El ascenso del nacionalismo burgués y las tareas del proletariado revolucionario
Traducido de Scintilla n. 87 mes de marzo 2018 (1ra.parte)
Un fenómeno de crecimiento internacional
El veneno del nacionalismo burgués intoxica de nuevo la atmósfera política internacional. Por primera vez desde la Segunda Guerra Mundial, las grandes potencias imperialistas y emergentes, los grandes y pequeños países capitalistas liderados por las fuerzas conservadoras y reaccionarias, están a la vez impregnados de diversas formas de chovinismo.
Desde los Estados Unidos de Trump, hasta la Rusia de Putin, desde el Japón de Abe hasta la Turquía de Erdogan, desde la China de Xi Jinping hasta la India de Modi, desde Polonia hasta Suiza, desde Francia hasta Alemania, desde Bélgica hasta Austria, hasta el Este europeo, hay numerosos países imperialistas y capitalistas en los que está surgiendo una ola de nacionalismo burgués y patriotismo fanático.
La situación actual marcada por las graves consecuencias de la crisis económica de 2008, el desarrollo desigual, la lucha aguda por los mercados, las materias primas y las esferas de influencia, promueve la difusión del chovinismo entre las naciones dominantes y dominadas. En general, los partidos y movimientos que expresan una política abiertamente nacionalista y chovinista aumentan su influencia entre las clases bajas y asumen un creciente peso político y electoral. (altro…)
Declaración del Movimiento Poético Mundial por Palestina
La morte di Gheddafi e gli studenti italiani
Pubblico volentieri la lettera di Alessandro Marescotti, redattore di PeaceLink, a Flavio Lotti, coordinatore nazionale della Tavola della Pace. Alessandro e’ anche docente di Lettere di un Istituto Tecnico Industriale di Taranto. Vorrei che le scuole italiane fossero piene di insegnanti come lui. Grazie Alessandro, la tua lettera mi ha commossa profondamente. Vorrei che i miei figli un giorno incontrassero maestri e docenti come te, di quelli che lasciano il segno. Io ho avuto questa fortuna, in Italia ma anche in un paesino sperduto della Colombia, dove ho capito perché in quel paese fare il maestro può anche essere un mestiere pericoloso.(AM)
Oggi i miei studenti hanno detto cose terribili
Nasce l’ Agenzia di Notizie della Resistenza Libica — solidarietà
Mentre in Italia, il movimento pacifista e internazionalista (esiste ancora? converrebbe chiedersi) tace gravemente sul ruolo dell’Italia nell’ invasione della Libia, rendendosi di fatto complice di una guerra di stampo neocoloniale, a Caracas nasce Al Mukawana — l’Agenzia di Notizie della Resistenza Libica, con lo scopo preciso di “dare battaglia mediatica contro la manipolazione delle informazioni che realizzano le grandi multinazionali come Al-Jazzera, Al-Arabiya, Reuters, BBC, Euronews, AFP, EFE, tra le altre”. Quello che segue e’ un comunicato che insieme alla grande giornalista argentina Stella Calloni e Marinella Correggia giornalista de il Manifesto, con altri operatori dell’informazione, militanti ed attivisti abbiamo voluto far giungere al collettivo venezuelano che gestisce l’ Agenzia. Il comunicato ‘e stato letto e reso noto nel corso della presentazione pubblica dell’ Agenzia che si e’ tenuta lunedì scorso, 19 settembre a Caracas e al quale hanno partecipato la giornalista Cristina Gonzales, Hindú Anderi, per il Foro Itinerante de Participación Popular, l’ Ambasciatore siriano in Venezuela, Dr. Ghasan Abbas, il corrispondente di TeleSur in Libia, Rolando Segura y l’ analista internazionale Miguel Koba. (A.M)
FUORI L’ ITALIA DALLA NATO!!!
I sottoscritti firmatari, giornalisti, intellettuali, militanti politici e sociali, tutto il movimento sociale mobilitato in sostegno dei popoli e contro i soprusi di un impero genocida, invitiamo l’opinione pubblica ad unirsi in una azione solidale con i fratelli libici e il loro legittimo governo. Esprimiamo il nostro ripudio di fronte all’invasione coloniale delle grandi potenze che hanno negato ogni possibilità di dialogo per la pace, come avevano prospettato i paesi dell’ Unione Africana e dell’ ALBA.
Gli invasori, potenze pro imperialiste, riunite sotto la bandiera genocida della NATO, di fatto già avevano pianificato l’occupazione e il saccheggio di quel paese e la negazione del suo diritto all’ autodeterminazione.
Paese, che vale la pena ricordare, in alcuni momenti storici ha dato prove innegabili di solidarietà con i popoli del mondo e con le loro lotte di liberazione quando questi soffrivano situazioni simili a quelle che oggi si stanno vivendo in Libia. (altro…)
Fermare l’aggressione contro la Libia!
Fermare l’aggressione!
La nostra guerra di Libia continua, nella piena illegalità con cui è cominciata.
L’abbiamo fatta sulla base di una risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite che viola la Carta delle Nazioni Unite, perché la Libia non stava affatto minacciando la pace e la sicurezza internazionale.
L’abbiamo fatta sulla base di un’ondata di informazioni false che non sono state mai verificate: non c’erano i 10 mila morti, non c’erano le fosse comuni; non ci sono mai stati bombardamenti su manifestazioni civili.
Migliaia di missioni di bombardamento della Nato, cui noi partecipiamo, hanno già prodotto centinaia di morti di civili. Noi uccidiamo e non proteggiamo.
Siamo intervenuti in una guerra civile sostenendo una parte contro l’altra senza nemmeno sapere chi sono quelli che diciamo di sostenere.
E finanziamo la rivolta con decine di milioni di euro. Tutto questo non è nemmeno scritto nella risoluzione dell’Onu.
Senza nessuna legittimità noi puntiamo all’uccisione del capo di uno Stato sovrano. E questo assassinio, già eseguito contro uno dei suoi figli, viene pubblicamente auspicato e conclamato dai capi delle potenze occidentali di cui siamo alleati. Stiamo assistendo inerti a un ritorno alla barbarie.
La vergogna di questo atteggiamento infame deve essere distribuita equamente tra tutte le forze politiche italiane. Solo rare voci si levano a protestare. Il pacifismo è inerte e tace anch’esso.
Ma noi non possiamo accettare in silenzio tutto ciò. Non è in nostro nome che si uccide, violando ancora una volta la nostra Costituzione.
Noi non abbiamo voce, ma vogliamo parlare a chi è ancora in grado di ascoltare. Questa aggressione deve finire.
Primi firmatari:
Angelo Del Boca
Giulietto Chiesa
Massimo Fini
Maurizio Pallante
Fernando Rossi
Luigi Sertorio
Nicola Tranfaglia
Francesco Badalini
Marino Badiale
Monia Benini
Pier Paolo Dal Monte
Ermes Drigo
firmare qui
Eric Salerno: con le “rivoluzioni” arriverà la destabilizzazione
Negli ultimi mesi vari paesi dell’Africa mediterranea e del Medio Oriente hanno visto insurrezioni popolari più o meno spontanee: Tunisia, Algeria, Egitto, Bahrein, Iran, Libia, Marocco. Altre si profilano all’orizzonte in regioni limitrofe, come in Siria per esempio.
Si parla di “primavera araba” e di “effetto domino” mentre alcuni analisti osservano come invece da parte della comunità internazionale si stia portando avanti la politica di due pesi e due misure influenzata da convenienze economiche e strategiche. Ne parliamo con Eric Salerno, profondo conoscitore della Libia e del Medio Oriente, inviato del quotidiano Il Messaggero, scrittore e saggista, autore tra gli altri di Genocidio in Libia: le atrocità nascoste dell’avventura coloniale; «Uccideteli tutti». Libia 1943: gli ebrei nel campo di concentramento fascista di Giado. Una storia italiana; Mossad base Italia. Le azioni, gli intrighi, le verità nascoste.
Intervista di Annalisa Melandri — www.annalisamelandri.it
A.M. – Eric, si può parlare di “effetto domino” rispetto alle varie insurrezioni popolari che negli ultimi mesi hanno sconvolto alcune regioni dell’Africa mediterranea e del Medio Oriente o crede che sia necessario fare delle opportune distinzioni?
E.S. - L’effetto domino, in qualche modo c’è, ma questo non significa che tutte le situazioni sano uguali tra di loro. E soprattutto non significa che tutte le insurrezioni sono nate e poi sono proseguite nello stesso modo. Diventa sempre più chiaro che “forze esterne” hanno dato una mano a mandare avanti i giovani, non soltanto sfruttando il web ma anche con un coinvolgimento più diretto per indirizzare le rivolte. Tutti i regimi toccati, in un modo o in un altro, sono giustamente nel mirino di chi vuole vivere meglio.
A.M. – Perché in Libia si è intervenuto militarmente e altrove no? E’ l’ennesima guerra per il petrolio e quindi in un certo senso il risveglio del colonialismo europeo?
E.S. - Io non credo tanto alla questione del petrolio. Le compagnie petrolifere occidentali – Italia, Francia, Stati Uniti in primo piano –già operavano in Libia. Credo piuttosto a convenienze particolari: Sarcozy aveva bisogno di recuperare consenso nei sondaggi interni, il premier britannico anche. Obama invece è stato trascinato in una guerra perché è stato convinto, dopo giorni di esitazione, che Gheddafi si apprestava a massacrare la popolazione di Bengasi. Dunque, si è mosso convinto di agire per motivi umanitari. Vorrei, a questo proposito, sottolineare il ruolo di alcune televisioni, come Al Jazeera, nel promuovere l’intervento straniero. Hanno sposato fin dal primo momento la causa dei ribelli. Un’azione, a quanto pare, caldeggiata dall’emiro del Qatar a cui la televisione satellitare araba fa capo. Non dimentichiamo che dopo due giorni di scontri a Bengasi, i giornali di mezzo mondo hanno ripreso notizie non controllate e titolato “Oltre diecimila morti”, “Fosse comuni” a Tripoli. Due falsità che gli stessi inviati arrivati sul posto hanno dovuto riconoscere. (altro…)
Guerra in Libia: la rete ha ucciso la piazza?
“E’ con grande piacere che do il benvenuto al ministro Gheddafi al Dipartimento di Stato. Noi attribuiamo grande valore alle relazioni tra gli Stati Uniti e la Libia. Abbiamo grandi opportunità per approfondire e ampliare la nostra cooperazione e personalmente ho la ferma intenzione di consolidare i nostri rapporti. Pertanto, signor ministro, sia il benvenuto tra noi”. (21 aprile 2009. Mutassim Gheddafi viene ricevuto con tutti gli onori a Washington da Hillary Clinton)
Il mondo è in guerra. L’ennesima guerra neocolonialista-imperialista, questa volta per impossessarsi delle riserve di petrolio della Libia.
L’aggressione è stata realizzata tanto velocemente (il tempo per l’ennesima ridicola riunione del Consiglio di Sicurezza dell’ ONU) quanto evidentemente criticabile da ogni punto di vista, soprattutto da quello dello stesso diritto internazionale con il quale pure vorrebbe legittimarsi. Non può essere infatti sostanzialmente valida una risoluzione internazionale emessa ad hoc a legittimare un intervento armato con lo scopo di imporre la democrazia, quando l’organismo che la emette diventa strumento nelle mani delle potenze mondiali. Perché infatti non si è mai intervenuto allo stesso modo contro Israele, che continua impunemente, anche in queste ore, a commettere un vero e proprio genocidio sistematico contro il popolo palestinese?
Più passano le ore e più, nel caos e nella confusione di dichiarazioni, smentite, dubbi sui ruoli e finanche sullo scopo, l’intera operazione si profila come la stessa campagna mediatica che l’ha preceduta: maldestra, confusa, improvvisata e grossolana.
Con quelle tombe in costruzione fatte passare per fosse comuni, con i bombardamenti inesistenti su Tripoli, smentiti allegramente dall’ambasciatore italiano e dal vescovo di Tripoli che proprio in questi giorni sta parlando di guerra assurda e sta invocando la “mediazione per risolvere i conflitti” (non era la stessa cosa che diceva Chávez qualche settimana fa?), bufale colossali, come i 10.000 ribelli morti e gli oltre 50.000 mila feriti, che quasi nemmeno il terremoto e lo tsunami in Giappone. Bufale che gli stessi ideatori e disinformatori di professione hanno dovuto ritirare in fretta e furia dal mercato di fronte all’evidenza dei fatti.
Campagna mediatica evidentemente grossolana proprio perché si è reso evidente il fatto che non era necessario uno sforzo disinformativo eccezionale. Si disinforma chi potrebbe, di fronte all’evidenza dei fatti, reagire in qualche modo. Chi avrebbe dovuto reagire a questa nuova guerra, e come? L’ opinione pubblica internazionale?
Perché esiste l’opinione pubblica internazionale? Di cosa o chi stiamo parlando? Di quell’ “indignazione morale condivisa per infrazioni evidenti del comandamento contro la violenza e per massicce violazioni dei diritti umani”?[1] Dove sta? Dove e come si esprime? Chávez a l’intera coalizione dell’Alba, da sud tuonano contro le mire neocolonialiste di un pugno di stati che credono che le lancette del tempo siano ancora ferme al XIX secolo, Putin, da nord parla di “crociata medievale”… In mezzo c’è l’Europa, confusa politicamente e con la voce del suo popolo, della sua gente completamente assente oggi.
Dove stanno? Dove sono le voci dei popoli? Gli unici a levare proteste contro la guerra sono alcuni presidenti, qualche governo, qualche intellettuale… Dove sono i giovani? Dove sta il sentimento pacifista che ha animato in passato le strade e le piazze europee e che è stato il fondamento, il pilastro di tutti i movimenti giovanili? Dove stanno le bandiere della pace che hanno colorato le strade e le piazze europee tra il 2002 e il 2003? Si calcola che allora in Italia quasi tre milioni furono i balconi e le finestre dove il vessillo multicolore indicava che in quella casa, in quell’ufficio, in quella scuola si stava esprimendo un forte e chiaro NO alla guerra! E le moltitudinarie proteste del febbraio 2003…
Questa è la ricostruzione che fa di quel sabato 15 febbraio 2003 lo storico statunitense J.J. Sheehan[2]: “Sabato 15 febbraio 2003 si tenne la più grande dimostrazione della storia europea, contro la guerra che stava per colpire l’Iraq. A Londra una folla di circa un milione di persone si riversò in Trafalgar Square, riempiendo le strade cittadine dagli argini del Tamigi alla Euston Station; un milione di manifestanti marciò a Barcellona e a Roma, altri 600.000 a Madrid. A sfidare il gelo al Tiergarten di Berlino furono in 500.000, un numero quasi pari ai partecipanti alla Parata dell’Amore che vi si teneva in estate. Si trattava ovunque di folle pacifiche. Ci furono pochi arresti, nessun episodio di violenza. Le dimostrazioni attirarono una ricca varietà di partecipanti: c’erano alcuni adolescenti vestiti in pelle e con l’aria da duri e giovani che indossavano la kefiah palestinese o la sciarpa nera degli anarchici, ma nella stragrande maggioranza dei casi si trattava di cittadini dall’aspetto rispettabile, che indossavano caldi cappotti invernali e scarpe comode – pensionati, accademici di mezza età, membri dei sindacati, studenti delle superiori e universitari. C’erano tante famiglie, genitori e nonni che non partecipavano a una dimostrazione dagli anni Sessanta, bambini che per la prima volta facevano l’esperienza di quel caratteristico miscuglio di euforia e disagio delle manifestazioni politiche. Un quotidiano tedesco definì l’evento «una rivolta di persone comuni»…. Diversamente da chi in passato aveva manifestato contro la guerra in Vietnam, nessuno mostrava alcuna simpatia per l’altra parte; non c’erano bandiere irachene né ritratti di Saddam Hussein. Per la maggior parte di quelle persone, il vero problema non era chi aveva ragione e chi torto, ma se la guerra potesse essere considerata una risposta.”…In tutte le città coinvolte, guardando al di sopra della marea umana, la scritta che appariva più spesso era composta da una sola parola: «No».
Sicuramente, come si è visto, le proteste nulla hanno potuto contro la guerra, che a distanza di 8 anni continua cruenta ancora oggi. Tuttavia esprimevano un sentire comune, se non dei governanti, quanto meno dei governati. Esprimevano un sentimento che riuscì anche solo per un breve, anche se inutile momento, ad uscire dalle pance e a riversarsi nelle strade.
Guardando indietro con gli occhi di oggi, guardando oggi da questa Europa folle che, nel tentativo di contrastare “l’unilateralismo missionario” dell’interventismo statunitense di allora, riesce oggi ad essere soltanto una ridicola caricatura di se stessa, vediamo tuttavia che, l’ottimismo di alcuni intellettuali dovuto allora alla contemporaneità di quelle moltitudinarie proteste contro la guerra, appare oggi sicuramente esagerato. Junger Habermas e Jacques Derida nel loro appello dal titolo: Il 15 febbraio: ovvero, ciò che unisce gli europei auspicavano, credendola possibile, “la nascita di un’opinione pubblica europea” proprio a partire da quelle grandi e sentite manifestazioni di pacifismo, le “più grandi dalla fine della seconda guerra mondiale”. Oggi, rispetto ad allora, resta simile soltanto la spaccatura europea rispetto al ruolo della politica estera del continente. E all’interno dei singoli Stati le spaccature sulle posizioni da tenere, rendono tutto il gioco guerrafondaio ancora più sguaiato e meschino. Ai rumori della guerra fa eco il chiasso della politica e tutto intorno il silenzio…
Spostando la visuale, infatti, guardandoci da fuori, noi “persone comuni” del 2003, dove siamo oggi? Dove sta la nostra rabbia contro la guerra? Dove sono i nostri giovani?
Io lo so e il saperlo mi riempie di tristezza e inquietudine. I nostri giovani stanno tutti al pc. Seguendo giorno per giorno gli avvenimenti. Certo, partecipando, scrivendo (come sto facendo io stessa in questo momento), dibattendo, insultando questo o quel politico, Berlusconi come Sarkozy, Obama come Cameron, manifestando dissenso e rabbia, esponendo foto e scritte come si fa con gli striscioni in piazza.
Io non credo che sia casuale tutto questo. Io credo, sono fermamente convinta, che la rete sia una grande conquista della comunicazione, che sia una grande opportunità di crescita e di condivisione, di comunicazione e di scambio, di esperienze, di lotte, di battaglie e di informazioni. Credo però anche che sia mancato uno studio serio e intelligente degli effetti che questo mezzo avrebbe potuto avere sulla militanza, sulla protesta, sul dissenso. E questo ci ha fregati. Abbiamo pensato, nelle lunghe giornate d’inverno, o al fresco delle nostre case nelle estati assolate e torride, che fare e produrre informazione comodamente seduti davanti ad un monitor fosse in qualche modo costruttivo. Abbiamo pensato che scrivere, e scrivere, e condividere notizie, e produrre dibattito, fosse una maniera diversa e più acculturata di apportare il nostro contributo alle cause in cui credevamo e crediamo. Abbiamo pensato che far girare e condividere in migliaia di siti le orrende foto degli eccidi israeliani al fosforo bianco sui bambini palestinesi volesse dire contribuire in quale maniera a quella causa. Abbiamo pensato che mettere la bandiera della pace nelle nostre pagine web o nei nostri avatar fosse come mettercele addosso o esporle alle nostre finestre.
Sbagliavamo. Le piazze si sono svuotate, i cortei si sono fatti più silenziosi e noiosi, i colori sono lentamente sfumati. Nessuno grida più, nessuno torna a casa la sera stanco, sudato e senza voce dopo un corteo, tutti appaiono stanchi invece di tanto sbraitare e urlarsi addosso rabbia virtuale nei social forum.
Il potere ha vinto. La fantasia non è riuscita a dominarlo. In passato soffocata da tonnellate di droghe gettate addosso alle menti migliori, quelle più fervide e ribelli, poi livellata con il ventennio uniforme e squallido dell’avvento delle televisioni commerciali (che ha dato il colpo di grazia a cultura e originalità), così oggi, i centri di potere, dandoci l’illusione della libertà di espressione, facendoci credere di essere tutti partecipativi nella creazione globale dell’informazione, con quel mezzo diabolico e terribilmente geniale e seducente che è internet, hanno controllato, con meno morti e meno diffusione di malattie, ogni velleità rivoluzionaria dei giovani.
In piazza a Roma la settimana scorsa contro la guerra hanno manifestato una cinquantina di persone, il gruppo in Facebook Fuori l’Italia dalla Guerra in Libia conta 697 persone, il gruppo No alla guerra in Libia piace a 150 persone, No alla guerra contro la Libia piace a 300 persone, Io non voglio la Guerra in Libia piace a 792 persone e così via…
Paradossalmente proprio questi mezzi, internet e i suoi social Forum Facebook e Twitter, proprio quelli che hanno contribuito a creare adesione e consenso intorno a tanti militanti di alcuni paesi lontani da noi sia geograficamente che culturalmente , sono stati quelli che li hanno maggiormente isolati, chiudendoli dentro le maglie repressive della rete.
La rete, quella è la vera piazza oggi. Questa è la vera sconfitta. La nostra e del pacifismo, violento o non violento che sia, più educato e rispettoso o sguaiato e rabbioso, non importa il modo o la forma. E’ la sostanza che manca, la grande assente. Questa, signori, è la sonora e scottante sconfitta della militanza.
[1] J. Habermas, L’Occidente diviso, Editori Laterza, Roma-Bari 2005
[2]J.J. Sheehan L’età post-eroica Guerra e pace nell’Europa contemporanea (Laterza)
Manuel Olate, ennesima vittima delle manipolazioni sul computer di Raúl Reyes
Sono stati finalmente concessi il 4 dicembre scorso gli arresti domiciliari al compagno cileno Manuel Olate, arrestato a Santiago il 29 ottobre con l′accusa di terrorismo e di essere l′ anello di congiunzione tra la guerriglia colombiana delle FARC e i Mapuche cileni. Manuel altro non è invece che l′ennesima vittima dell´ inutile tentativo del governo colombiano di isolare politicamente a livello internazionale le Forze Armate Rivoluzionarie della Colombia (FARC).
Inutile perché la solidarietà che riscuotono le FARC nel mondo è direttamente proporzionale alla repressione e alla violenza subita dal popolo colombiano dal terrorismo di Stato e dalla sua “pulizia” politica.
Membro del Partito Comunista Cileno e del Movimento Continentale Bolivariano e responsabile del Movimento di Solidarietà per la pace in Colombia, Manuel era stato arrestato in base ad un ordine di detenzione emesso dal Ministro della Corte Suprema del Cile Margarita Herreros che in questo modo rispondeva a una richiesta di estradizione proveniente dalla Colombia.
Le prove della sua colpevolezza sarebbero venute fuori, a detta del governo colombiano, ancora una volta da quel vado di Pandora che è il computer portatile del numero due delle FARC, il comandante Raúl Reyes. Manuel , in base ad alcuni documenti, sarebbe stato accusato di essere un tal “Roque” presunto finanziatore delle FARC in Cile. In questi giorni la sua difesa sta lavorando alacremente (anche per affrontare il processo nel quale si discuterà della sua estradizione in Colombia) per dimostrare invece che Manuel Olate è soltanto un simpatizzante politico del gruppo insorgente colombiano e che non ha nulla a che vedere con il presunto “Roque”. (altro…)