essendo un giornalista nel senso classico del termine?
G.C. — Questo è un problema drammatico. Il modello economico del giornalismo mainstream non regge più. Finora stanno tagliando i costi e la qualità. Cosa succederà poi?
A.M. — Lei è docente di Storia del Giornalismo presso la Facoltà di Scienze della Comunicazione dell’Università di Macerata, che consiglio si sente di dare ad un giovane che voglia intraprendere oggi la carriera di giornalista?
G.C — Di consolidare la propria autorevolezza con lo studio indipendentemente dal media per il quale lavora o aspira a lavorare. Solo così potrà mantenere quote d’indipendenza.